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Gli arbitraggi in Serie A stanno diventando un problema
04 nov 2021
Le polemiche delle scorse settimane hanno radici più profonde di quanto non sembri.
(articolo)
14 min
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Nel post-partita di mercoledì sera, su DAZN, i protagonisti delle due partite giocate - Empoli-Inter e Cagliari-Roma - hanno voluto parlare soltanto di arbitraggi, e in particolare di due presunti calci di rigore. Walter Mazzarri, paonazzo, testa bassa, nel suo momento ideale per il Madame Tussauds, comincia un’arringa documentatissima su tutti i presunti errori arbitrali contro il Cagliari, culminata con la richiesta di rigore su Pavoletti: «Mancini spinge Pavoletti e poi fa finta di cadere, il rigore era netto. Il VAR non ha nemmeno richiamato l'arbitro. Quando giochiamo così mi dà fastidio perdere dei punti, il VAR deve valere per tutti». Sull’episodio torna anche Pavoletti, con aria mezza divertita e mezza indignata, come se quel calcio di rigore fosse una roba talmente evidente che era persino inutile parlarne. Poi ai microfoni arriva Vicario - portiere dell’Empoli - e Pavoletti ci tiene a dirgli che anche loro hanno subito un torto.

Sul presunto rigore di D’Ambrosio su Bajrami, invece, Andreazzoli ha parlato per una decina di minuti abbondanti, con la premessa che lui non si lamenta mai, quindi se quella volta si lamenta è perché è successo davvero qualcosa di inaudito: «Ma come è possibile: mio nipote di 4 anni vede questa situazione, non servirà chiamarsi Valeri. Sei seduto alla scrivania e puoi vederlo, come fai a non vederlo». Quando è arrivato D’Ambrosio ai microfoni stava cercando di raccontare l’andamento tattico della partita, prima che venisse interrotto dal giornalista per tornare sul rigore e commentare.

Nell’ultimo turno infrasettimanale sono stati assegnati 4 calci di rigore: leggermente sotto la media di quest’anno, ma un numero comunque più alto rispetto a tutti gli altri campionati. Per qualcuno non erano comunque abbastanza. I rigori sono molti, ma potrebbero comunque essercene molti di più. Nell’ultimo Roma-Milan, per esempio, è stato assegnato un calcio di rigore, ma la Roma ne ha reclamato un altro al punto che a Mourinho è toccato auto-censurarsi, «Sennò non vado in panchina alla prossima partita». Per i più scrupolosi giallisti da moviola, gli episodi controversi erano persino più di così.

In Italia si parla di arbitri assecondando un riflesso incondizionato: è un’abitudine che parte della tradizione, come il caffè dopo i pasti o l’ossessione per la pulizia domestica. Qualcosa che fa parte di noi, nonostante ogni tanto ce ne vergogniamo; ci capita di auspicare un mondo liberato dalle discussioni arbitrali, e quando è stato introdotto il VAR, nel 2016, in molti credevano che ci avrebbe tolto il gusto della discussione. Pensavamo che l’intervento di una macchina avrebbe permesso la creazione di un sistema di giustizia perfetto. Che ingenui eravamo. Se è difficile dire che si parli di arbitri di più, di sicuro se ne parla in modo più stratificato, con più teatralità: ora le lamentele non riguardano tanto l’arbitro, quanto il VAR - o come entità astratta, o personificato dagli arbitri in Sala VAR, che immaginiamo come i poliziotti dietro ai vetri degli interrogatori. Il conflitto non è più quello tra esseri umani, ma tra essere umano e tecnologia, siamo entrati nell’era Sci-Fi delle polemiche.

Per Andreazzoli, in effetti, il problema non sono gli arbitri, anzi: «Li stimo molto, ho un rapporto confidenziale con molti e nutro stima. Il loro è un lavoro estremamente difficile e per questo ci sono dei mezzi per dare oggettività alle cose come il VAR». Andreazzoli parla del VAR come fosse una specie di Grande Fratello, o il Supercomputer Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio: un’intelligenza artificiale evolutissima e infallibile. Capace di individuare un calcio di rigore col massimo grado di precisione, come l’occhio di falco nel tennis individua al millimetro una palla dentro o fuori. Come fa, il VAR, a non accorgersi dei calci di rigore?!

Eppure a prendere la decisione al VAR non c’è una macchina onnisciente ma altri esseri umani che fanno scelte guardando le immagini seduti davanti a uno schermo. Non c’è un algoritmo, né un’intelligenza artificiale, ma solo altri occhi che si aggiungono a quelli dell’arbitro. Lo so che lo sapete, e magari vi sembrerà che sto spiegando l’ovvio, ma è una contraddizione che non vediamo, o che ci rifiutiamo di vedere. Cinque anni dopo la sua introduzione, continuiamo a coltivare l’illusione che il VAR sia uno strumento neutro che gli esseri umani applicano senza interferenze soggettive. Ma il VAR non è neutro, non è un puro e semplice tramite fra gli arbitri e l’oggettività divina di giudizio. Non è neutro nella sua applicazione, e non è neutro in sé: i media e la tecnologia abitano la nostra realtà modificando il nostro rapporto con essa.

Il VAR ha reso ancora meno accettabile l’idea che gli arbitri possano sbagliare. Anzi, direi che ha reso incomprensibile il fatto che un arbitro possa interpretare una situazione diversamente da noi davanti alla tv. E a forza di discutere e polemizzare col VAR, richiedendone un maggiore intervento, ne abbiamo distorto l’applicazione.

Quando è stato introdotto, il suo uso sarebbe stato limitato ai casi di «chiaro ed evidente errore». La questione, lo capite, è subito filosoficamente complessa: che cos’è un chiaro ed evidente errore? Un errore che si riconosce in modo facile, ok, ma quanto facilmente? Nelle prime due stagioni di utilizzo, il VAR è stato confinato a questo: una revisione a cui ricorrere quando l’arbitro si era proprio concesso un’umana distrazione. Poi, a un certo punto, qualcosa è cambiato.

La fioritura dei calci di rigore e l’immagine che mente

Se una definizione giuridica è vaga, in Italia, ci si può aggrappare da tutti i lati per slabbrarla. I pretesti per fare polemica erano tanti: se la telecamere mostrano le immagini di un contatto che l’arbitro in diretta non ha ritenuto falloso, il VAR non serve appunto per segnalargliele? I discorsi e le lamentele si sono stratificate, mettendo pressione alla classe arbitrale e modificando la realtà un poco alla volta. È quello il momento in cui la realtà televisiva per immagini ha soppiantato quella empirica in presa diretta.

Secondo questo studio statistico, nei primi due anni in Serie A la media dei calci di rigore assegnati è rimasta la stessa degli anni pre-VAR, subendo però un’impennata dalla stagione 2019/20, che ha frantumato ogni record. Quell’anno sono stati concessi una media di 4,92 rigori a giornata, mentre il record precedente era di 3,68, stabilito nella stagione 1949/50. In totale sono stati assegnati 187 rigori e la squadra che ne ha ricevuti di più, la Lazio, ne ha battuti 18, superando il record italiano ed europeo in un singolo campionato. In quell’anno la discussione giuridica verteva soprattutto sui falli di mano, che avevano provocato quel numero mostruoso di rigori assegnati. C’era stato un piccolo cambio di interpretazione del regolamento, almeno da quello che abbiamo potuto intuire, visto che nessuno nei vertici arbitrali ne ha parlato esplicitamente. Bastava toccare la palla con la mano, in qualsiasi contesto o situazione, per vedersi assegnare un rigore contro. O almeno così sembrava da fuori.

Con una leggera revisione di quella regola, nella stagione successiva il numero di rigori si è ridimensionato, rimanendo comunque alto: 3,95 rigori per giornata è comunque la media più alta della storia escludendo l’anno precedente. Il tema dello scorso anno erano i rigori per il Milan, che sono riusciti a superare il record storico della Lazio dell’anno precedente, spingendosi alla cifra tonda di 20 rigori. Un dato più anomalo, in un contesto meno prolifico di rigori.

Le strade sono due: o i difensori sono all’improvviso diventati più fallosi in area di rigore, oppure l’interpretazione del VAR delle ultime stagioni ha ampliato la casistica di che cos’è un fallo in area. In sostanza: quasi tutto ciò che prevede il contatto, è fallo. L’interpretazione sembra sempre meno determinata dall’impressione dinamica in diretta, e sempre più dall’immagine statica. L’arbitro riguarda l’azione al VAR scomposta in fotogrammi che collassano fino al momento del delitto: il contatto tra un giocatore e l’altro. Da quelle immagini è impossibile valutare tutte le variabili visibili solo in diretta: la dinamica dell’azione, il suo contesto, l’entità del contatto, la volontarietà, quanto svantaggia il calciatore. Si rimane inchiodati all’immagine statica di un corpo che tocca un’altro corpo, a una fotografia, che il critico d’arte John Berger definiva «Una strana invenzione»: «Tutte le fotografie sono ambigue. Tutte sono state estratte da una continuità».

Cos’è un contatto falloso e i limiti dell’oggettività

Nella partita tra Venezia e Salernitana l’episodio più chiacchierato non ha riguardato un calcio di rigore ma un’espulsione. Nonostante Ethan Ampadu sia intervenuto in recupero su un pallone con una tecnica di scivolata perfetta, l’arbitro ha rilevato un contatto di qualche tipo tra il suo piede e quello di Ribery, e quindi un fallo da ultimo uomo. Anche scomponendo il video in immagini, usando la lente di ingrandimento con lo sguardo più malizioso possibile, il contatto è davvero difficile da riscontare. Si può dire che sia stato più o meno indovinato dall’arbitro.

Ho citato l’espulsione di Ampadu non per l’episodio in sé, ma per capire fino a che punto si è ampliata la casistica di cosa è un contatto falloso in una partita. Per i falli di mano, pur non arrivando alla sclerosi di un paio di stagioni fa, vale più o meno la stessa logica. Ricordate il fallo da rigore di Bastoni contro la Lazio? Patric lo anticipa di testa e la palla gli finisce sul braccio, a pochi centimetri dalla testa avversaria, mentre era in volo, senza fare nessun movimento intenzionale verso la palla, a bloccare un tiro che non pareva pericoloso. Di fatto, è stata punita l’esistenza stessa del braccio di Bastoni.

Sarebbe nella natura giuridica di uno sport dinamico come il calcio quello di avere un sistema di giustizia imperfetto, ricco di sfumature e zone grigie che possono essere risolte solo tramite un’interpretazione soggettiva, calcolando tutte le variabili in movimento. L’utilizzo che si fa del VAR nelle ultime tre stagioni è invece mirato a schiarire tutte le zone grigie, a eliminare tutte le ambiguità, a tendere a un’oggettività di giudizio che è solo utopica. Come si può essere perfettamente oggettivi nella valutazione di contatti ambigui in area di rigore? Solo sanzionando qualsiasi tipo di contatto. Il contesto che si crea, allora, è quello per cui qualsiasi contatto che avviene in area non sanzionato col rigore, diventa oggetto di lamentele e polemiche - come quelle di Mazzarri e Andreazzoli. L’unica agognata uniformità di giudizio possibile diventa allora assegnare rigore per qualsiasi, microscopica, infrazione. Come insegnano le teorie del disciplinamento, uno sguardo che controlla - anche quello di una macchina - basta di per sé a modificare i comportamenti dei soggetti controllati. Come ha sintetizzato Gianluca Mancini: «Noi difensori non possiamo più intervenire: non possiamo fare contrasti, dobbiamo tenere le mani dietro la schiena. Meglio che non dico cosa è diventato il calcio».

Cambio discorso, ma neanche troppo: anche la sanzione dei fuorigioco molecolari attraverso il tracciamento delle linee immaginarie col VAR rientra in questa ricerca di oggettività. Una ricerca anche in questo caso impossibile, visto che - come spiegato bene in questo thread Reddit - nel tracciamento del fuorigioco rimane sempre un piccolo margine d’errore (non ininfluente, se calcoliamo quanto sono esigui i fuorigioco fischiati).

Arbitri sul trono

Quello che dovremmo chiederci è se attraverso l’applicazione di un regolamento di questo tipo stiamo creando delle partite più giuste e più godibili. Se stiamo rispettando, come si dice con una certa pomposità, lo spirito del gioco. A volte tendiamo a dimenticarlo, ma a quello servirebbe un regolamento: a rendere lo spettacolo più giusto e più bello. L’impressione è che la dimensione giuridica nelle ultime tre stagioni non è più funzionale e strumentale allo svolgersi del gioco, ma al contrario è diventata una dimensione parallela indipendente e quasi più importante del gioco stesso. Quando si tratta di giudicare un contatto da rigore, quando c’è da tracciare una linea del fuorigioco, o anche solo quando c’è da estrarre un cartellino giallo o rosso per proteste, il regolamento non sembra più in funzione di una partita migliore, ma sembra funzionare solo per sé stesso, nella propria astrattezza, come in un romanzo di Kafka. Un rispettare la legge per la legge in sé.

A livello culturale, gli arbitri stanno assumendo un’importanza sempre maggiore: le persone hanno un’opinione formata sulle loro caratteristiche. Esistono account social dedicati che ne studiano e ne recensiscono le prestazioni come fossero calciatori, il livello analitico sulle loro decisioni è sempre più minuzioso e appassionato. Forse è per il nostro amore per la burocrazia e per la discussione giuridica, che in certi casi supera quello per il calcio in sé: siamo pur sempre il paese che ha inventato una trasmissione chiamata “Il processo di Biscardi” (e che manda in onda da 36 anni Forum, un processo giudiziario simulato e sceneggiato in televisione). E così dal principio di un arbitro invisibile, che scompare fra le pieghe di una partita, si è passati al principio dell’arbitro onnipresente e invasivo. Si è cominciato a parlare degli arbitraggi italiani anche all’estero; su The Athletic James Horncastle ha scritto che «L’ipersensibilità degli arbitraggi in Serie A, sul campo o nelle sale VAR, funziona al contrario rispetto all’attitudine di lasciar giocare in Inghilterra». Nell’articolo - intitolato «Gli arbitraggi senza fronzoli della Serie A» - si calcola che dalla stagione 2019/20 a oggi in Italia si sono assegnati il 60% di rigori in più rispetto alla Premier League. Una percentuale sufficiente per poter parlare di due sport differenti. Nell’articolo si cita anche il caso clamoroso delle quattro espulsioni di allenatori in una singola giornata di Serie A, un sintomo, al contempo, della nevrosi polemica dei tecnici, ma anche della crescente suscettibilità della classe arbitrale.

Dopo uno dei periodi più isterici della storia recente della Serie A, si dice che gli arbitri italiani vogliano cambiare direzione. “Si dice” perché non esiste nessun canale di comunicazione per gli arbitri, e i cambi di regolamento finiscono sempre in un cesto di congetture e speculazioni. (Forse sarebbe anche utile cercare di più il dialogo, come fece la Champions League un paio d'anni fa, pubblicando degli articoli che spiegavano le decisioni più controverse delle partite. Una bella idea, infatti abbandonata). La Gazzetta dello Sport, però, ha pubblicato un articolo in cui si parla di alcune modifiche nelle direzioni di gara. Bisognerebbe ricercare un maggiore dialogo con i tecnici, dopo i primi mesi di “pugno duro” e, sopratutto, andrebbero assegnati meno “rigorini”, il termine con il quale si descrivono quei calci di rigore concessi dopo infrazioni minime del regolamento.

Il problema, però, rimane quello di risolvere il conflitto che da tre anni va in scena tra l’uso del VAR e lo spirito del gioco. La ricerca dell’oggettività attraverso le immagini, con un uso invasivo del VAR, non sembra potersi conciliare con un sistema di giustizia imperfetto e dinamico come quello del calcio. O almeno: di certo non aiuta la godibilità dello spettacolo.

Per ovviare il problema dei “rigorini” il regolamento attuale non sembra del tutto adeguato. Non esistono, per esempio, sanzioni più sfumate, che possono essere commisurate al livello di gravità della scorrettezza commessa in area di rigore. In questo pezzo di circa un anno fa - nato su premesse non troppo diverse, ma il problema è rimasto - mi chiedevo se non fosse il caso di ragionare sull’estensione dell’uso della punizione a due, per non punire ogni fallo col calcio di rigore. Prendiamo il rigore concesso alla Juventus: Dumfries in qualche modo commette fallo, ma data la scarsa pericolosità della situazione, siamo sicuri che il calcio di rigore non sia una sanzione eccessiva?

I rigorini nascono da tutto quello che abbiamo detto, ma anche da un problema di personalità degli arbitri. Questa classe arbitrale non sembra pronta a prendersi più responsabilità, quindi a utilizzare più spesso il buon senso, senza aggrapparsi ai fotogrammi spesso distorcenti del VAR o a un regolamento opaco. L’interpretazione soggettiva dell’arbitro, la sua sensibilità, rimane forse l’unico strumento in grado di valutare la complessità delle situazioni che una partita di calcio mette continuamente in scena. Il VAR dovrebbe tornare a essere uno strumento a cui ricorrere in casi estremi, come del resto si fa senza problemi nel resto d’Europa. Non è una questione di arbitri bravi o scarsi: dovremmo chiederci perché proprio in Italia il suo utilizzo abbia generato una tale schizofrenia. L’arbitro dovrebbe avere più libertà, ma non nell’applicazione permalosa di un regolamento astratto, ma per permettere a una partita di giocarsi nel miglior modo possibile. È un processo giuridico, ma soprattutto culturale. Se in Italia si è arrivati a questa situazione isterica, è soprattutto per il nostro amore per la polemica giuridica, per il complottismo calcistico, per le pressioni politiche a cui il calcio è sottoposto senza sosta. Prima di qualsiasi riforma, dovrebbe cambiare il nostro atteggiamento. Chissà però se saremo mai pronti, ad abbandonare il nostro piacere per le discussioni da azzeccagarbugli.

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