Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.
Le telecamere lo hanno cercato nei momenti più tempestosi della partita, come un regista cercherebbe, potendo farlo, gli occhi di un uomo che assiste a un naufragio dalla spiaggia. Ma che, nonostante la distanza, non si sente sicuro. I suoi occhi giganti riflettevano come due pozze d’acqua le luci dello stadio e si capiva che aveva qualcosa da perdere, tutto da perdere. In un evento che sembrava trascendere il piano individuale persino di Lionel Messi, andando persino oltre la mistica di un suo gol vincente (addirittura di due suoi gol vincenti), della sua “umanizzazione”, gli occhi di Angel di Maria ci tenevano inchiodati all’aspetto più umano di tutta quella faccenda. Eravamo in Qatar, l’Argentina stava giocando la sua seconda finale di Coppa del Mondo nelle ultime tre edizioni e per la sua generazione non ce ne sarebbe stata un’altra. Avevano vinto la Copa America un anno prima, vendicando le due finali perse con il Cile nel 2015 e 2016, ma non ci sarebbe stata un’altra possibilità di vincere un Mondiale. E quello che stava succedendo, dopo che lui aveva lasciato il campo con la sua squadra saldamente in controllo della partita, quasi in porto, per continuare con la metafora della tempesta e del naufragio, era semplicemente troppo. Di Maria si nascondeva il volto con le mani, lo infilava nella maglia, ma erano gesti che non facevano che amplificare la sua emotività, che anziché nasconderlo lo mettevano ancora di più a nudo.
Nella Coppa del Mondo giocata in Qatar nell’autunno 2022 (perché tutti parlano di inverno se ufficialmente comincia il 21 dicembre?) ci sono state due finali. La prima è durata poco più di un’oretta ed è la finale di Angel Di Maria. Una partita bella solo per l’Argentina, sempre in controllo tecnico, superiore a una Francia del tutto impreparata, che forse pensava di poter vincere un Mondiale senza neanche doverla giocare, la finale. Sessantatré minuti di calcio “artistico”, palleggiato con la leggerezza di un’esibizione ma portato alle sue più spietate conclusioni: due gol in poco più di mezz’ora, con gli avversari spazzati via dal campo come le briciole rimaste sulla tovaglia dopo il pranzo di Natale, con un gesto unico con cui la si apre nel vuoto fuori dalla finestra. La seconda finale è quella senza Angel Di Maria, in cui l’Argentina ha perso il controllo e la Francia ha iniziato a giocare. Come se Di Maria fosse stato al tempo stesso la trazione anteriore argentina e il freno francese (della sua importanza tattica hanno scritto benissimo Fabio Barcellona e John Muller). Nella prima finale la Francia non ha mai calciato verso la porta avversaria, la seconda però è diventata il luna park di Mbappé, la discesa agli inferi di Messi e la sua definitiva ascesa al cielo, come se il paradiso si trovasse scavando nell’inferno.
Di Maria ha fatto da spettatore alla porzione più epica della finale, quella che fa parlare qualcuno già di “partita del secolo”, ed è quasi un peccato che gli eventi abbiano cancellato i presupposti che lui più di ogni altro aveva creato per la vittoria argentina. Di Maria ha scritto la storia del calcio argentino in sessanta minuti, ma lo ha fatto sulla sabbia. Così passa in secondo piano persino la scelta di Scaloni, niente affatto banale nel contesto di un Mondiale in cui aveva dato forma alla sua Argentina proprio senza Di Maria ma anche nel contesto più generale della loro storia. Dopo le finali perse nel 2014, 2015 e 2016, Di Maria come Messi stava per lasciare la Nazionale e poi ancora nel 2018 dopo il disastro di Sampaoli, ma fu anche Scaloni (assistente e poi allenatore ad interim) a dirgli di restare. Dopo il terzo posto in Copa America, nel 2019, Scaloni non lo ha convocato per qualche partita e Di Maria se ne è lamentato pubblicamente: «La Selección per me è l’unica cosa che conta, il massimo», ha detto, e anche: «Mi rompo il culo nel club per poter far parte della Selección». Di Maria aveva contribuito a portare il PSG in finale di Champions League, un’altra finale persa, e Scaloni lo ha chiamato dicendogli: «Come faccio a non tornare a convocarti? La squadra sta bene, voglio vedere giocatori». Poi i due si sono messi a piangere al telefono.
Se fosse finita dopo sessantaquattro minuti forse avremmo comunque ricordato la finale con la Francia come la partita di Lionel Messi, certo, ma ci saremmo anche ricordati di aggiungere, magari scritto in piccolo, o tra parentesi: “e di Angel Di Maria”. Come in tutti i momenti decisivi dell’Argentina, c’è Messi e c’è anche Di Maria. Sempre decisivo, dalla semifinale del Mondiale Under 20 contro il Cile nel 2007, passando per la finale del torneo maschile di calcio dei Giochi Olimpici del 2008, contro la Nigeria, e arrivando al gol in finale di Copa America con il Brasile, nel Maracanà vuoto del 2021. Ma vanno messi in questa prospettiva anche il con cui ha risolto la partita con la Svizzera nei supplementari nel 2014, quello con cui ha pareggiato anche solo per un attimo quella con la Francia del 2018. Volendo, possiamo aggiungere il gol nella finale di Champions League del 2014, quello che nei supplementari spezza di colpo un Atletico che si era piegato solo nei minuti di recupero del secondo tempo, che non è un gol di Di Maria ma di Gareth Bale, in cui Di Maria però fa la giocata decisiva passando tra Miranda e Juanfran con una croqueta elettrica, una scintilla accesa al capo di una minaccia che esplode in testa a Bale.
Di Maria e Messi hanno dialogato per tutti questi anni come due mani che applaudono a ritmo. Se Messi è stato il sole al centro della bandiera bianca e azzurra Di Maria è stato il vento che le ha dato vita nei momenti cruciali. Titolare a sorpresa, a sinistra sorpresa, il punto forte della strategia di Scaloni premeva proprio sul punto debole della gestione di Deschamps, su quel lato destro dove né Dembélé né Koundé (che ormai tutti hanno dimenticato essere esploso a Siviglia come centrale difensivo) erano in grado di difenderlo. La superiorità tecnica di Di Maria, prima ancora del rigore procurato o del gol del 2-0, è stata evidente già al terzo minuto, quando ha controllato un lancio in diagonale di Romero con tre tocchi: il primo di spalla, il secondo di collo sinistro per riavvicinarsi la palla, il terzo di coscia per allontanarsi da Koundé. Con il quarto tocco la passa a Tagliafico, rasoterra, Tagliafico la rialza per De Paul che la ridà a Di Maria passando sopra la testa di Koundé. Come si deve sentire un giocatore messo in mezzo in questo modo da gli avversari? Non è un allenamento, non è un rondo, eppure lo sembra. Di Maria poi prova a passare tra Koundé e Dembélé ma lo fermano in fallo laterale. Le telecamere lo hanno cercato anche dopo questa prima azione, stavolta però cercando il suo sorriso.
Una rarità per Di Maria, sempre in bilico, forse il più sofferente in una nazionale che ha costruito il proprio successo sulla memoria fisica e mentale del dolore. Da ragazzo era considerato troppo leggero, un allenatore voleva che si scontrasse con gli avversari e lo chiamava “cagasotto”. Uno spaghetto in equilibrio precario sulla punta della forchetta, tra il farcela o il fare la fine del padre, promessa vicina al River finito a vendere carbone dopo essersi rotto i legamenti. Anche negli ultimi anni quando lo insultavano e qualcuno gli diceva che non lo costringeva nessuno a giocare con la nazionale, che poteva tranquillamente starsene a sorseggiare «un caffé sotto alla Torre Eiffel» lui rispondeva che preferiva gli insulti di 45 milioni di persone ma indossare la maglia dell’Argentina. Ha avuto il suo riscatto in un Mondiale strano, pieno di sorprese, in cui anche i migliori giocatori al mondo sembravano scoprire il calcio per la prima volta in vita loro. La “mossa Di Maria” è stata la più decisiva, quella che ha messo ordine, che ha tirato una riga tra una Francia che viveva nel momento, con l’agio di chi pensa che il giorno dopo, o il mese dopo, o quattro anni dopo, ne giocherà un’altra di finale mondiale, e un’Argentina che avrebbe fatto di tutto per influenzarlo, quel momento irripetibile.
Nessuno, mai, ha davvero il controllo su una partita di calcio, neanche il più forte giocatore al mondo. Ma una squadra può provare a iniziarla nel modo che preferisce, nel modo in cui si sente sicura, in cui spera di piegare l’inerzia a suo favore. E per l’Argentina quel modo era finire a giocare nell’angolo in alto a sinistra del campo, dove Angel Di Maria avrebbe saputo cosa fare. Crossare (ne ha fatti tre nei primi undici minuti, con uno ha mandato al tiro De Paul dal limite, il primo vero pericolo, con un altro se non fosse stato per Tchouameni avrebbe mandato al tiro Messi dal dischetto) o puntare l’avversario. Ipnotizzarlo con il suo sguardo da Conte Dracula, sbilanciarlo su un lato per passargli affianco dall’altro, con la palla incollata al suo piede, a pochi millimetri, a portata di mano quanto può esserlo una nuvola di fumo a forma di Di Maria. D’altra parte quando hai i due giocatori che la palla la trattano meglio in campo, i due che con la palla hanno il rapporto più intimo, diventa difficile per gli avversari difenderti. Deschamps si aspettava la centralità di Messi, forse ha sottovalutato quella di Di Maria.
Dopo venti minuti si procura il rigore e gioca con ancora maggiore leggerezza. Poco dopo resiste alla pressione di Dembélé, a metà campo, mettendosi a correre verso la propria trequarti, salvo poi aggrapparsi a un palo invisibile e girare su stesso, su una monetina. Dembélé, ovviamente, ha proseguito la corsa come Willy il Coyote verso una galleria disegnata sul muro. Dopo il 2-0 gestisce un pallone a centrocampo scavalcando Dembélé con un sombrero, passandola a Enzo Fernandez alle sue spalle come se, ancora, Dembélé fosse finito in mezzo a un rondo. Il secondo gol argentino è un capolavoro di squadra: il passaggio con cui Molina trasforma un passaggio sbagliato di Upamecano nell’occasione di ripartire, la sponda di Mac Allister per Messi, la rifinitura di esterno del numero 10, il movimento a smarcarsi sull’esterno di Julian Alvarez, l’inserimento ancora di Mac Allister e il suo passaggio per Di Maria. Ma poi c’è la sua conclusione incrociata, con quella pressione esercitata dall’alto in basso sulla palla che la fa alzare, di poco, sopra il corpo di Loris in uscita (una tecnica di tiro, o di passaggio, che usava spessissimo Mesut Ozil). Di Maria ha segnato sia in finale dei Giochi Olimpici che di Copa America - anche contro l’Italia nella Finalissima - in pallonetto, qui non ce n’è stato bisogno, ma sempre sopra al portiere ha messo la palla, dove non potrebbe prenderla in nessun modo.
Già dopo il gol, quando si è inginocchiato e i suoi compagni gli hanno fatto una capanna umana intorno e sopra, Di Maria ha iniziato a piangere, il suo volto si scioglieva come quelli dei dipinti di Munch. Ma era un’emozione diversa da quella insopportabile che avrebbe provato dopo. Era la conclusione di qualcosa, la chiusura di un cerchio. Nelle sue lacrime dietro al gesto del cuore, un po’ inautentico a confronto delle lacrime stesse, c’era tutta la sua storia ma anche quella degli ultimi otto anni vissuti dall’Argentina. Tre finali perse e due vinte (compresa quella con l’Italia). Adesso il conto è pari. La generazione di Messi, Di Maria, Aguero, Otamendi (in cui sono passati anche giocatori come Higuain, Pastore, Banega, l’ultimo Mascherano) ha messo il punto. La Francia ha provato a guastargli la festa, ad appropriarsi di una storia non sua, a scrivere un finale drammatico a un film che a quel punto sarebbe stato indigeribile, difficile da ricordare con piacere. Ma quella, come detto, era già un’altra finale. Quella dell’Argentina a cui già mancava Angel Di Maria.