
La finale è andata via veloce e terribile come un brutto sogno. Quando si è svegliata, però, Amanda Anisimova aveva i piedi sull’erba di Wimbledon col piatto della sconfitta in mano, e non era un sogno: aveva giocato la finale a Wimbledon e aveva perso 6-0, 6-0. Ora aveva il microfono davanti a un intero stadio, fatto di persone deluse e che di certo avevano pagato troppo per quella partita così veloce. Ora la guardavano, aspettando il suo discorso.
Non c’è nessun altro sport che obbliga lo sconfitto a prestarsi a un discorso ancora in campo, col corpo ancora caldo. Il tennis costringe invece a raccogliere tutta la dignità e la diplomazia di cui disponi, per imbastire una serie di frasi che ti facciano apparire dignitoso nella sconfitta. Lo stoicismo è un valore importante, di questo strano sport: esibire la propria resistenza morale. Attraversare tutta l’asprezza del mondo e alla fine, però, dimostrare di essere ancora una persona.
Amanda Anisimova era uscita per un paio di minuti a fine partita, altrimenti non ce l’avrebbe fatta, a sostenere quel discorso. Tornata in campo il suo sorriso non riusciva a nascondere la sua tristezza. Il fatto che avesse pianto a dirotto negli spogliatoi. Forse è per questo che il pubblico la applaude con un calore particolare: il tennis è spietato e per questo gli spettatori ci tengono a non far sentire soli i giocatori.
Amanda Anisimova piange e sembra non poter mai cominciare a parlare, e forse pensavamo di trovarci davanti a qualcosa di simile a quando Murray parlò con la voce di Paperino dopo una finale persa. Invece, scrollate le prime lacrime, Anisimova inizia un discorso pieno di onestà e sentimenti. Rende merito a Iga Świątek, e ringrazia il pubblico mortificata per lo spettacolo scadente: «Credo di essere arrivata scarica oggi e speravo di avere una performance migliore. Eppure voi ci siete comunque per me e mi avete sostenuta». Poi quando guarda verso sua mamma, seduta in tribuna, che ha volato la mattina per essere presente, si scioglie: «Mia mamma ha fatto più lavoro di me (…). È la persona meno egoista che io conosca. Ha fatto tutto per me per portarmi a questo punto della mia vita». Sotto gli occhiali da sole della madre scende una lacrima.
Sua madre è l’unico genitore che le è rimasto. Suo padre Konstantin, che era anche il suo allenatore, è morto per arresto cardiaco nel 2019. Amanda Anisimova aveva 17 anni. Era considerata un prodigio; due anni prima aveva vinto gli US Open juniores in finale con Coco Gauff. Poche settimane prima si era rivelata al mondo raggiungendo la semifinale al Roland Garros, facendo parlare del suo rovescio commovente.
Come avrebbe potuto continuare ad avere successo nel tennis se colui che l’aveva fatta nascere, come persona e come tennista, non c’era più?
Per raggiungere un’altra semifinale le ci sono voluti sei anni, dentro cui ha dovuto rimettere insieme i propri pezzi, trovare un nuovo equilibrio nel mondo senza l’appoggio di suo padre. Ha assunto Carlos Rodriguez, allenatore che in passato ha aiutato Justine Henin a superare la morte di suo padre. «È ovviamente la cosa più dura che mi sia capitata nella vita. Non ne ho parlato con nessuno, davvero. L’unica cosa che mi ha aiutato è stato essere in campo e giocare a tennis. L’unica cosa che mi rendeva felice». I suoi genitori si erano trasferiti in New Jersey da Mosca nel 1998, a causa della crisi economica e per dare un futuro a sua sorella Maria - che oggi lavora in banca e nel 2018 è nella lista di Forbes dei 30 Under 30 influenti nella finanza.
In questi sei anni Anisimova ha vissuto fortissimi alti e bassi. La tristezza se ne andava e poi tornava. Per tre anni ha ottenuto scarsi risultati, poi nel 2022 sembrava essere di nuovo competitiva. Diceva: «L’anno scorso il tennis non era la mia priorità. Non riuscivo a godere del tennis. Sono felice di aver trovato di nuovo il mio tennis, di giocare divertendomi». Chissà se in quel momento ha pensato che i suoi problemi fossero finiti. In un’intervista al New York Times del 2020, ha dichiarato che la morte di suo padre è arrivata «troppo presto».
Lo scorso anno, dopo qualche sconfitta deludente, non si riconosceva più - di nuovo. Non provava più gioia a fare gli allenamenti, a giocare i tornei, soffriva di ansia e attacchi di panico. Dentro una partita, nei momenti di maggiore pressione, il tennis rivela veramente chi sei, e non concede fragilità. Quando la tensione sale Anisimova si ricorda di respirare. «Le partite di tennis sono sempre stressanti. Intendo l’intera partita». A quel punto ha deciso di prendersi un periodo sabbatico lontano dalle competizioni. In molti le dicevano fosse un errore: se si fosse assentata dal tennis per troppo tempo non sarebbe più riuscita a tornare al top.
Bisogna conoscere l’insieme dei fatti per avere presente la densità emotiva del discorso di Anisimova, mentre era devastata sul prato del centrale di Wimbledon, dopo aver perso una partita senza dimostrare neanche un briciolo del proprio talento. Non riuscire a dimostrarlo proprio nel momento in cui era più importante farlo.
C’è stata tanta delusione nel pubblico per questa finale. Si sono usati termini come “imbarazzo” o “vergogna” per commentarla. Se non vi è piaciuta lo capisco: cosa c’è di bello in una partita dall’esito scontato, in cui una delle due tenniste non è nemmeno scesa in campo?
Eppure è anche questa la bellezza del tennis, o quanto meno il suo realismo. Non ci sono timeout o lunghe pause che permettono agli atleti di azzerare facilmente le cattive sensazioni. Ritrovare un po’ di calma e ispirazione. L’orologio continua ad andare, l’andamento dei punti è incessante, e mentre tu ti trovi nel peggior luogo mentale possibile, la tua avversaria - Iga Swiatek - continua a incendiare il campo col tennis più esatto e potente che si possa immaginare. E allora lo spettacolo diventa quello di Anisimova che crolla a pezzi, abbandonata completamente dal suo tennis. E noi ci sentiamo a disagio per lei: sperimentare la rappresentazione del fallimento.
Questo non dice nulla sul valore di Amanda Anisimova o sul tennis femminile. Anche questo è lo sport: fallire nel modo più totale e misero possibile. E più è prestigioso il contesto in cui fallisci, più è grande il senso di vergogna. Ciascuno di noi ha fallito in modo assoluto e schifoso nella propria vita, almeno una volta, ma non lo ha fatto in mondovisione. Eppure sappiamo che esiste nello sport quella possibilità, remota e proprio per quello affascinante, che una squadra o un’atleta offra una prestazione indecente. È successo all’Inter poche settimane fa. Mentre però è più facile, e anche meno crudele, infierire verso una squadra e un popolo di tifosi, lo è molto di più verso un singolo individuo che ha dovuto sopportare nelle proprie ossa e sulla propria pelle quel fallimento. Come si fa non sentirsi vicini ad Amanda Anisimova dopo la partita di ieri? Dopo tutta la strada che ha fatto per essere lì?
Sono trascorsi 114 anni da quando era successo l’ultima volta a Wimbledon e ne sono passati 37 da quando è successo in una finale Slam in generale. Era il 1988 e Steffi Graf aveva infierito contro la povera diciassettenne Zvereva (una partita vinta in 35 minuti). Dobbiamo quindi parlare di più di Iga Swiatek, che ha vinto 6 finali Slam su 6.
Swiatek era arrivata al massimo ai quarti di finale a Wimbledon, nella sua carriera, e ha vinto lasciando due game nelle ultime due partite giocate, tra semifinale e finale. Swiatek sembra poter raggiungere un livello di concentrazione inarrivabile per le altre giocatrici. Durante il match è sembrata animata da un’energia supplementare, che forse veniva dal dolore delle proprie sconfitte. Per la prima volta in carriera aveva chiuso la stagione su terra, la sua superficie preferita, senza vincere nemmeno un titolo. La squalifica per doping deve averle fatto perdere delle certezze mentali; e questo percorso a Wimbledon è stato un gigantesco sospiro di sollievo. Ha giocato con l’energia di chi ha ritrovato se stessa al massimo delle proprie possibilità, e ne è confortata.
Come si fa a rimanere così concentrati mentre la tua avversaria cade a pezzi? Non è facile non farsi trascinare in un tennis di errori e sciatterie. Ci sono quel tipo di sportivi o di squadre, che però si sentono perfettamente a loro agio a infierire. A non lasciarsi contaminare dal contesto, così isolati nel proprio delirio efficientista da non cedere ad alcun compromesso con le circostanze. Non è una critica: essere spietati è la migliore forma di rispetto possibile; ma è un’attitudine che dice molto, nel bene e nel male, dell’isolamento in cui vive Iga Swiatek. La perfezione nel tennis non è né raggiungibile né auspicabile, ma Swiatek talvolta riesce ad avvicinarcisi; quando le condizioni della partita glielo permettono - quando per esempio può fare corsa di testa, e sente il suo tennis aggressivo e i movimenti elettrici delle sue gambe. Quando l’avversaria non riesce a metterle nemmeno un dubbio nella testa. Questo agio ha il suo risvolto nel disagio quando le cose non vanno proprio come Swiatek immagina. È uno dei motivi, forse, per cui Swiatek non piace: essere in lotta più con se stessa che con l'avversaria. È un modo introverso di vivere l'agonismo, incomunicabile.
Anisimova è una colpitrice eccezionale, specie dal lato del rovescio, ma Swiatek sembrava arrivare ai suoi colpi rilassata. E questo trasmetteva ansia ad Anisimova, che all’inizio cercava righe più esterne, e non ci riusciva, e poi ha finito per non riuscire più in niente. È stato doloroso da guardare. Dopo il decimo game consecutivo di Swiatek abbiamo iniziato a pregare che Anisimova facesse almeno un game, che rompesse quella maledizione per non finire dalla parte sbagliata dei libri di storia. Per non vivere una di quelle sconfitte leggendarie su cui Netflix farà un documentario tra qualche anno.
Come ci si sente a venire totalmente dominati da un’avversaria in un contesto del genere? Nella partita più importante della stagione tennistica, e quindi della tua carriera. Come ci si sente a non sentirsi all’altezza nella partita che avevi sognato per tutta la vita? Dovresti essere fiera di aver raggiunto la finale a Wimbledon, ma come si fa a essere fieri, se poi in finale si è perso senza fare nemmeno un game e si è perso in 57 minuti?
Noi non possiamo saperlo, non abbiamo idea delle esperienze limite che vivono questi sportivi professionisti. Possiamo solo intuirlo: in certi rovesci sbagliati di Anisimova, in certi doppi falli, abbiamo potuto intuire la profondità del suo disagio. I più sensibili di noi sono stati male, quelli meno sensibili avranno inventato qualche teoria astrusa sul livello del tennis femminile. Gli sportivi dicono sempre che vogliono arrivare nelle condizioni di giocare le partite importanti contro gli avversari più difficili; ma cosa succede quando poi non si è all’altezza?
Amanda Anisimova ha iniziato il torneo con un doppio 6-0 a Julija Putintseva e lo ha chiuso rimediando un doppio 6-0 da Iga Swiatek. Nel mezzo ha battuto giocatrici fenomenali, fra cui la numero uno al mondo Aryna Sabalenka. Al termine di un disastro sportivo simile è riuscita a raccogliere tutta la sua grazia, tutta la sua sensibilità, per fare un discorso lungo, non privo di commozione, ma pieno di orgoglio e dignità. Quando l’abbiamo vista davanti al microfono, scacciare le lacrime con le dita, ci stavamo chiedendo che bisogno ci fosse, di un momento simile. Non potevano risparmiarselo?
Eppure non solo Anisimova lo ha accettato, ma è sembrata abbracciarlo. Lo ha trasformato in un momento importante anche per lei, per smorzare almeno un minimo quel disastro sportivo con parole profonde che ha regalato a se stessa e agli altri. A dare un significato a 57 minuti che sono sembrati il peggior incubo possibile.