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Non fate arrabbiare Antonio Conte
05 ago 2020
Le migliori sbroccate dell'allenatore dell'Inter.
(articolo)
13 min
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La bomba è esplosa all’improvviso, dopo una vittoria. Con l’Inter fresca seconda in classifica, a pochi minuti da un successo in casa dell’Atalanta, Antonio Conte si è lasciato andare. Lo ha fatto con la voce bassa e il tono dimesso, quasi rassegnato. Dal momento in cui si è staccato dal microfono, intorno all’allenatore dell’Inter si è scatenato l’inevitabile trambusto: chi lo critica, chi lo difende, chi lo applaude per il contenuto ma non per i modi, chi ne sostiene i concetti ma attacca i tempi dell’uscita. Perché proprio ora? Perché a ridosso di un’Europa League ancora tutta da giocare? E allora spazio alle elucubrazioni sul piano B dell’Inter e sul piano B di Conte: in un chiaro cliché da relazione sentimentale tossica, se ha parlato così “deve” esserci un’altra società sotto.

Ma adesso tralasciamo per un po’ le interpretazioni per gustarci l'arte drammatica della specialità della casa del tecnico leccese: le bordate in conferenza stampa. Queste sono alcune delle migliori realizzate nella sua carriera, segnata da discorsi in terza persona, toni passivo-aggressivi e attacchi alla propria dirigenza.

Preludio

La lunga storia comincia da Arezzo, anche se purtroppo non ne abbiamo testimonianze video. Una retrocessione arrivata in volata, con l’amata Juventus che cede in casa allo Spezia, costringendo i toscani alla discesa in Serie C e Conte alle accuse, neanche troppo celate, nei confronti del vecchio amore: «Retrocedere così fa male però mi fa capire cose che già sapevo nel calcio. Si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che adesso ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito. C'è profonda delusione e profonda amarezza, rispetto tanto i tifosi juventini ma ho poco rispetto per la squadra».

Dopo l’avventura di Arezzo, Conte trova casa, nel dicembre 2007, a Bari. Le prestazioni sono tali da fargli guadagnare la conferma e il tecnico centra la promozione in Serie A con quattro giornate di anticipo. Già qui, nella prima esperienza di grande successo, si trovano le prime tracce di un’irrequietezza ancestrale. Il 2 giugno firma il rinnovo contrattuale per proseguire con i “Galletti” anche in Serie A, il 23 giugno presenta le dimissioni.

«Volevo giocare in A con le mie idee: Conte è questo. La società era consapevole di cosa significasse sposare il mio progetto, sostenere la mia idea di calcio, lavorare con il mio staff, seguire precisi metodi di allenamento. Venuta meno la fiducia, ho preferito la risoluzione consensuale. Non c'era più la condivisione del progetto tecnico, sul quale ci eravamo trovati d'accordo solo tre settimane fa. Voglio precisare che il successo non mi ha dato alla testa, ma mi ha solo responsabilizzato di più». Assaggia comunque la Serie A, chiamato a fine settembre dall’Atalanta: dura poco più di tre mesi, si dimette a inizio gennaio.




La conferenza pre Siena-Modena

Conte riparte dalla Serie B, da Siena, dove aveva iniziato anni prima come vice di Gigi De Canio. Il 25 febbraio 2011, sei giorni dopo una clamorosa sconfitta interna con il Piacenza, passando dal doppio vantaggio firmato da Ciccio Caputo e Calaiò all’imprevedibile 2-3, la tradizionale conferenza stampa prepartita – in calendario c’è la trasferta di Modena – diventa l’occasione perfetta per il primo grande show di Conte davanti alle telecamere. Il Siena, in quel momento, è terzo in classifica, pienamente in corsa per la promozione, a -2 dal Novara e a soli tre punti dall’Atalanta capolista.

La squadra di Conte ha un centravanti di spicco (Calaiò), un mestierante della categoria come la “Vipera” Mastronunzio ed è costruito su quello che, all’epoca, è il modulo feticcio dell'allenatore, il 4-4-2 con gli esterni portati quasi sulla linea degli attaccanti, a formare un 4-2-4. Piccola curiosità: in quella squadra, oltre a Caputo, rincalzo dei titolari, da giugno a gennaio figura anche il giovane Ciro Immobile. Ma torniamo alla sala stampa, a un Conte imbizzarrito, così lontano dalla rassegnazione che abbiamo visto dopo Atalanta-Inter qualche giorno fa. In poco meno di 6 minuti, troviamo tantissimi temi che ritroveremo nel corso degli anni. La qualità del gioco offensivo dei suoi; la tenuta della fase difensiva; l’attacco ai media, definiti «pseudo intenditori di calcio» che sparano «stronzate»; la rivalutazione di giocatori in crisi; l’accusa verso quei tifosi che «non vogliono il bene del Siena».

In ogni parola pronunciata da Conte c’è l’esaltazione del lavoro dei giocatori, del proprio operato e, in questo caso, anche di quello della dirigenza: il DS del Siena è Perinetti, con cui Conte aveva già lavorato con successo a Bari. «Ringraziate il Signore che c’è Conte a Siena. Mai una gratificazione, mai niente», dice con rabbia più o meno a metà dello sfogo, rincarando poi in chiusura con «Nella corazzata Siena mi sa che è compreso Perinetti e Conte. Aaaah è compreso Perinetti e Conte, ecco», rispondendo in maniera affermativa a una domanda che egli stesso si era posto. «Gufi, state a casa!», urla a una platea di tifosi in quel momento assente, gente che avrebbe goduto nel veder perdere il Siena con il Piacenza. Solamente nella fase finale, Conte ripesca un altro tratto distintivo dei suoi sfoghi: il carro dei vincitori. Prende fiato e pronuncia la sentenza: «Noi ci andiamo in Serie A, poi che non salga nessuno su quel cazzo di carro».




Il gol di Muntari, il gol di Matri

Nella prima stagione da tecnico della Juventus, Conte porta i suoi al titolo passando anche per quello che è rimasto nella storia come “la” polemica arbitrale degli anni ’10: il gol negato a Sulley Muntari. Nel post Milan-Juve, Alessandro Alciato stuzzica l’allenatore su un incontro con l’AD rossonero Adriano Galliani avvenuto durante l’intervallo, quindi dopo la mancata concessione della rete del ghanese. Conte predica calma, sostiene che la partita sia stata caricata troppo alla vigilia e si autodenuncia come uno dei responsabili, ma decide comunque di scendere nell’agone equiparando il gol fantasma di Muntari alla rete annullata a Matri per un fuorigioco che non c’era.

I toni sono ancora sereni, ma nella discussione entra anche Zvonimir Boban, ed è qui che a Conte saltano i nervi. Il croato sostiene che i due errori non siano paragonabili e lo fa con una fermezza che al tecnico deve risultare inaccettabile. «Togliti la maglietta prima di fare questi commenti», tuona Conte, suscitando un’enorme indignazione in Boban.

«Ditemi la differenza che c’è: sono due gol regolari annullati». Alla fine è Boban a decidere di lasciar correre, accettando le scuse. Troviamo un altro marchio di fabbrica degli sfoghi di Conte, che accusa i giornalisti di indurlo a fare polemica quando lui non ne avrebbe la minima intenzione.




Il post Lazio-Juventus

Nel gennaio 2013, Conte è tornato da poco sulla panchina della Juventus: in mezzo c’è stata la squalifica nell’ambito del processo per il calcioscommesse, che lo ha anche trasformato in un meme per la frase «è agghiacciante quello che dicono!», ripresa da Maurizio Crozza in una celebre imitazione. La semifinale di Coppa Italia contro la Lazio, per quanto si vede in campo, è un capolavoro dell’assurdo: la Juventus pareggia nel primo dei sei minuti di recupero ed è il gol che proietterebbe la doppia sfida ai supplementari, subisce il 2-1 di Floccari nel terzo minuto e si divora la rete della qualificazione con Giovinco prima e Marchisio poi, trovando un’autostrada verso Marchetti direttamente dal calcio d’inizio.

Conte, evidentemente nervoso per alcuni episodi arbitrali precedenti al clamoroso finale, si presenta nella sala stampa dell’Olimpico sfoderando un’altra delle sue armi micidiali: alle domande dei giornalisti reagisce con un fare serenissimo e con il chiaro intento di sabotare la conferenza stampa, un caso da manuale di comportamento passivo-aggressivo.

Alle domande sull’arbitraggio e su un possibile momento di crisi dei suoi (sconfitta interna contro la Sampdoria, pareggi contro Parma e Genoa), Conte risponde così: «La direzione arbitrale è stata impeccabile: Vucinic si è tuffato sulla prima situazione, Giovinco è svenuto per un calo di zuccheri. […] Questa è una grande crisi, siamo in piena crisi, bisogna fare grandissima attenzione e fare valutazioni attente perché mettiamo a repentaglio la qualificazione in Champions, sarà difficile rivincere lo scudetto in Italia. Siamo in crisi su tutto, anche a livello difensivo. Si è inceppato il meccanismo, bisogna essere bravi a ritrovarlo».

In sala stampa qualcuno inizia a infastidirsi e Conte ribatte di essere serissimo: «Ma volete vedere sempre Conte arrabbiato e polemico? Ho fatto i complimenti alla Lazio, sto dicendo che siamo in crisi. Per me non c’era rigore su Vucinic, Giovinco è svenuto e doveva prendere il secondo giallo per simulazione». La scena prosegue in maniera surreale: un giornalista chiede a Conte per quale motivo non decida di alzarsi e andarsene, il tecnico guarda altrove pur di non dare una risposta, poi riprende sullo spartito precedente.




Intermezzo: contro Capello

Dopo un 2-2 in casa del Verona, firmato da Juanito Gomez, Conte riprende duramente i suoi: siamo nel febbraio del 2014 e la Juve marcia spedita verso la stagione dei 102 punti in classifica. Il tecnico aveva già maldigerito le critiche arrivate dopo l’eliminazione in Champions League per mano del Galatasaray.

Un grande classico contiano, la virata sarcastica.

Ad attaccare il mister juventino, dopo la presa di posizione nei confronti della squadra, è un grande ex bianconero come Fabio Capello, che ritiene eccessiva la decisione del tecnico. Conte, che ha appena visto i suoi battere il Chievo, reagisce con sarcasmo: definisce Capello un guru nei confronti del quale «inchinarsi, fare riverenza e dire zi badrone». L’iniziale imperturbabilità si trasforma lentamente in rabbia malcelata: «Non c’è lui e noi stiamo facendo un torneo amatoriale. Rispettiamo le parole del guru e ne aspetto altre con ansia, da quando ci sono io gli piace mettere becco nelle cose della Juventus. […] Io non gliele mando a dire, che guardi in casa sua e si prepari a fare bene i Mondiali con la Russia, di superare il primo turno». Nota a margine: la Russia di Capello raccoglierà due punti nel girone e sarà eliminata.

La posa di Enrico Varriale al minuto 1:11 del video è quella di chi sa che sta per scoppiare un pandemonio e non ha la minima intenzione di fermarlo.




La guerra con Mourinho

Il successivo periodo alla guida della Nazionale non solo ha permesso a Conte di trovarsi in una situazione tutto sommato più serena, ma gli ottimi risultati ottenuti con una selezione che in quel momento non sembrava in grado di competere con i giganti d’Europa lo hanno anche parzialmente riabilitato agli occhi di chi non ne tollerava gli eccessi. Ma la sua voglia di vincere, una volta arrivato al Chelsea, lo ha portato a farsi come nemico l’uomo che più di tutti ha fatto dei “mind games” fuori dal campo una sorta di religione: José Mourinho. Diventa anche complesso riannodare tutti gli eventi che hanno portato i due a scontrarsi praticamente su ogni territorio possibile: dalle reazioni umane a temi più strettamente legati al gioco.

Il 23 ottobre 2016, con il Chelsea avanti 4-0 sul Manchester United allenato dal portoghese, Conte viene sorpreso mentre arringa la folla di Stamford Bridge. Forse per allontanare le polemiche dal campo, e concentrarle su un ambito differente, a fine gara Mourinho si avvicina a Conte e gli sussurra all’orecchio, in italiano: «Quella cosa la fai sull’1-0, non sul 4-0. Così è un’umiliazione per noi». Non è la prima volta in cui il tecnico leccese viene attaccato su una questione di questo tipo. Era già capitato nel marzo del 2013, quando Stefano Pioli, allora tecnico del Bologna, non aveva affatto gradito i gesti di Conte verso il settore ospiti con i suoi nettamente avanti sui rossoblù al Dall’Ara. Conte aveva replicato: «Se non posso neanche esultare con i tifosi dopo una vittoria basilare per arrivare al traguardo, ditemi voi che si può fare. Sto vincendo uno scudetto ed esulto coi tifosi. Piuttosto, perché non parliamo di quella gente coi bambini in braccio che quando arriviamo allo stadio ci insulta e bestemmia appena ci vede. Ovunque andiamo ci accolgono male. Anche oggi, in un posto civile come Bologna, ci hanno accolto a bastonate e a pietre contro il pullman. Io festeggio come e quando voglio».

Ma torniamo in Inghilterra. Conte minimizza: «In quel momento sentivo solo i tifosi del Manchester United e ho ritenuto giusto chiamare a raccolta i nostri». Mourinho si getta a capofitto in una battaglia dialettica che durerà per mesi. Le prime schermaglie sono soft, un riscaldamento per un fuoriclasse del duello come il portoghese, che piazza la prima stoccata a inizio 2018: «Solo perché non mi comporto come un pagliaccio a bordo campo vuol dire che ho perso la mia passione?». Conte si sente toccato sul vivo. Rinfaccia a Mourinho il passato, le sue esultanze leggendarie, in una conferenza stampa condotta interamente in inglese lascia che ci sia un solo passaggio in italiano, quando accusa Mou di essere affetto da demenza senile.

Sono bordate totalmente slegate dagli scontri in campo, che arrivano a settimane, anche mesi di distanza dagli incontri sul terreno di gioco. Conte è convinto di aver piazzato il dritto vincente, ma non sa che in realtà ha servito a Mourinho la palla giusta per un micidiale rovescio. Il portoghese inizia la sua replica dicendo che stava parlando soltanto a livello personale, prova a rigirare sul giornalista che ha riportato la responsabilità del concetto. È un diversivo, il petardo sta per esplodere quando tutti guardano altrove, con i giornalisti portati a spasso per oltre 2 minuti e mezzo. «Sì, ho sbagliato spesso a bordo campo e sì, continuerò a farlo, anche se cercherò di farlo meno. Quello che non ho mai fatto, e che mai mi capiterà, è essere sospeso per aver combinato delle partite». Conte ribatte dando in più occasioni a Mourinho del «piccolo uomo» e dichiarando di avere soltanto voglia di incontrarlo faccia a faccia per sentirsi ripetere le stesse frasi di persona. Il dualismo si spegnerà all’improvviso, come quelle liti al semaforo che svaniscono appena scatta il verde.

Un bignami del duello.




Secondo intermezzo: ancora Capello

Subito dopo Napoli-Inter di questa stagione, Capello e Conte si ritrovano l’un contro l’altro armati. Per l’ex tecnico di Milan e Roma, il gioco dei nerazzurri, per quanto codificato, è quello di una squadra che vuole colpire in contropiede negli spazi, pensando prevalentemente a non prenderle.

Conte la prende come un’offesa personale, e se c’è qualcosa che sappiamo di lui è quanta fiducia riponga nel proprio lavoro: già dalle primissime uscite dal suo arrivo all’Inter abbiamo visto una squadra con dei principi tattici chiarissimi, e in un’analisi successiva alla schermaglia Conte-Capello, Daniele Manusia aveva spiegato quanto poco di vero ci fosse nella semplificazione di “don Fabio”. Tra i tanti sfoghi del tecnico dell’Inter, quello con l’allenatore friulano è forse il più istruttivo: Conte insiste sul fatto di avere una squadra che ama andare a prendere gli avversari in alto. Soprattutto, a un certo punto del dialogo, si ha la sensazione di essere davanti a due persone che parlano lingue diverse: Conte è un tecnico perfettamente calato nei concetti di calcio del 2020, e preferisce lasciar sfilare via i temi un po’ datati che gli vengono proposti dalla controparte.




Dortmund, il campanello d’allarme

Le premesse per l’ultimo sfogo di Conte vengono da lontano, da novembre. Dopo la partita persa in rimonta con il Borussia Dortmund, alle telecamere si presenta con parole durissime: «Spero che queste partite facciano capire a chi deve capire alcune cose. Noi lavoriamo, andiamo a duemila, faccio fatica a rimproverare i ragazzi, li devo solo ringraziare. Mi sono scocciato di dire sempre le stesse cose, venisse anche qualche dirigente a parlare. Si è programmato all’inizio, lo si poteva fare molto molto meglio. Sono stati fatti errori importanti, non possiamo fare campionato e Champions League in queste condizioni».

In molti, compreso l’intervistatore, avevano individuato in quel discorso un pungolo strategico in vista del mercato di gennaio. Rivisto a posteriori, forse era il sintomo di qualcosa di più grande, ma soltanto Conte può sapere se si tratta dell’ennesimo segnale di un crescente attaccamento all’Inter o di un atto preparatorio, figlio della volontà di lasciare la nave. Dovendo scegliere, da ignari, verrebbe da propendere per la prima. Del resto, come scrisse il saggio, è quando non ci rassegniamo che vengono fuori le velleità.




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