Immaginatevi ad una fiera per conto di un’azienda che si sta affacciando in un nuovo settore, con una disponibilità economica sconfinata. La società che rappresentate ha da poco inaugurato un imponente progetto di diversificazione, che per finanziarsi ha alle spalle l’alta finanza: un’operazione mastodontica, che non può e non vuole passare inosservata, e non bada a spese tra acquisizioni, sponsorizzazioni ed eventi. Ed eccovi lì, pronti a dirottare quella pioggia di capitali verso chiunque vi faccia accomodare, in uno stand o nell’altro, e poi magari sul palco, per presentarvi in questo nuovo ambiente. È un mercato che offre opportunità interessanti, sia in termini di visibilità sia per il giro d’affari, ma l’accesso non è agevole: ipercompetitivo e con gerarchie solidificate da una tradizione secolare, ha una lunga fila all’ingresso e non spalanca le porte agli ultimi arrivati.
La fiera cui state partecipando è il mondo del tennis professionistico, gli stand rappresentano le principali federazioni nazionali. Intorno a loro i quattro palchi principali del Grande Slam; e non troppo distanti, gli angoli riservati a Finals e Masters 1000, e via dicendo tutti gli altri tornei del circuito. L’azienda che rappresentate, invece, è il Regno dell’Arabia Saudita. Sì, il vostro capo è il principe ereditario Moḥammad bin Salman (o forse, più realisticamente, Abdulaziz bin Turki Al Saud, ministro dello sport), il documento che ha ispirato la vostra trasferta è il Saudi Vision 2030, e questa è la storia dell’avanzata del fondo sovrano saudita PIF (Public Investment Fund) nel tennis.
Sull’irruzione saudita nel mondo dello sport è stata prodotta negli ultimi anni un’esaustiva letteratura, ne trovate una parte anche qui su L’Ultimo Uomo. Nel calcio si è passati dall’espansione “da remoto”, cioè acquistando e gestendo grosse squadre europee (come il Newcastle, ad esempio) all’appropriazione del palcoscenico, che in questo caso significa l'iniezione di denaro per il proprio campionato nazionale e la candidatura sempre più forte per ospitare i Mondiali. Al Mondiale in Qatar hanno fatto seguito lo sbarco a Riyad della Supercoppa italiana e spagnola (se non siete mai stati da quelle parti, qui avevo raccontato la strana atmosfera di un derby nel deserto); e quindi l’arrivo di Cristiano Ronaldo all’Al-Nassr, che ha preceduto la faraonica sessione estiva di calciomercato della SPL (vi avevo avvisato), e infine l’assegnazione della Coppa del Mondo 2034, ancora non ufficiale ma sempre più probabile.
Qualche tempo fa ho parlato con Rudi Garcia, visitando il centro allenamenti dell’Al-Nassr. L’ex tecnico di Roma e Napoli parlava con assoluta certezza dell’imminente boom del calcio saudita, anticipando quanto sarebbe effettivamente accaduto di lì a poco. Sono sicuro che se un paio di mesi fa fossi stato allo "Shining Jewel" di Jeddah (come viene chiamato il più grande stadio della città) per assistere alle Next Gen ATP Finals, torneo di fine stagione del circuito tennistico giovanile maschile, sarei tornato con sensazioni simili anche riguardo l’avanzata in questo sport. I quattromila chilometri di distanza dalla retorica occidentale che accompagna ogni evento a queste latitudini (con valide argomentazioni ma anche una buona dose di pregiudizio) aiutano ad accogliere una visione più pragmatica, o forse cinica, della situazione. Gli impianti scintillanti (letteralmente) e le cerimonie esagerate che di solito avvolgono questi eventi, come anche le attenzioni riservate dagli organizzatori ai giornalisti accreditati (qui un’accurata testimonianza), servono a ricordare a chi li guarda gli investimenti e l'impegno finanziario della monarchia saudita nello sport.
L’interesse dell'Arabia Saudita per il grande tennis è piuttosto recente. La prima Diriyah Tennis Cup, che ha affiancato altri tornei del Golfo già parte dei calendari ATP e WTA (Abu Dhabi, Dubai, Doha), ha visto la luce nel 2022; negli ultimi mesi, poi, sono sbarcate a Jeddah le Next Gen Finals (strappate a Milano, sede delle prime cinque edizioni) con un remunerativo accordo fino al 2027, e a dicembre si è disputato un match di esibizione tra i due leader del ranking singolare maschile, Novak Djokovic e Carlos Alcaraz. I primi passi sono stati mossi, quindi, ma all’orizzonte c’è molto di più.
Il tema è quantomai attuale dopo l’annuncio, lo scorso 5 febbraio, del Six Kings Slam: un torneo di esibizione che il prossimo ottobre sfilerà con un casting di extra-lusso alla Kingdom Arena di Riyad. Invito esclusivo per sei giocatori (e cinquanta titoli dello Slam): i primi quattro del ranking mondiale (Djokovic, Alcaraz, Sinner, Medvedev), il numero 7 (Rune), e il nuovo ambassador della federazione di tennis saudita, Rafael Nadal. Il tutto, nel pieno della stagione: un autentico attentato al calendario ATP, che ha portato l’approccio del fondo saudita a un nuovo livello di aggressività.
Nell'ambiente del tennis internazionale è suonato più di un allarme, anticipato dalle preoccupazioni espresse il mese scorso da Craig Tiley, direttore degli Australian Open, che ha commentato così le voci sempre più insistenti riguardo un possibile evento a Riyad il prossimo gennaio. «È una reale minaccia, chiunque potrebbe dire "mettiamo 100 milioni di dollari in palio, 2 milioni garantiti per la sola partecipazione, in un torneo con i primi 32 giocatori della classifica". Lo potrebbe fare chiunque, non c’è nulla che lo impedisca».
Formula dell’esibizione a parte, lo scenario descritto da Tiley non era lontano da quanto stava prendendo forma e sarebbe diventato presto di dominio pubblico: il Six Kings Slam, appunto. Sul montepremi complessivo ancora non si conoscono ufficialmente i dettagli, ma bastano le indiscrezioni per dare un’idea dell’opulenza: secondo The Telegraph, ai sei invitati sarebbero stati garantiti, soltanto per prendere parte alla fase preliminare (uno o due incontri), due milioni di dollari ciascuno, e addirittura sei per il vincitore finale. Il necessario per assicurarsi la presenza dei migliori al mondo, nonostante la concomitanza con i tornei 250 di Anversa e Astana, la vicinanza ai 500 di Basilea e Vienna, e soprattutto ai Masters 1000 di Shanghai e Paris-Bercy, che aprono e chiudono il calendario di ottobre.
Un’altra volta, dunque, il fondo PIF ha fatto rumorosamente irruzione sulla scena, creando un’asta evidentemente fuori budget per i competitor e intercettando la crescente richiesta da parte degli atleti di rinegoziare la suddivisione degli introiti generati dal tour. È un momento storico, questo, in cui i vertici del tennis si stanno mostrando abbastanza frammentati, e alla continua ricerca di sbocchi commerciali: un terreno fertile per l’avanzata saudita. Con la sola partecipation fee del Six Kings Slam, per esempio, Jannik Sinner incasserà più o meno quanto ricevuto per la vittoria dell’Australian Open; e un eventuale successo a Riyad garantirebbe all’altoatesino, o chi per lui, un assegno due o tre volte più sostanzioso rispetto a un titolo nello Slam (tra i due e i tre milioni di dollari) e oltre cinque volte superiore che in un Master 1000 (tra il milione e il milione e mezzo). Neanche a dirlo, il confronto con i prize money dei 250 e 500 di quelle settimane è impietoso, e i punti riconosciuti ai fini del ranking ATP non costituiscono un incentivo (neanche lontanamente) sufficiente per dissuadere i top player dal prendersi un paio di settimane di ferie dal circuito.
Tutto ciò ridimensiona inevitabilmente l’attrattiva di qualsiasi evento tennistico in programma il prossimo ottobre. L’assenza dei giocatori più popolari ha infatti un sensibile impatto sull’appeal e sulla visibilità dei tornei, e dunque sulla vendita di biglietti, diritti televisivi e spazi pubblicitari. Insomma, sulla loro sostenibilità economica. L'effetto-domino innescato dal primo grande evento a Riyadh, però, non rappresenta solo un duro colpo per le “vittime” di turno, ma un forte segnale all’intero movimento. O meglio, una minaccia. Se non ci trovate un posto ce lo troveremo da soli, sembra dire.
L’avvertimento non può essere ignorato: le federazioni tennistiche internazionali avrebbero tutto da perdere in un braccio di ferro con PIF, come insegna quanto accaduto l'anno scorso con la nascita della LIV Golf League, anche se i paragoni con un tour molto peculiare come quello del golf inevitabilmente non possono essere esattamente simmetrici. In ambito tennistico la minaccia non sembra di proporzioni simili, anche se le voci di una possibile "superlega" patrocinata dai sauditi non sono mancate negli ultimi mesi. ATP, WTA e ITF, in ogni caso, non dovrebbero aver alcun interesse a favorire la nascita di un competitor in grado di declassare qualsiasi attuale torneo nelle preferenze dei migliori al mondo.
Negli ultimi mesi Andrea Gaudenzi, presidente dell’ATP, non ha fatto mistero del dialogo in corso per l’inserimento nel tour di una tappa a Riyad. Ne ha parlato implicitamente in un’intervista rilasciata a The National un paio di mesi fa, commentando la prima edizione delle Next Gen Finals nella capitale saudita. «I feedback in termini di atmosfera e location che ho ricevuto in questi giorni, sia dai giocatori che dal mio team, sono ottimi. L’impianto è impressionante, così come l’investimento e la cura dei dettagli da parte dell’organizzazione. Ho riguardato l’evento anche in TV, e mi è sembrato decisamente accattivante. Quindi sì, direi che sono entusiasta di questa prima edizione in Arabia Saudita».
L’obiettivo - il più ambizioso possibile, almeno per il momento - è portare nel Golfo un Master 1000, prevedibilmente con una parallela pioggia di nuove sponsorizzazioni - tra cui i naming rights dello stesso circuito - in arrivo da Riyad. «Sperando che basti a soddisfare la voglia di tennis dell’Arabia Saudita», aggiunge con una vena di inquietudine Angelo Binaghi, presidente della Federazione Italiana Tennis e Padel. Secondo The Times, è solo una questione di tempo. Più incerto, invece, l’iter che consegnerà la licenza alla federazione saudita.
La strada più agevole sarebbe un bando dell’ATP - dall’esito scontato - per l’assegnazione di un Master 1000 aggiuntivo, il decimo nel calendario stagionale. In tal caso la prima edizione, secondo Matthew Futterman (The Athletic), dovrebbe disputarsi già il prossimo gennaio, con l’eventuale finale a pochi giorni dall’inizio dell’Australian Open. Una soluzione del genere, chiaramente, comporterebbe delle criticità logistiche: Riyadh e Melbourne sono distanti undici ore di volo e otto di fuso, e sappiamo per certo che le date dell’Happy Slam non sono negoziabili, coincidendo con il fertile periodo delle vacanze scolastiche estive nel Paese. Non il best case scenario, insomma, per la federtennis australiana, soprattutto considerando il duro colpo che infliggerebbe ai tornei locali di inizio anno - Canberra (Challenger), Adelaide (250), Auckland (250) e la United Cup (torneo a squadre miste nato nel 2022) - la cui sopravvivenza verrebbe messa a repentaglio.
Una possibile alternativa sarebbe la cessione della licenza da parte di uno dei nove Masters 1000 attuali. Le indiscrezioni non mancano nemmeno in tal senso, e di recente pare che abbiano avuto luogo degli incontri tra emissari sauditi e rappresentanti di Paris-Bercy, Madrid e Miami. Ad oggi, però, non sappiamo niente di più sulla posizione delle parti coinvolte, né sullo stato dei negoziati; al massimo ci è possibile tentare una stima sulle dimensioni economiche dell’affare, che potrebbe raggiungere il mezzo miliardo di dollari (il termine di paragone: la cessione dei diritti sul Mutua Madrid Open da Super Slam Ltd a International Management Group, due anni e mezzo fa, per poco più di 400 milioni).
Se per l’ATP si attende dunque l’annuncio del primo Master 1000 nel Golfo Persico, anche nell’ambito del tennis femminile si sono registrati dei significativi passi di avvicinamento da parte del fondo PIF. E anche qui, sembra solo questione di tempo per un accordo che integri Riyad o Jeddah all’interno del tour. L’obiettivo dichiarato sono le Finals, per cui la WTA sta cercando una nuova dimora. Dopo una serie di edizioni raffazzonate all’ultimo momento, tra cui la pessima esperienza a Cancun dello scorso novembre, è evidente che il prestigioso appuntamento di fine anno sia alla ricerca della propria dimensione e di un progetto convincente a lungo termine. Neanche a dirlo, musica per le orecchie dei sauditi.
Le resistenze da vincere nel contesto femminile, però, sono più difficili. Il CEO della WTA, Steve Simon, si è detto «sicuro al 100%» che l’Arabia Saudita possa occuparsi nel migliore dei modi dell’organizzazione di un evento del genere; allo stesso tempo, però, ha evidenziato i «grossi problemi» derivanti dall’accostamento a un Paese fortemente criticato per la condizione delle donne e della comunità LGBTQIA+, oltre che per le accuse di sportwashing che accompagnano l’espansione in questo ambito. Del resto, parliamo della disciplina più praticata a livello femminile in tutto il mondo, di un circuito i cui valori fondanti sono l’inclusività e l’equità, e di uno Stato che, giusto per fare un esempio, ha riconosciuto alle donne il diritto di guidare un’auto soltanto nel 2018.
La possibile partnership con Riyad è stata fortemente criticata da due leggende della WTA come Chris Evert e Martina Navratilova, che in un pezzo pubblicato sul Washington Post lo scorso 24 gennaio hanno espresso, senza giri di parole, il loro disappunto. «Non abbiamo costruito il tennis femminile perché si facesse sfruttare dall’Arabia Saudita», si legge nel titolo di un editoriale in cui le due ex atlete denunciano la disparità di genere e le leggi che ancora oggi «rendono le donne proprietà degli uomini» e «criminalizzano la comunità LGBTQIA+, fino alla condanna a morte».
Secondo Reema bint Bandar Al-Saud, ambasciatrice saudita negli Stati Uniti e membro della Commissione CIO a tutela di uguaglianza ed inclusione, Evert e Navratilova hanno dato voce a «un modo stereotipato e occidentalo-centrico di guardare all’Arabia Saudita». Sulla stessa lunghezza d’onda il pensiero di Ons Jabeur, ex numero 2 al mondo (miglior risultato di sempre per una tennista araba) e ambassador del brand saudita Kayanee (di proprietà del fondo PIF): «La gente dovrebbe essere più informata sull’Arabia Saudita e su come la situazione stia migliorando in questi anni. Io sinceramente, quando sono lì, mi sento sempre sicura e mi piacerebbe molto condividere questa esperienza con altre giocatrici del circuito».
Un parere in merito è stato chiesto recentemente anche a Rafael Nadal, in seguito all’annuncio della collaborazione con la STF: «Non credo che mi stia usando per ripulirsi l’immagine. È un Paese che si è aperto da poco al mondo, con tanti aspetti da migliorare e questioni su cui è in ritardo, senza dubbio; ma sono fiducioso sull’evoluzione nei prossimi 10-15 anni, e se questo non accadrà sarò il primo a dire di aver commesso un errore». «Lo sport deve costruire ponti, non muri», ha aggiunto Andrea Gaudenzi, «e può essere una forza trainante nella giusta direzione». Una retorica che abbiamo già conosciuto dall'esperienza di molti altri sport.
Anche se forse sarebbe ingenuo aspettarsi una posizione di conflitto su questi argomenti da parte di un ambasciatore del progetto saudita, fa comunque impressione continuare a sentire le stesse parole riguardo alla prospettiva illusoria che lo sport possa oltrepassare il potere politico riguardo alle condizioni sociali di un Paese. Un altro esempio è stato fornito dall’ex numero uno del ranking WTA, Caroline Wozniacki. La tennista danese ha recentemente sottolineato come lo sbarco del tennis in Arabia Saudita fosse «inevitabile, con tutti i soldi che possono mettere sul piatto», e che quindi la necessità sia più che altro quella di spostare il dibattito su come ciò possa avere un impatto politico, sociale e culturale positivo sul Paese. «Quando ci si trova in una situazione simile, si può solo provare a cambiare qualcosa e sforzarsi per fare del bene».
Ovviamente la speranza è che le aspettative di Nadal per il futuro si dimostrino corrette, che non dovrà fare alcun mea culpa, anche se forse alla fine conta fino a un certo punto. Le federazioni continueranno a seguire logiche di profitto, e cercheranno di giustificarsi con motivazioni poco convincenti e senza troppa considerazione per il rispetto dei diritti umani da parte dei propri partner. A chi cerca di mantenere un occhio critico rimarranno le dichiarazioni caustiche delle poche voci del circuito che cercano di mantenere un punto di vista proprio sulla questione. Per esempio Andy Roddick, che ha chiesto provocatoriamente se «i tennisti gay che giocheranno a Riyad dovranno fare una settimana di pausa dalla propria sessualità».