Se vincere è difficile e ripetersi lo è ancora di più, consolidarsi ad alti livelli non è comunque un traguardo semplice. Stabilirsi al vertice di un campionato abbastanza “monoteista” come la Serie A di basket - che dal 2000 a oggi ha visto cinque squadre (le uniche a vincere più di una volta) spartirsi diciotto titoli, di cui due revocati, su 20 - richiede un mix di abilità, bravura, continuità, solidità e fortuna. Cinque caratteristiche che sono proprie di ogni squadra vincente e di cui non difetta certamente la nuova squadra campione d’Italia della nostra pallacanestro.
Col trionfo di sabato sera in gara-7, l’Umana Reyer Venezia è diventata una di quelle cinque squadre, bissando idealmente lo Scudetto del 2017 e siglando la terza stagione consecutiva con almeno un trofeo, vista la FIBA Europe Cup 2018. Lo scorso settembre sottolineavamo come i lagunari fossero la contender al titolo iridato ad avere cambiato di meno in estate rispetto al passato, e questa continuità è stata sicuramente tra le chiavi del successo reyerino, arrivato al termine di una combattutissima e spettacolare finale Scudetto.
Perché ha vinto la Reyer Venezia
di Marco Vettoretti
“L’attacco vende i biglietti, la difesa vince i campionati.”
Una sintesi efficace, per quanto semplificata, della serie di finale Scudetto della Serie A italiana si può trovare nell’adagio pronunciato diverse decine di anni fa dal leggendario coach di football americano Bear Bryant. L’attacco spumeggiante messo in scena da Gianmarco Pozzecco e dalla sua Dinamo Sassari contro l’arcigna difesa di Venezia giostrata con maestria da Walter De Raffaele.
La coccarda tricolore verrà cucita sulle canotte della Reyer Venezia soprattutto per merito di quanto fatto nella propria metà campo. Per l’intera durata della regular season l’Umana è stata la miglior squadra della lega in termini di punti concessi e, se possibile, è stata capace di salire ulteriormente di livello nel corso dei playoff: 56.7 punti concessi all’Aquila Trento nelle tre partite vinte ai quarti di finale; 74.7 quelli subiti da Cremona nelle tre vittorie lagunari in semifinale.
La Sassari di coach Pozzecco, però, si presentava alle porte delle finali forte di un curriculum impressionante, che parlava di 22 vittorie consecutive tra campionato e FIBA Europe Cup, a oltre 98 punti realizzati di media. Un attacco che fondava gran parte della propria efficacia sui chili e centimetri di Jack Cooley e Rashawn Thomas, nonché, in seconda battuta, sulle penetrazioni di Stefano Gentile e sulla precisione balistica di Jamie Smith e Marco Spissu.
Il capolavoro di Venezia è tutto riassunto in questi quattro numeri: 70, 73, 65 e 61. Sono i punti concessi alla Dinamo rispettivamente in gara uno, tre, cinque e sette. Una media di 67.3 a partita, frutto dello sforzo enorme prodotto senza soluzione di continuità e senza eccezioni, sul perimetro e nel pitturato, all’interno del quale Julyan Stone - ex Charlotte Hornets al suo terzo anno a Venezia - emerge più per la sua capacità di difendere quattro ruoli diversi che per il peso specifico del suo apporto. Non è un caso, inoltre, che due delle mosse decisive di De Raffaele siano state compiute in ottica difensiva: l’ingresso in quintetto di Valerio Mazzola, spesso alle prese con problemi di falli, e l’inserimento nelle rotazioni di Bruno Cerella, il cui minutaggio in stagione regolare ha sempre faticato a raggiungere la doppia cifra.
Non sarà stata bellissima da vedere, ma Venezia è sempre rimasta fedele al suo DNA di squadra 3&D - anche quando le cose non andavano secondo i piani, o peggio. Le due partite che sono costate la maggior dose di critiche a staff e giocatori - la rimonta da +24 subita agli ottavi di finale di Coppa Italia da parte proprio di Sassari, e il -23 preso dal Nizhny Novgorod che ha compromesso il passaggio del turno in Champions League - hanno esposto fatalmente la Reyer, a cui è sempre mancato un piano B.
Trovatasi con le spalle al muro per tre volte tra primo turno e semifinali, Venezia è stata in grado di far scattare quel interruttore mentale che spesso e volentieri, in precedenza, aveva fatto cilecca. La costruzione di tiri ad alta percentuale, l’equa distribuzione della responsabilità in attacco: tutto è tornato a funzionare nel momento più importante della stagione.
È vero, sulla carta Venezia partiva indubbiamente favorita: più profonda, più talentuosa. Ma non va dimenticato che otto dei dodici giocatori a referto sabato sera erano sotto contratto con la Reyer anche la stagione precedente, e che Venezia, dal 2015 in poi, ha sempre confermato una parte consistente del proprio roster, in favore di una continuità che è risultata essere decisiva nella costruzione del gruppo e nella sua abnegazione.
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Perché non ha vinto la Dinamo Sassari
di Ennio Terrasi Borghesan
«Quattro mesi fa ero un balordo che viveva in un’isola. Poi mi hanno catapultato in un’altra isola e questi ragazzi mi hanno cambiato la vita». In queste parole di Gianmarco Pozzecco, pronunciate davanti alle migliaia di tifosi che hanno accolto il ritorno in Sardegna della Dinamo, si racchiude il senso di una rivoluzione che ha sbalordito tutti e portato Sassari a 20 minuti da una doppietta campionato e coppa europea che in Italia manca dal triplete della Virtus Bologna nel 2001.
Già a inizio stagione Sassari si era segnalata come una delle squadre più interessanti e i risultati ottenuti sotto la gestione di Vincenzo Esposito avevano comunque risollevato una squadra che nella scorsa stagione, per la prima volta dall’approdo nella massima serie, aveva mancato sia i playoff di Serie A che le Final Eight di Coppa Italia. Le improvvise dimissioni del Diablo, proprio alla vigilia del weekend di Coppa a Firenze, e la chiamata in panchina di un profilo discusso come quello del Poz non avevano infuso fiducia sulle possibilità della squadra sarda.
L’avventura di Pozzecco a Sassari era iniziata proprio contro Venezia con la più incredibile delle partite.
Il sogno fiorentino poi si infranse in semifinale contro Brindisi, e le successive due sconfitte in campionato con Cremona e nuovamente Venezia sembravano aver riportato alla realtà la Dinamo. A quel punto, però, è avvenuto qualcosa di totalmente impensabile: dal 10 marzo, Sassari ha passato tre mesi esatti senza mai perdere una partita, fino a capitolare sempre contro la Reyer in Gara-1 di finale. Una partita che ha chiuso un imbattibilità lunga 22 partite, 15 di campionato e 7 di FIBA Europe Cup, conclusa con lo storico trionfo in finale contro il Würzburg.
Ogni qual volta che si provava a dubitare della longevità dell’imbattibilità sarda, la Sassari di Pozzecco ha risposto in maniera diversa. Alle dilaganti vittorie in campionato contro Milano, Virtus Bologna, Trento e Trieste, la Dinamo ha alternato rimonte fulminee contro Brescia e Cantù, escludendo le due squadre lombarde dalla post-season e assicurandosi il quarto posto finale, sempre con protagonisti diversi e una continuità di rendimento altissima. Nelle serie contro Brindisi e Milano è stato decisivo l’apporto di un quintetto diverso da quello base, formato dal trio italiano Spissu-Gentile-Polonara e da due giocatori versatili come Pierre e Thomas: un assetto spesso indecifrabile per le squadre di Vitucci e Pianigiani.
Nella serie con Brindisi, Dyshawn Pierre e Marco Spissu hanno tirato con oltre il 60% da 3 punti su più di 7 tentativi a partita. Il canadese ha poi marchiato a fuoco la semifinale, con la tripla che è valsa il supplementare in gara-2.
Nei primi due atti di finale al Taliercio, invece, l’assetto valido nelle precedenti partite è venuto meno, ma Sassari è andata molto vicina al 2-0 (perdendo gara-1 di misura e dominando gara-2) grazie al ritorno ad alti livelli di Tyrus McGee, limitato nelle serie precedenti a causa di un infortunio. Grazie anche all’ex Reyer e alla presenza sotto canestro di Jack Cooley, Sassari è stata in grado di rispondere colpo su colpo a Venezia, mai in grado di vincere due partite consecutive e costretta a ricorrere a un secondo tempo straordinario in gara-7 per avere la meglio della truppa di Pozzecco.
La clamorosa schiacciata di McGee è finita anche nella Top 10 di SportsCenter su ESPN.
Si è a lungo discusso, nel corso della finale, dello squilibrio sulla quantità di tiri liberi tentati dalle due squadre, frutto soprattutto di una maggiore inclinazione al gioco sotto canestro e nel pitturato della squadra sarda. A riguardare la serie a mente fredda, però, Sassari ha tentato più tiri dalla lunetta nelle sconfitte che nelle vittorie (e con percentuali peggiori: 66.4% nelle quattro partite perse, 79% nelle tre vinte), e col senno di poi i tanti tiri liberi hanno forse spezzettato il forsennato ritmo offensivo della Dinamo, che non a caso ha stentato a trovare continuità in attacco quante più volte è andata in lunetta, chiudendo sempre sotto il 31% da 3 punti nelle partite vinte da Venezia.
Un’altra chiave della sconfitta è da ricercare anche nell’apporto, in trend calante con l’avanzare della finale, di due di quei giocatori che erano stati così determinanti nei tre inarrestabili mesi della Dinamo. Dyshawn Pierre e Achille Polonara sono stati probabilmente i peggiori in campo nell’atto decisivo di sabato scorso, e il lavoro difensivo negli aggiustamenti da parte della Reyer è stato decisamente mirabile. Da parte sua, però, Sassari - forse per stanchezza, per quanto possa sembrare paradossale avendo la Dinamo giocato quattro partite di playoff in meno di Venezia - non è riuscita a replicare quanto fatto da febbraio a inizio giugno e a trovare una nuova freccia nella sua faretra.
Seguendo un concetto valido per ogni finale che si chiude in sette partite, però, è difficile rimproverare troppo alla squadra di Pozzecco, arrivata a un passo da un sogno e capace di risvegliare la passione di una tifoseria che non viveva certe emozioni da quattro anni, dallo storico triplete del 2015. Come detto in apertura di questo articolo, consolidarsi ad alti livelli è impresa non semplice: per la Dinamo Sassari e il Poz, la parte difficile probabilmente inizia ora.
I volti dello Scudetto
di Dario Ronzulli
Il premio di MVP delle finali Scudetto italiane viene assegnato dal 2003. C'è evidentemente una lunga lista di nomi che in passato avrebbero potuto fregiarsi di questo premio: tra questi Darren Daye, arrivato a Pesaro durante la stagione 1987-88 e subito decisivo per la conquista dello Scudetto dell'allora Scavolini allenata da Valerio Bianchini. Anche nella finale del 1990, sotto la guida di Sergio Scariolo, Daye fu protagonista di grandi prestazioni e anche in quel caso avrebbe vinto il premio di miglior giocatore. Tre decenni dopo ci ha pensato il figlio Austin a rimpinguare la bacheca di casa, con una finale giocata per lunghi tratti in modo devastante.
Nato proprio nei giorni del primo Scudetto del papà, Daye junior ha sempre faticato ad avere quella continuità necessaria per far emergere il suo enorme talento offensivo. Quelle mani morbidissime, quei piedi rapidi, quelle lunghe leve a disposizione e una capacità creativa pazzesca: tutto questo ben di Dio, però, è rimasto inespresso ad alti livelli. Almeno fino ai playoff di quest'anno. Da gara-1 dei quarti contro Trento Daye è stato una macchina infernale, un produttore seriale di canestri spacca-partite, un difensore molto più che accettabile (ha sbagliato solo gara-4 sempre contro Trento) e giocando in modo magistrale in tutte le partite senza ritorno. Si è molto parlato in questi giorni della sua trasformazione dopo l'esclusione dalla trasferta di Bologna che pareva il preludio al taglio. Da lì non c'è stato un cambio tecnico o tattico, quanto piuttosto un approccio mentale completamente diverso. Venezia aveva bisogno di Daye ma anche viceversa, e partita dopo partita il feeling reciproco è cresciuto – o se preferite è tornato a crescere.
Un altro che ha cambiato marcia nei playoff è stato MarQuez Haynes, il capitano, uno dei quattro superstiti dello Scudetto 2017 con Stefano Tonut, Michael Bramos e Julyan Stone. Haynes ha giocato una regular season al di sotto delle sue possibilità, ma appena è iniziata la fase calda ha premuto l'interruttore giusto: fondamentale in gara-5 nei quarti contro Trento, ancora in difficoltà in semifinale contro Cremona, chirurgico nella serie finale. Una stagione tormentata, nella quale ha dovuto fare i conti con se stesso e non è stato semplice.
Doverosa citazione per gli altri due volte campioni. Tonut è andato ko con Trento, ha avuto problemi di cefalea e vertigini che si sono aggiunti ai vari guai fisici patiti durante l'anno ma poi, quando è tornato in campo, ha dato sprint e vitalità nei momenti di stallo offensivo con le sue penetrazioni che hanno squarciato le difese avversarie come il taglierino di Lucio Fontana faceva con le tele.
Bramos è stato il termometro dell'attacco: quando segnava la Reyer girava a meraviglia, quando litigava col ferro si impantanava tutta la squadra. Anche se avesse giocato malissimo da maggio ad oggi, gli 11 punti in avvio di ripresa di Gara-7 basterebbero e avanzerebbero per applaudirlo con convinzione.
Di contro Stone è stato il riferimento nella propria metà campo. Enciclopedico sull'MVP della stagione Drew Crawford – con l'aiuto non da poco di Bruno Cerella –, Stone è l'emblema della difesa camaleontica di Venezia: se serviva fisicità ecco chili e centimetri; se serviva agilità ecco mani rapide e piedi ancora di più. «È il nostro Picasso» lo ha definito De Raffaele, perché capace di tutto nel bene e nel male. Buon per la Reyer che Stone ha barrato la prima.
La finale vissuta al Taliercio
La particolare geografia della finale Scudetto, oltre a mettere alla prova la tenuta fisica dei due roster, ha dato un grosso contributo nel rendere la serie tra Venezia e Sassari una sfida fortemente caratterizzata dal tifo casalingo. Difficile, se non impossibile, sorbirsi i costi e i tempi richiesti dai quattro cambi di campo effettuati tra il Veneto e la Sardegna in due settimane. E chi l’ha fatto ci ha sempre aggiunto qualche giorno a spasso tra le calli veneziane, o sulla spiaggia in cerca di refrigerio. Sì, perché il caldo è stato un tema ricorrente, pressante, quasi decisivo, almeno stando alla vulcanica conferenza stampa post-gara 5 di Pozzecco.
Ma com’è questo Palasport Taliercio alla fine? Bollente. Difficile usare una terminologia diversa per un impianto ormai vecchio, costruito negli anni Settanta e dove il metodo migliore per rinfrescare la temperatura consiste nell’apertura simultanea di tutte le uscite di emergenza. Al Taliercio fa caldo anche d’inverno, e non è un’esagerazione. Prendete una qualsiasi delle partite casalinghe dell’Umana, anche di gennaio: non ce n’è una dove non si rischi di restare ipnotizzati dal moltiplicarsi dello sventolio ritmico dei match program, ultima àncora di salvezza per sconfiggere le alte temperature. La viabilità, poi, è un girone infernale: a senso unico e con una sola corsia, ragione per cui, spesso e volentieri, il pubblico trascorre gli ultimi minuti di partita con un occhio al cronometro e la giacca in mano, pronto a evadere il più velocemente possibile per evitare il collasso delle strade circostanti.
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Il Taliercio è anche questo.
C’è sempre un altro lato della medaglia, però. E in questo caso riguarda il tifo, nel senso più umano e viscerale del termine. A Venezia il calcio non ha mai raccolto grandi successi, e di altri sport che godano di un elevato grado di popolarità non ce ne sono, a parte il basket. A Venezia la Reyer è LA squadra. E i successi del recentissimo passato hanno contribuito a risvegliare una passione mai sopita, e a far crescere e coltivare una nuova generazione di giovanissimi tifosi, anche grazie all’altissimo numero di attività che la società svolge su tutto il territorio metropolitano. Il pubblico di Venezia è esigente, bastano un paio di forzature per far alzare i primi mormorii, ma allo stesso tempo gli basta una scintilla per infiammarsi. Questo i giocatori lo hanno imparato e lo ricompensano sempre con una disponibilità totale, sia nell’immediato post-partita che fuori dal palazzetto, senza eccezioni, in casa come in trasferta.
C’è un’immagine che può aiutare a comprendere la passione del tifo orogranata: per chi non ci fosse mai stato, il Palasport Taliercio non ha posti a sedere numerati o settori ben definiti, eccezion fatta per il parterre. Geometricamente non è il classico rettangolo: è un cerchio praticamente perfetto, sia nella struttura di cemento che lo contiene che nella distribuzione dei posti a sedere. In sostanza, è una curva di trecentosessanta gradi.
I cavalieri che sfiorarono l’impresa
di Dario Ronzulli
Se Sassari fosse riuscita ad espugnare il Taliercio prendendosi lo Scudetto, ci sarebbero stati pochissimi dubbi sull'MVP. Rashawn Shaquille Thomas, al suo primo anno in Europa e al secondo da giocatore senior, è stato uno di quelli che più ha beneficiato del cambio di allenatore: non perché con Enzo Esposito giocasse male o non rendesse, ma perché con Gianmarco Pozzecco ha avuto una continuità di rendimento straordinaria. Quattro doppie doppie nei playoff di cui due contro Milano al Forum e due in altrettante sconfitte contro Venezia, ultimo ad arrendersi al destino incombente di Gara-7, un leone a rimbalzo e su tutte le palle vaganti. Tecnica, atletismo e coraggio ad alti livelli: non sarà semplice per la Dinamo tenerlo anche nella prossima annata. Così come non sarà semplice tenere Jack Cooley, il gigante bianco che per tutta la stagione ha reso la zona sotto i tabelloni casa sua fino a quando Gasper Vidmar ha trovato il modo di limitarlo. Cooley ha chiuso con tre triple doppie in finale, crollando come gli altri nel secondo tempo dell'ultima partita. Lo spirito guerriero della Dinamo è stato ben rappresentato da questo ragazzone dell'Illinois diventato oggetto di facili ironie per la sua mole, tralasciando quanto il senso della posizione e la tecnica da lungo ne abbiano fatto un'arma a volte illegale nel gioco del Poz.
Tyrus McGee ha provato a dar manforte a Thomas e Cooley spinto dallo spirito di “vendetta” che lo accompagna da quando ha lasciato Venezia. Le sue giocate sono state caratterizzate da una voglia costante di dimostrare a De Raffaele e all'intera Reyer che si erano sbagliati a mandarlo via. Costantemente su di giri, a volte troppo precipitoso nelle scelte, non sempre è stato utile per i suoi. Però in Gara-6 è stato capace di questa roba qui che resterà impressa nella memoria nei secoli dei secoli.
Tutte le angolazioni disponibili per l'Azione delle finali, dei playoff, della stagione. Ne aveva peraltro fatta una simile con la maglia di Pistoia visibile a 0:37 di questo video.
L’infortunio di Stefano Gentile ha tolto a Pozzecco un elemento utilissimo dalla panchina ma di contro ha dato a Marco Spissu la possibilità di prendersi più spazio. I playoff e la finale in particolare dell’ex Virtus Bologna hanno ulteriormente dimostrato che questo ragazzo ha coraggio da vendere, voglia di emergere e nessuna paura di prendersi tiri che pesano tanto da far diventare il pallone una palla medica. Deve ancora limare tante cose ma la Dinamo sa che può ripartire dal suo profeta in patria.
Cosa sappiamo già del prossimo anno?
di Ennio Terrasi Borghesan
«Per potere pensare di vincere il campionato e arrivare ai playoff di Eurolega, bisogna capire che i risultati sono conseguenza di un comportamento: come ti alleni, come giochi, come ti relazioni» sono queste parole della presentazione di Ettore Messina come nuovo plenipotenziario (allenatore e President of Basketball Operations) dell’Olimpia Milano a lanciare la volata per la prossima stagione.
È il ritorno in Italia dopo 14 anni dell’ormai ex assistente di Gregg Popovich la prima grande novità del basket italiano per il 2019-20: l’AX Armani Exchange ha deciso di affidarsi al miglior allenatore disponibile su piazza, con un ruolo inedito per la nostra pallacanestro, per superare il biennio di Simone Pianigiani, lanciare la volata verso la terza stella e soprattutto entrare in pianta stabile tra le migliori squadre d’Europa.
Le prime parole di Messina come uomo di riferimento dell’Olimpia.
Conosciamo già anche una grande novità che riguarda i campioni d’Italia: dopo un triennio trascorso nelle competizioni FIBA, con la Final Four di Champions League nel 2017 ma soprattutto la vittoria in FIBA Europe Cup nel 2018, Venezia ha deciso di tornare sotto l’egida delle competizioni ECA e andrà a disputare l’Eurocup 2019-20. A farle compagnia (le squadre saranno ufficializzate alla fine di questa settimana) dovrebbero essere la “solita” Trento, separatasi però da Maurizio Buscaglia e affidatasi all’emergente ex-Cantù Nicola Brienza, e la Virtus Bologna, che dopo aver vinto la Champions FIBA e avere in un primo momento confermato la sua partecipazione alla competizione da detentrice ha fatto marcia indietro e andrà a ottenere una delle tre wild-card di Eurocup, non senza polemiche.
Nemmeno Sassari “difenderà” la FIBA Europe Cup vinta quasi due mesi fa, ma a differenza delle Vu Nere la Dinamo resterà a lungo nella sfera gravitazionale della Federazione Internazionale, avendo firmato un contratto pluriennale che la prossima stagione comporterà la partecipazione alla Basketball Champions League. Altre italiane in Europa saranno Brindisi, che vede quindi ricompensata una stagione da finalista di Coppa Italia e quinta in classifica, probabilmente Brescia (al posto di Varese che ha rinunciato ai preliminari di Champions League) e Avellino (in Europe Cup), anche se per due coppe europee su tre al di fuori dell’Eurolega manca ancora l’ufficialità degli organici. Ha scelto di non giocare coppe europee la Vanoli Cremona di Meo Sacchetti, nonostante il 2° posto e il trionfo in Coppa Italia.
La vittoria in FIBA Europe Cup di Sassari.
Un altro grande tema della prossima stagione sarà il ritorno delle grandi piazze: le tre neopromosse A2 riportano in Serie A scudetti e trionfi europei, anche se l’odierna Treviso con la fu Benetton condivide soltanto città e campo da gioco. I veneti, con Fortitudo Bologna e Virtus Roma, innalzano da subito il livello medio della massima serie, rendendo ancora più impronosticabile la lotta per le due retrocessioni – ammesso che la formula a 18 squadre sopravviva allo stress-test delle iscrizioni ai campionati e non emerga già quest’estate la possibilità di adempiere alla volontà federale e tornare a 16 squadre.
Sulle panchine di A, oltre al ritorno di Messina da registrare anche alcuni rientri di decani come Cesare Pancotto (Cantù) e Piero Bucchi (Roma), ma anche debutti interessanti come Michele Carrea (Pistoia) e Federico Perego (Pesaro) e intriganti nuove avventure come quelle di Vincenzo Esposito (Brescia) e del già citato Maurizio Buscaglia, che ripartirà da Reggio Emilia.
Con il mercato giocatori che ancora stenta a decollare, è prevedibile immaginare come la composizione possa avvenire in tempi più ridotti del solito, vista la partenza anticipata del campionato al 25 settembre in un inedito infrasettimanale, con la Supercoppa a Bari tra Venezia, Sassari, Cremona e Brindisi il weekend precedente. Campionato che partirà prima del previsto non solo per le 18 squadre, ma anche per il torneo Preolimpico di fine giugno in vista di Tokyo 2020, a cui l’Italia proverà a qualificarsi già nel Mondiale cinese di settembre: la qualificazione è virtualmente garantita in caso di qualificazione alla seconda fase, ma basta pensare che delle 32 squadre in Cina sette (in base a ripartizioni geografiche, l’Europa invierà le migliori due classificate) si qualificheranno direttamente a Tokyo e 16 (senza limiti di territorio) accederanno ai tornei di qualificazione.
Pur con poche certezze note a oggi nei roster, è plausibile che la prossima Serie A possa essere la più interessante da almeno un decennio a questa parte: ad esempio, saranno al via tutte le realtà ad aver vinto lo Scudetto nel dopoguerra, ad eccezione di Siena e Caserta. Il ritorno delle grandi piazze, che si va ad aggiungere a un interesse crescente verso il massimo campionato testimoniato dalla crescita d’affluenza nei palazzetti e dal maggiore interesse (mediatico e anche di partecipazione) che gravita attorno alle Nazionali, è sicuramente un fattore positivo che però può aumentare le aspettative.
Riuscirà il movimento cestistico a mettersi definitivamente alle spalle anni di fallimenti e anomalie e a sfruttare quella che potrebbe essere un’ultima occasione?