“KOBE!!!”
Le lunghe braccia di Anthony Davis scattano all’indietro, anticipando il salto. I suoi occhi, incastonati appena sotto il più famoso monociglio del mondo, riflettono la concentrazione di chi è sopraffatto dall’adrenalina. Davis sta urlando e sposta in avanti il peso del corpo nel momento del salto, i piedi si staccano da terra, perfettamente perpendicolari alla spalla destra, la stessa che va ad incocciare contro il petto di Talen Horton-Tucker, il primo compagno scattato sul campo per celebrare il canestro più importante della carriera di Anthony Davis.
AD ha appena segnato la tripla della vittoria, permettendo ai Los Angeles Lakers di aggiudicarsi anche gara-2 delle sue prime finali di Conference in carriera. Ma prima del salto si è lasciato andare a un urlo liberatorio, gridando “Kobe!” – un urlo che se non stessimo vivendo il più strano e misterioso degli anni delle nostre vite verrebbe da pensare sia un artificio cinematografico, un falso, oppure un sogno. Invece è tutto vero, autentico come quel tiro: un monolite di pietra, inscalfibile sia come il fenomeno con la maglia numero 3 che tutti i Los Angeles Lakers.
L’errore madornale di Mason Plumlee, lento nel reagire fin dall’inizio dell’azione prima di provare inutilmente a chiedere il cambio difensivo a Jerami Grant in maniera decisamente comica, consente a Davis di ricevere in ritmo e avere uno sguardo pulito verso il canestro. Poi però bisogna metterlo un tiro così, peraltro contro la mano protesta di Jokic.
Nell’intervista sul campo qualche minuto dopo la fine della partita Davis dice di essere contento dell’esito di quel tiro (ovviamente) e che quello è, in fin dei conti, il vero motivo per cui i Lakers lo hanno fortemente voluto. Davis usa “shots”, plurale, e lo fa propriamente visto che, sebbene in copertina ci finisca il buzzer beater della vittoria, quella tripla è soltanto l’ultima di un filotto di 10 punti a sua firma senza i quali i Lakers non avrebbero mai potuto neanche pensare di vincere.
L’ancora di salvezza dei Lakers
Davis è stato l’unico gialloviola a segnare sia dal campo che dalla lunetta negli ultimi 5 minuti e mezzo di partita, ricacciando indietro i tentativi di rimonta dei soliti, nevrastenici, incrollabili Denver Nuggets, che dopo essere finiti sotto anche di 16 lunghezze a inizio terzo quarto avevano saputo trovare ancora una volta la forza per rimontare. La squadra di coach Mike Malone aveva saputo restare aggrappata alla partita nei momenti più difficili, mostrando un’organizzazione tattica di livello soprattutto nella metà campo difensiva – e sarà interessante costatarne l’autenticità nel proseguimento della serie. Nel secondo tempo di gara-2 i Nuggets hanno dimostrato di poter far lavorare l’attacco californiano, costringendolo a entrare con fatica nei set offensivi, un trend che potrebbe far sperare qualora dovesse confermarsi – e affidandosi alla capacità di Nikola Jokic di creare dal post.
Come nel primo quarto di gara-1, prima che qualche fischio arbitrale di troppo lo togliesse mentalmente dalla partita, il serbo ha mostrato un’aggressività rinfrescante nella metà campo offensiva, sovrastando gli avversari più piccoli usando il proprio corpo per avvicinarsi al ferro. Se Davis ha segnato gli ultimi 10 punti dei Lakers, Jokic aveva fatto lo stesso per i suoi, firmando gli ultimi 11 punti e portando Denver a un soffio dal colpo grosso. Indipendentemente da come finirà la serie, è piuttosto evidente come il futuro della NBA – e della pallacanestro più in generale – sia in ottime e moderne mani.
Ottime, moderne e anche delicatissime le mani di Jokic, che corregge il tiro corto di Murray con una giocata che appartiene quasi unicamente a lui nella NBA. Quello che colpisce, ancora più della sensibilità dei polpastrelli (mai stata in discussione), è l’effort fisico che il serbo protrae per prendere posizione a LeBron James e spingere il pallone nel canestro.
Davis si è fatto trovare pronto
Quando si parla di Anthony Davis non bisogna mai dimenticare che nei primi sette anni di carriera trascorsi a New Orleans aveva disputato appena due post-season. Prima di questa stagione nativo di Chicago non giocava una partita di playoff dal 2018 e in tutto, con la maglia dei Pelicans, ha giocato appena 13 partite, lo stesso numero che raggiungerà in maglia Lakers con la prossima partita di questa serie. È vero che un talento generazionale come AD non necessita necessariamente di ambientamento, ma non è così scontato riuscire a fare subito la differenza sul palcoscenico più alto possibile – basti pensare alla fatica che sta facendo Giannis Antetokounmpo a imporsi anche dopo la fine della regular season.
Davis aveva già dimostrato il suo valore nelle due precedenti campagne playoff in Louisiana (dopotutto, in quanti abbiamo passato gli inverni a scrivere #FREEANTHONYDAVIS sui nostri social?) tanto che i suoi numeri di questa post-season (28.7 punti, 10.7 rimbalzi e 1.5 stoppate a sera) sono tecnicamente i peggiori in carriera. Ma la maturità con cui ha saputo gestire la propria crescita, andando incontro alle partite con la naturalezza di chi sa di poter incidere in ogni momento e in entrambe le metà campo, e aumentando il proprio livello a ogni avanzamento del turno, resta impressionante.
Davis ha segnato solo 9 punti nel primo tempo, aspettando che la partita “arrivasse da lui”. Questo il canestro più bello dei tre segnati nella prima frazione, nonché manifesto delle sue impressionanti doti tecniche.
A questo punto occorrerebbe menzionare l’elefante nella stanza, e ammettere che il motivo per cui Davis, per la prima volta in carriera, può permettersi di aspettare le partite è perché giocare di fianco a LeBron James garantisce alcuni vantaggi altrimenti impossibili. Ma se King James è il sole attorno al quale ruota (almeno in questa stagione) tutta l’organizzazione gialloviola, Davis è l’ossigeno che permette all’organizzazione di respirare aria pulita. La grande forza dei Lakers di questa stagione sta proprio in questa sorta di rapporto simbiotico tra le proprie stelle, nella loro capacità di essere diversi all’interno dello stesso concetto, di complementarsi perfettamente e di essere necessari l’uno per l’altro. E se nessuno può minimamente dubitare di come LeBron sia il miglior compagno di squadra della carriera di AD, non è da escludere che chiedersi anche l’inverso non sia così peregrino.
Per metterla in termini numerici, soltanto Danny Green (non necessariamente per merito suo) possiede un Net Rating migliore del gigantesco +15.1 con cui i Lakers sovrastano gli avversari con Davis in campo in questi playoff. Ma nei 155 minuti in cui l’ex Pelicans si siede, Los Angeles sprofonda in una faglia profonda -8.5 punti su cento possessi, un dato unico in tutto il roster, e completamente diverso dal misero -0.2 che i giallo-viola incassano quando è il Re a dover riposare. La forza di Davis (e la bravura del coaching staff dei Lakers) sta soprattutto in questo: nell’aver saputo dare forma a quintetti che riescono a tenere botta anche quando il sole si spegne e si è costretti a utilizzare energie alternative.
Come scrivevamo prima ancora che la stagione cominciasse, l’arrivo di Davis ha rivitalizzato tutta l’organizzazione, dotando James di un compagno perfetto per il suo stile di gioco e col quale passarsi il testimone nel corso delle partite. Solo gli assist di Lou Williams per Montrezl Harrell hanno prodotto più punti della combinazione LeBron-to-Davis e, ancora più importante, Davis ha dotato la squadra di una spugna in grado di assorbire le serate dove James non sembra essere al suo meglio. Con ieri notte LeBron ha giocato 55 volte in una finale di Conference (per contesto, Davis ne ha giocate due, così come Jokic e Jamal Murray; i Nuggets, intesi come l’intera franchigia, 19) e per la prima volta è riuscito a portare a casa la vittoria nonostante una prestazione sotto il par – quantomeno nella ripresa.
Dopo averne messi 20 nel primo tempo, LeBron nella ripresa ha semplicemente consegnato palla a Anthony Davis nel momento decisivo lasciandogli spazio di manovra: un lusso che raramente ha avuto nel corso della carriera.
Una crescita costante
Limitarsi a dire che Anthony Davis ha saputo riempire i vuoti lasciati da James come un perfetto secondo violino appare però riduttivo. Il prodotto di Kentucky non ha solo aumentato la propria produzione offensiva rispetto alla stagione regolare ma, cosa più importante, ha aumentato la sua efficienza. Ogni percentuale al tiro, esclusa quella dei tiri liberi, ha raggiunto un’altra dimensione durante la post-season: dal 50 al 57% dal campo, dal 73 al 78% al ferro, dal 35 al 50% dalla media distanza, dal 33 al 40% da tre punti. Ancora più importante, Davis è diventato più preciso in situazioni di catch-and-shoot (passando dal 34 al 38.5%) e letale se lasciato aperto (dal 37 al 48% in situazioni wide open) come nell’occasione del tiro della vittoria di gara-2. Insomma, ha fatto tutto quello che ti aspetteresti dal tuo primo violino offensivo.
Perfino nelle triple dal palleggio i suoi numeri sono schizzati in avanti, e per quanto resti una soluzione che AD utilizza soltanto in situazioni di emergenza, vederlo prendersi un tiro del genere resta un privilegio. Peraltro questo canestro fa da preludio a quello della vittoria 3 minuti e un secondo di gioco dopo.
Se i Lakers sono sempre apparsi la grande favorita per la vittoria finale – nonché l’unica “big” che ha saputo ritrovare il proprio status anche dopo la ripresa, a differenza di Clippers e Bucks – lo devono alla capacità di ogni componente del roster di comprendere il proprio ruolo. Una cosa che sembra marginale o scontata ma che è spesso difficile da raggiungere, soprattutto in squadre “nuove” come i Lakers, che hanno aggiunto tanto nel corso dell’ultima off-season.
La squadra californiana ha saputo allineare la propria scacchiera in modo impeccabile, partendo dai due pezzi più importanti fino ad arrivare all’ultimo pedone. Fin dal primo giorno di training camp tutti i giocatori sono sembrati suonare lo stesso spartito, soprattutto nella metà campo difensiva, quella dove spesso si evince la mentalità di una squadra, quella dove coach Frank Vogel è stato bravo a costruire un’identità precisa e funzionale, sfruttando ogni vantaggio che la presenza di Davis (autore di una stagione difensiva di assoluto livello) ti regala.
Davis si è calato nella nuova realtà con la forza prorompente di chi aspettava da anni un’opportunità come questa, l’opportunità di dimostrarsi uno dei migliori giocatori della lega. Quanti altri giocatori avrebbero saputo costruirsi uno status simile, in una squadra che comprende LeBron James, fin dal primo giorno?
Un mese per fare la storia
In questi playoff Anthony Davis sta confermando l’impressione che quando si parla dei migliori giocatori della lega il suo nome vada sempre menzionato, e se i Lakers si trovano a due partite dal tornare alle Finals dopo dieci anni lo devono anche (o è meglio dire soprattutto?) a lui. Questo ovviamente non significa che la serie sia finita: per quanto i gialloviola siano stati bravi nel mantenere il teorico fattore campo, se c’è una squadra che ha dimostrato di saper fuoriuscire da situazioni di estremo svantaggio sono proprio i Nuggets. Il nucleo giovane di Denver e la convinzione (mentale più che altro) di star giocando una post-season storicamente irripetibile potrebbero rifornire il serbatoio delle energie in vista di gara-3 - quella che, qualora dovessero vincere ancora i Lakers, chiuderebbe definitivamente la serie.
In un certo senso la spettacolare tripla sulla sirena di Davis è servita anche a colmare l’unica lacuna mostrata fin qui dai Lakers: l’assenza di entertainment. Troppo spesso LeBron e compagni erano sembrati troppo superiori, quasi freddi, talmente padroni del proprio destino da non sembrare neanche interessanti agli avversari, una visione che stonava un po’ con il resto di una post-season dove tra rimonte, infortuni, sorprese e peripezie tecnico-atletiche si sta vedendo tutto e il contrario di tutto.
La tripla di Davis ha anche il merito di avvicinare ulteriormente i Lakers al loro diciassettesimo titolo, una cosa che non appariva impensabile neanche prima della sospensione della stagione ma che mai, dopo questa notte, è stata così vicina. Dopo anni di delusioni e di stagioni chiuse troppo presto con l’amaro in bocca, dopo anni trascorsi a chiederci cosa avrebbe potuto essere il talento di Davis in un contesto vincente e quanto sarebbe dovuto ancora passare per rivedere i Lakers al vertice dove ci avevano abituato, la tripla di Davis ha aggiunto un altro tassello fondamentale verso l’obiettivo finale.