Walter Day è un uomo che sembra uscito dall’etichetta di una birra. Ha un naso fino, disegnato con un’unica linea concava sopra dei baffi folti che ne incorniciano il sorriso. Anche le notizie su di lui sono talmente confuse che è difficile credere sia un personaggio reale, e sembra suggerire il contrario anche il suo nome posticcio. Che lavoro fa, innanzitutto? Per qualche motivo in pubblico dice di essere uno storico, anche se ha passato 11 anni all’università (quella di Salem, in Massachusetts) senza mai riuscire a laurearsi. Sul suo sito personale, non più online ma parzialmente visitabile ancora oggi grazie al web archive, sotto al suo nome oltre a “storico” c’è scritto anche “musicista” e “designer”. La sua biografia, inspiegabilmente, si ferma al 1955, quando lui aveva sei anni: “Vivendo solo a un miglio da Disneyland, la famiglia Day fu tra i primi visitatori del parco divertimenti nella sua prima settimana di vita”. Per un periodo ha fatto l’operatore finanziario nel settore petrolifero ma poi si è stufato, non faceva per lui.
L’unica cosa che sappiamo è che è ossessionato dalla memoria, forse è per questo che si fa chiamare storico. In altre parole, è un collezionista compulsivo: ha 15 milioni di biglietti da visita e 7 milioni di giornali, alcuni dei quali li vende per raggranellare qualcosa. Nessuno sa esattamente perché a un certo punto abbia deciso di entrare nel mondo degli arcade, quei giganteschi portali metallici attraverso cui è possibile accedere al mondo dei videogiochi. Certo, c’entra il fatto che vanno incredibilmente di moda agli inizi degli anni ’80 ma la sua non sembra solo un’operazione di business. Nel 1981 compra un locale per gli arcade chiamato Twin Galaxies a Ottumwa, cittadina di poco più di 25mila anime in Iowa, e in poco tempo diventa il più famoso dello stato. Ma Walter Day non è davvero un imprenditore. È uno storico, o meglio, è ossessionato dalla memoria.
Il 18 gennaio del 1982 il Time mette in copertina lo schermo blu scuro di un arcade, con degli UFO stilizzati che sparano dei laser a terra verso un ragazzo in camicia bianca, tra due catene montuose rosa fluo: “GRONK! FLASH! ZAP! I videogiochi fanno incursione nel mondo” è il titolo. Dentro la storia di Steve Juraszek, un ragazzo di 15 anni che è entrato in un arcade di Mount Prospect, in Illinois, e ne è uscito con un punteggio di 15,963,100 dopo 16 ore e 34 minuti consecutivi di gioco a Defender, con la stessa monetina iniziale da 25 centesimi. “Un buon video-atleta, come stanno iniziando a descriversi i tossici da videogiochi, può resistere per poche migliaia di punti, o una manciata di minuti” scrive nel pezzo il Time per fare un confronto. Nel corpo dell’articolo anche la foto di Juraszek, capelli biondi liscissimi, con una maglietta che recita: “Steve Juraszek Defender Champ of the World”.
Walter Day rimane affascinato da quel numero del Time, il suo cervello inizia ad attorcigliarsi intorno al sorriso compiaciuto di Juraszek e su ciò che c’è scritto su quella maglietta. Nel 1982 ancora non esiste internet per come lo conosciamo oggi e la memoria non è esternalizzata su server lontani migliaia di chilometri dalle nostre coscienze. Non c’è modo di sapere le cose al di fuori dal proprio universo se non con la radio, la TV o i giornali. E se si esclude quel numero del Time quasi nessuno parla di videogiochi. Walter Day quindi chiama la casa di produzione dell’arcade su cui gira Defender, la Williams Electronics di Chicago, e chiede se quello di Juraszek sia davvero il record del mondo. Forse per Walter Day è in primo luogo un problema di accuratezza storica: non si può andare in giro a dire che si è il campione del mondo di qualcosa se di quel qualcosa non esiste nemmeno un vero campionato. Insomma, siamo nel 1982 e oltre a internet non esiste ovviamente nemmeno un vero circuito competitivo legato ai videogiochi. La risposta non esiste, quindi, e mi immagino le facce interrogative dall’altra parte della cornetta: «Non ne abbiamo idea».
Il fatto che Walter Day abbia posto una domanda a cui nel 1982 non si poteva nemmeno rispondere mi stava portando a scrivere che è un uomo che ha anticipato il suo tempo. Ma così non si farebbe onore a ciò che ha fatto. E cioè andare in televisione e dire al resto del Paese: se pensate di essere i migliori del mondo in un videogioco chiamatemi o mandatemi i vostri record. Da quel momento inizia a ricevere una cinquantina di chiamate al giorno, decine di ragazzi che si accalcano alla sua porta per scrivere il proprio nome in cima al suo registro. Twin Galaxies improvvisamente diventa la memoria storica dei videogiochi. Walter Day non sta anticipando il suo tempo. Lo sta scrivendo. E forse non aveva tutti i torti a farsi chiamare storico.
Ma come si veste uno storico, o meglio, uno che sta scrivendo la storia? Walter Day si mette una polo a righe bianche e nere, come quelle indossavano gli arbitri di baseball, forse perché alla fine è l’arbitro a omologare il risultato, a dare l’ok per metterlo dentro i libri di storia. Da quel momento la indosserà in ogni occasione pubblica fino ad oggi che ha 71 anni, soprattutto quando parteciperà agli eventi della Guinness World Records, di cui diventerà il fornitore ufficiale di risultati per quanto riguarda i videogiochi fin dal 1983. Mi rendo conto di essere stato impreciso all’inizio: avevo detto che Walter Day sembrava uscito da un’etichetta di una birra e invece, con quella camicia bianca e nera, mi sembra chiaro adesso che è la reincarnazione vivente del logo di Foot Locker.
Il documentario dedicato al mondo da lui creato, Chasing Ghosts - Beyond the Arcade, si conclude con questo messaggio: “Walter ha mandato la sua maglietta alla collezione di storia dei videogiochi dello Smithsonian Institute. Quella collezione non esiste”.
1.
Il vero arbitro di Twin Galaxies non è però Walter Day, ma una persona che a un arbitro non ci assomiglia nemmeno lontanamente. È un uomo con un cognome impronunciabile, perennemente con dei Ray Ban a goccia trasparenti da serial killer e una maglietta di Doom degna del più puro dei metallari.
Robert Mruczek è un esperto di videogiochi fin dalla fine degli anni ’60 e se ho detto che ha qualcosa del serial killer non è solo per i Ray Ban a goccia trasparenti, anche se sarebbero sufficienti. Mruczek ha una dolcezza da vecchia signora ma parla come il sintetizzatore vocale di Windows 98 e, come Walter Day, è un collezionista, più precisamente un collezionista di quadri trash di donne nude, di quelli che trovate ai mercatini di paese. Ne ha circa 300mila pezzi.
Mruczek vive in una di quelle case che si vedono solo nei reality show americani, con le stanze disadorne con la moquette beige e strapiene di cose, in cui sembra si faccia fatica persino a camminare. Casa sua, per la precisione, è piena di VHS e DVD di ore e ore di gameplay di videogiocatori che vogliono entrare nei sacri registri di Twin Galaxies. Il compito di Mruczek è quello di guardarli tutti, minuto per minuto, e controllare che non abbiano barato. In Chasing Ghosts - Beyond the Arcade dice di averne visti più di ventimila, di cui uno di gameplay di Nibbler che si aggira tra le 30 e le 40 ore consecutive. «Quasi non dormo. Vado a letto tra le tre e mezzo e le cinque del mattino, e ci sono giorni in cui per 24 ore non faccio altro che guardare videogiochi». Il suo unico ausilio in questa vita apparentemente infernale è Rusty, il suo gatto arancione da dieci chili che sembra ingrassato con Photoshop.
Sono costretto a tornare sul punto che negli anni ’80 non esiste connessione sufficientemente veloce per passare video di ore e ore di gameplay, né server abbastanza capienti. E ovviamente nemmeno software di intelligenza artificiale per l’analisi dei cheat. Nel gioco di metafore viventi che ho provato a descrivere fin dall’inizio di questo pezzo, Robert Mruczek è tutte queste cose dentro una vera persona in carne e ossa, anni e anni prima di cui ce ne sarà realmente bisogno.
Uno dei pochissimi quadri che ha attaccato alle pareti di casa sua è una copertina di Life, del 1983. In Chasing Ghosts - Beyond the Arcade la mostra orgoglioso e ci dice: «Per i videogiochi questo è l’equivalente di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band».
2.
Quella copertina di Life arriva quasi a un anno esatto da quella del Time che tanto aveva affascinato Walter Day. Ennesima testimonianza della sua incredibile capacità di plasmare la cultura pop a sua immagine e somiglianza. Dentro ci sono i migliori videogiocatori del paese, che ha riunito dentro l’universo di Twin Galaxies nell’anno appena passato.
Sono appoggiati su una fila di arcade, davanti alla luce dell’alba, mentre più sotto un gruppo di cheerleader disposte a raggio li indicano in maniera coreografica. Come colori e composizione dell’immagine ricorda davvero Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Solo che al posto di Sonny Liston, Edgar Allan Poe e Bob Dylan ci sono loro (ho fatto una selezione dei miei preferiti):
- Leo Daniels, campione di Robotron, Tempest e Asteroids. Non ho capito attualmente che lavoro fa, sembra essere rimasto intrappolato nel mondo dei videogiochi. Ha una casa che sembra un museo del gadget e un casinò privato nel seminterrato.
- Steve Sanders, ex campione di Donkey Kong, su cui ha scritto una guida pratica. È diventato un fanatico cattolico dopo aver ammesso pubblicamente di aver falsificato il suo record.
- Todd Rogers, campione di Gorf, si faceva chiamare Game Boy. Dopo la sua carriera nel mondo dei videogiochi ha iniziato a collezionare ragni esotici che tiene nello sgabuzzino. Dorme per terra.
- Roy Shildt, campione di Command, per tutti Mr. Awesome. È uno di quei personaggi alla Diprè in cui il confine tra l’ironia e la realtà è andato completamente perso. In pubblico è vestito da generale americano, con i gradi, le stellette e un’enorme A sul cappello. Grande avversario di Billy Mitchell, campione di PacMan (ci arriviamo), perché PacMan è un «gioco da ragazze» mentre Mr. Command è da machi essendo pieno di «riferimenti fallici». Ha scritto un libro fotografico a fumetti su se stesso che ha definito come «il più grande risultato letterario della storia americana».
Come avrete capito, nessuno di loro ha fatto carriera nel mondo dei videogiochi. D’altra parte, non poteva essere altrimenti perché quella carriera, semplicemente, non esisteva. Il sogno arcade di Walter Day è finito già nel 1984, quando il mondo dei videogiochi è iniziato ad essere monopolizzato dalle console, le persone hanno iniziato a giocare a casa e andare in un posto per vedere un videogiocatore esibirsi è iniziata a sembrare semplicemente un’idea stupida. Il confine tra un profeta e un pazzo, si sa, è sottile.
Nel 1984 chiude Twin Galaxies, l’arcade di Ottumwa, mentre rimane in vita l’organizzazione alle sue spalle, che continuerà ad essere un’istituzione nel mondo del gaming anche negli anni a venire. Il declino, però, era iniziato già nell’estate del 1983 quando fallisce un’idea persino più ambiziosa di Twin Galaxies, che Walter Day sviluppa insieme a Jim Riley, un imprenditore di Boston. Si chiama Electronic Circus e prevede che i videogiocatori, messi sotto contratto, si esibiscano in un tour che attraverserà tutti gli Stati Uniti, e ognuno potrà andare a sfidarli. Vi suona familiare? A metà degli anni ’80, però, l’idea si rivela un completo fallimento, già dalla prima tappa a Boston. All’Electronic Circus non si presenta quasi nessuno e l’idea viene abbandonata dopo pochi giorni.
Walter Day prova a rilanciare in ambizione: crea la nazionale americana di videogiochi con altri videogiocatori (con Steve Sanders come primo capitano), compra un pulmino e prova un secondo tour che andrà a fare visita anche alle ambasciate a Washington per sfidare le nazionali degli altri paesi. Il progetto fallisce in maniera ancora più spettacolare dell’Electronic Circus: il pulmino si rompe una prima volta in Wisconsin, poi finisce la benzina nel bel mezzo del Mid-West, viene svaligiato a Omaha. Il gruppo decide di virare su delle macchine prese a noleggio ma la lista di disgrazie non si ferma, perché una si rompe nel bel mezzo del deserto dell’Arizona. La corsa pioneristica verso il futuro di Walter Day finisce letteralmente nella polvere.
3.
Prima ho scritto che Twin Galaxies ha continuato ad essere un’istituzione nel mondo del gaming anche dopo il 1984. È una metafora che la fa assomigliare a un ministero sovietico e per quanto mi piaccia pensarla così - magari con un grosso edificio di cemento in una desolata città della Bielorussia - in realtà è un po’ fuorviante rispetto a come funzionava realmente. La verità è che inizialmente Twin Galaxies non aveva alcuna struttura e gli arbitri che dovevano decidere sulla veridicità dei record erano gli stessi videogiocatori che li mettevano a segno. Lo stesso Robert Mruczek, alla fine, non era nient’altro che un gamer.
Walter Day era un pioniere ma anche un animo innocente e all’inizio non pensava nemmeno che le persone potessero barare per ottenere un record a un arcade. Forse non aveva calcolato ciò che c’era in ballo, con quel record - non solo una serie di numeri luminosi su uno schermo a led, ma anche fama, riconoscibilità, coolness. Se avete letto queste ultime tre parole e avete pensato che sia un’esagerazione in relazione a qualcosa in fin dei conti ridicolo come gli arcade degli anni ’80 sappiate che in quella breve parentesi temporale una delle principali hit pop era dedicata a Pac-Man (Pac-Man Fever, di Buckner & Garcia) e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan si congratulava pubblicamente con un bambino di otto anni per il suo incredibile record di 6,131,930, sempre a Pac-Man. Talmente incredibile da essere quasi sicuramente falso.
Non lo dico io, sia chiaro, ma colui che era allora riconosciuto come campione di Pac-Man da Twin Galaxies, e cioè Billy Mitchell. Il videogiocatore probabilmente più talentuoso, di sicuro il più controverso. Un black hat, come direbbero gli americani - un’espressione talmente appropriata per Billy Mitchell da rivelare il suo senso figurato (cioè: un cattivo) semplicemente immaginandosi un cappello nero a falde larghe sopra la sua testa.
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Billy Mitchell è esattamente quello che sembra: un uomo che cammina a gambe larghe come un cowboy, che ama pensarsi come un patriota e che parla attraverso frasi che sarebbero perfette in bocca a un personaggio di Sergio Leone. Nel documentario King of Kong viene presentato così: «Quando Billy Mitchell entra in un arcade tutto si ferma, c’è elettricità intorno a lui, tutti vogliono affollarsi intorno a lui, tutti vogliono vederlo». Praticamente la descrizione di un cowboy che entra in un saloon.
L’idea che fossero gli stessi giocatori ad essere i cacciatori di teste dei falsi record viene direttamente da lui, che anche a vederlo ci si chiede come abbia fatto a non recitare mai con Clint Eastwood. Billy Mitchell viene a sapere dalla rivista Joystick che c’è un certo Steve Sanders che si è proclamato campione di Donkey Kong con un record dichiarato di 1,400,000. Lo chiamano King of Kong. Allora telefona a Walter Day e gli dice: «È una stronzata [in realtà dice bullsugar, per mascherare il più volgare bullshit]. Quello là non ti sta dicendo la verità». Ma non ha alcuna prova, è solo pura fiducia nel fatto che se non è stato lui a fare quel record allora è impossibile che l’abbia fatto qualcun altro. Quando i due si incontrano, Mitchell lo sfida. Sanders ci prova diverse volte ma non arriva sopra i 200mila. Mitchell alla prima partita va oltre gli 800mila. Quando finisce si gira e fa: «Steve, quando ci siamo visti ero un tuo allievo. Adesso io sono il maestro». Questa frase è ricordata dallo stesso Steve Sanders, che nel raccontarla imita la voce di Billy Mitchell come se fosse quella di Peter Weller in Robocop.
L’impatto di Billy Mitchell su Steve Sanders ha letteralmente qualcosa di divino: pochi giorni dopo l’ex campione di Donkey Kong ammette in una lettera indirizzata agli altri giocatori di Twin Galaxies di aver dichiarato un record falso, iniziando con questa redenzione la sua svolta religiosa. «Il proverbio della Bibbia dice: “Come il ferro affila il ferro, così un uomo affila un altro”», ricorda Sanders in King of Kong «Bill mi ha reso una persona migliore. E lo ha fatto facendomi confessare». Personalmente, però, preferisco la versione spaghetti-western di Billy Mitchell: «Se Steve è la persona che è oggi è perché è passato sotto il martello di Billy Mitchell» (immaginatevela sempre con la voce del doppiatore di Peter Weller). Oggi, incredibilmente, i due sono grandi amici.
Da questo episodio nasce l’idea che i campioni di Twin Galaxies siano allo stesso tempo i garanti della veridicità dei record nei rispettivi videogiochi. In alcuni casi, come in quello di Billy Mitchell, questa idea è sorretta dalla constatazione che loro sono gli unici ad avere le conoscenze pratiche per arrivare a quei record.
Prendiamo, ad esempio, Pac-Man. Presto Billy Mitchell arriva a una perfezione tale da scoprire che il gioco in realtà ha solamente 21 livelli diversi. Dopo, il gioco non fa altro che replicare lo stesso identico labirinto del 21esimo livello, fino al livello 255. Se si supera anche il livello 255, l’arcade finisce la memoria e il livello 256 è in realtà un leggendario bug, il cosiddetto split-screen. In altre parole, al livello 256 lo schermo si “spezza” mostrando una metà del labirinto normale e una metà occupata invece da una cascata informe di numeri e codice di programmazione. Ma nella parte buggata, scopre Billy Mitchell dopo ore e ore di gioco, e disegni col pennarello sullo schermo dell’arcade per ricostruire com’era il labirinto sotto quella cascata di numeri e codici, si possono comunque raccogliere dei puntini: per la precisione 9 dei 244 totali di ogni livello. Sulla base di tutte queste scoperte già nel 1983 può teorizzare il punteggio perfetto: 3,333,360.
Dico teorizzare perché, pur potendo, Billy Mitchell non lo realizzerà per altri 16 anni. L’idea di essere l’unico sulla faccia della terra a essere in grado di fare qualcosa sembra soddisfarlo molto di più che farla davvero. «Mi piace la vittoria, ma è solo sofferenza», ha detto una volta «Non so cosa significhi entrare nel flow. C’è bisogno di intensità e concentrazione costante. Stringi il joystick in mano per ore e a un certo punto inizi a sentire che te la sta per frantumare».
In quei 16 anni di attesa la funzione di Billy Mitchell dentro Twin Galaxies per quanto riguarda Pac-Man è in sostanza una soltanto: andare dalle persone che dicono di aver raggiunto il punteggio perfetto e smascherarle. A volte gli basta raggiungerle al telefono e fargli una lista di domande: a quale livello i fantasmi smettono di diventare blu? Dove sono i puntini invisibili dello split-screen? Come si arriva al livello 256? E così via. Nel migliore dei casi gli interrogati non sanno rispondere a tutte le domande, nel peggiore spariscono o cambiano numero.
Questa routine va avanti fino all’estate del 1998, quando due ragazzi canadesi che dicono di voler tentare di raggiungere il punteggio perfetto vengono raggiunti dalla solita lista di domande. Il problema è che riescono a rispondere correttamente a tutto. Billy Mitchell capisce che la sfida è partita. Non giocava a Pac-Man da dieci anni ed è costretto a farsi prestare l’arcade da un suo amico. Si allena per mesi. Fallisce un primo tentativo il 4 maggio del 1999. Ci riesce finalmente il 3 luglio. È la prima partita perfetta di Pac-Man mai giocata nella storia. Quando alza gli occhi dallo schermo è sollevato: «Adesso posso smettere di giocare a questo maledetto videogioco». Qualche settimana dopo viene invitato in Giappone, dove il creatore di Pac-Man, Toru Iwatani, e il fondatore della casa di produzione del videogioco, Masaya Nakamura, gli consegnano una targa dorata con scritto la definizione che da quel momento in poi ripeterà fino all’ossessione: “Billy Mitchell: videogiocatore del secolo”.
Durante quel viaggio, quando gli viene data la possibilità di incontrare gli sviluppatori di Pac-Man, si rende presto conto che sono loro, in realtà, a voler incontrare lui. Billy Mitchell è arrivato a una comprensione del gioco molto più profonda di quella delle stesse persone che lo hanno creato. Per esempio, gli spiega che ogni fantasmino - Blinky, Pinky, Inky e Clyde - ha una sua personalità: «Quello rosso è un perfetto cacciatore di teste. Cerca sempre di puntare sulla tua posizione. Quello blu, invece, è più complicato: i suoi movimenti sono basati sia sulla tua posizione che su quella del fantasmino rosso». I programmatori di Pac-Man rimangono a bocca aperta. Non pensavano nemmeno fosse possibile arrivare al livello 256, di cui non ne conoscevano l’esistenza.
«A volte c’è qualcuno che mi dice: “Oh, pensi di saperne di più delle persone che hanno fatto il videogioco?!”. E io gli rispondo: “Sì, me l’hanno detto loro”».
4.
Com’è facile immaginare, questo monopolio della memoria del videogioco ideato da Walter Day e messo in pratica da Billy Mitchell ha un suo lato oscuro. Cosa succede quando una persona esterna a Twin Galaxies prova ad entrarci con la pura forza di volontà? Una parziale risposta è data dal documentario King of Kong.
In King of Kong viene narrata la storia di Steve Wiebe, un anonimo ingegnere disoccupato di Redmond intenzionato con tutte le sue forze a battere i record di Billy Mitchell a Donkey Kong. Wiebe si compra l’arcade, se lo mette in garage e inizia ad allenarsi giorno e notte. Nel 2003 riesce a battere finalmente il record di Billy Mitchell di 874,300, un record che resisteva dal 1982, facendo segnare un punteggio di 947,200. Mentre compie l’impresa si registra e invia il VHS a Twin Galaxies per convalidare il record. Poco dopo diventa la prima persona a superare il milione a Donkey Kong. Steve Wiebe diventa una celebrità a Redmond, i notiziari aprono con la sua notizia e i talk-show lo invitano per intervistarlo.
Twin Galaxies, nonostante il VHS, ordina però indagini più approfondite. Ho detto Twin Galaxies ma in realtà avrei dovuto dire Billy Mitchell, che chiama uno degli arbitri dell’organizzazione che vive nei dintorni di Redmond e lo invita a fare visita a casa di Wiebe per controllare il suo arcade. Questo è il momento in cui la metafora di Twin Galaxies come ministero sovietico inizia a diventare sempre più reale. Mentre gli arbitri controllano il garage di Wiebe e il suo arcade scoprono appoggiata per terra una scatola di cartone che ha come mittente Roy Shildt. Vi ricordate Roy Shildt? Sì, Mr. Awesome. Si scopre che Wiebe non aveva abbastanza soldi per comprare una nuova scheda madre per il suo arcade, che si era rotto, e che quindi per qualche strana ragione se l’era fatta inviare da Mr. Awesome, che aveva incontrato ad un festival. Per questo semplice fatto, Twin Galaxies annulla i record di Wiebe e restituisce la corona a Billy Mitchell.
Non è finita qui. Wiebe non si dà per vinto, decide di bypassare il sistema di controllo di Twin Galaxies e va a un evento pubblico in New Hampshire per tentare il record dal vivo. Dopo qualche partita raggiunge il record di 985,600. Sembra fatta per la vittoria dell’umiltà sul talento. Twin Galaxies è costretta a proclamare Wiebe nuovo campione di Donkey Kong ma dopo poche ore allo stesso evento pubblico in New Hampshire arriva un VHS di Billy Mitchell in cui raggiunge 1,047,200. Il video sembra manomesso, a volte l’immagine taglia dei pezzi di gameplay e il punteggio sale improvvisamente ma a Twin Galaxies non importa e Billy Mitchell viene proclamato nuovamente campione.
Steve “Don Chischiotte” Wiebe continua la sua lotta contro i mulini a vento. Cerca di risolvere la questione faccia a faccia. Dopo mesi di allenamento decide di andare nella città di Billy Mitchell, Hollywood (esattamente dove immaginavo vivesse Billy Mitchell), e lo chiama per invitarlo a un torneo dove sfidarsi dal vivo. Mitchell non risponde al telefono, Wiebe ci va lo stesso per tentare di superare il suo record. Rimane lì per giorni, davanti all’arcade, per cercare di portare il suo personale masso di Sisifo in cima al monte di Donkey Kong. Ma non ci riesce. Mitchell non si presenta. Anzi no, eccolo, arriva con sua moglie, che sembra una pin-up anni ’50 invecchiata in un film di Tarantino, fa delle foto con i fan, e se ne va. Non prima di sussurrare una maledizione alle spalle di Wiebe, che solo con la sua insistenza sta facendo crollare il suo mito.
La storia finisce così. Wiebe torna a casa sconsolato ma non smette di giocare. La sua spirale ossessiva non si esaurisce finché non riesce finalmente, da solo, a battere nuovamente il record. Lo schermo segna 1,049,100. Record del mondo? Per poco: Billy Mitchell torna a batterlo per ben due volte - prima nel 2007 (1,050,200), poi nel 2010 (1,062,800).
Ma c’è un ultimo colpo di scena finale: nel 2017 un utente sul forum di Twin Galaxies si accorge che c’è qualcosa che non va nei video pubblicati da Billy Mitchell come testimonianza del suo ultimo record. Apre un thread, esplode una feroce discussione, vengono addirittura convocati dei periti. Quest’ultimi raggiungono la conclusione che per raggiungere il suo ultimo record Billy Mitchell non ha utilizzato un vero arcade ma un emulatore per PC (il MAME, Multiple Arcade Machine Emulator). Sulla base di queste conclusioni, nell’aprile del 2018 Twin Galaxies lo squalifica a vita, cancellando tutti i suoi record, anche in altri videogiochi (compresa quindi la partita perfetta a Pac-Man), e impedendogli di registrare nuovi record in futuro. Billy Mitchell si è sempre dichiarato innocente.
5.
La storia di Billy Mitchell ha diversi piani di lettura. Il primo, più immediato e superficiale, è quello che lo vede come un impostore - il cattivo che ha sfruttato un sistema compiacente per scrivere il suo nome nei libri di storia del videogioco con dei trucchetti, barando. È il modo, decisamente forzato, in cui legge la sua storia anche King of Kong: Steve Wiebe è il buono che prova con il sudore della fronte a raggiungere la vetta e che si scontra con un’organizzazione che vuole mantenere sul trono il suo campione. La persona per bene che per un periodo della sua vita viene trascinato nell’ossessione che ha svuotato Billy Mitchell, rendendolo un fumetto senza più una consistenza umana.
Nella prima scena del documentario, per dire, Billy Mitchell viene presentato davanti alla cucina del suo ristorante mentre dice: «Ai videogiochi di solito si gioca a casa, mentre ci si rilassa, sul divano, tra amici. Ma il gaming competitivo, se vuoi collegare il tuo nome a un record del mondo… Insomma, se vuoi il tuo nome scritto nella storia allora devi pagarne il prezzo». Sotto questa luce la storia di King of Kong si può vedere quasi come quella di The Prestige: Wiebe come Alfred Borden, l’illusionista più talentuoso pronto a sacrificare tutta la sua vita alla sua arte ma senza senso per lo spettacolo e quindi con meno successo; Mitchell come Robert Angier, l’illusionista che ha capito l’importanza del palco ma senza talento e che per i suoi spettacoli usa uno spaventoso trucchetto che finisce per distruggerlo.
Questa narrazione non è del tutto lontana della realtà ma rischia di far passare un messaggio fuorviante, e cioè che Billy Mitchell sia un videogiocatore senza talento. E questo non solo è stato smentito da tutte le persone che lo hanno visto giocare, che quasi unanimemente lo descrivono come il Michael Jordan degli arcade, ma fa anche passare in secondo piano un aspetto interessante della sua storia. E cioè: cosa diavolo significa talento nel mondo degli arcade e dei videogiochi più in generale?
Come avrete notato quasi tutti i personaggi legati a Twin Galaxies sono in qualche modo affascinati dalla memoria. La maggior parte collezionano oggetti, li catalogano, ne tengono traccia per cercare di salvarli dall’oblio portato avanti inesorabilmente dal tempo. In questo senso, mi sembra significativo che Billy Mitchell abbia una memoria prodigiosa - ricorda praticamente tutto alla perfezione, anche dettagli insignificanti. Una volta, dopo una lunga giornata di lavoro, una testimone di Geova andò a bussare alla sua porta e lui, invece di inventarsi una scusa per mandarla via come fanno tutti, le ha iniziato a ripetere tutti i libri del Nuovo Testamento finché non se n’è andata (io che ho una memoria pessima e sono ignorante in materia religiosa sono andato a controllare sulla nostra memoria collettiva condivisa chiamata internet: sono 27 in tutto). La memoria di Billy Mitchell è una di quelle cose a metà tra la benedizione e la maledizione, e lo ha portato ad avere una specie di disturbo della percezione. «Vedo cose che altre persone non vedono, sento cose che altri non sentono. Di solito può essere utile, ma non sempre è divertente. Se una porta scricchiola e ha bisogno di essere oliata, se la fede di qualcuno è troppo stretta, se manca un cartello in fondo la strada… non ho davvero bisogno di questo tipo di cose».
È soprattutto la memoria ad aver plasmato il gioco di Billy Mitchell, che riesce a tenere a mente dei pattern di movimenti e click attraverso cui controlla il caos crescente degli arcade a cui gioca. È quello che lui chiama “controllo assoluto”: «Ho eliminato l’inseguimento dispersivo e pazzo. Questo è probabilmente come pensavano che si sarebbe giocato [Pac-Man], andare all’impazzata fuori controllo. Ma non è questo il modo in cui io gioco». Mitchell, però, dice di essere perfettamente a suo agio anche “improvvisando”. Lo ha fatto per i primi 20 livelli di Pac-Man nel giorno in cui per la prima volta è riuscito a fare la partita perfetta, ad esempio. «Non ho usato i pattern perché sapevo che le persone avrebbero detto: “Se mi fai vedere il pattern lo posso fare pure io”. Ma questo non è vero: non sapresti farlo nemmeno se te lo mostrassi». Per Mitchell il talento è davvero qualcosa di unico e non replicabile: «Le persone mi chiedono qual è la cosa che rende grande un videogiocatore e la verità è che o ce l’hai o non ce l’hai».
Uno degli aspetti più affascinanti e inquietanti allo stesso tempo della memoria prodigiosa di Billy Mitchell è però come è stata utilizzata scientificamente nella costruzione del suo personaggio. Come ha notato anche Josh Armon durante la ricerca per la stesura del suo monumentale articolo, Billy Mitchell nelle interviste riutilizza spesso le stesse identiche risposte a distanza di anni, a volte parola per parola. E Billy Mitchell è anche quel tipo di persona che da circa 30 anni si veste sempre allo stesso modo: giacca o giubbotto, camicia colorata, cravatta con la bandiera degli Stati Uniti. Stop. Le uniche foto con outfit diversi risalgono ai primissimi tempi con Twin Galaxies, quando aveva 20 anni.
Billy Mitchell, insomma, è un uomo che ha annullato qualsiasi distanza tra sé e la propria rappresentazione metaforica. Vederlo ripetere le stesse iconiche frasi a distanza di anni, con gli stessi identici vestiti addosso è straniante, fa pensare al famoso monologo di Kill Bill su Superman: «Batman è di fatto Bruce Wayne, Spiderman è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker. Deve mettersi un costume per diventare Spiderman. Ed è questa caratteristica che rende Superman unico nel suo genere. Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter ego è Clark Kent».
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Batman is a fan of Billy Mitchell. Straight from the source... #billymitchell #allstarcomiccon
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Nel mondo dei videogiochi il travestimento, materiale o simbolico, è un aspetto particolarmente importante perché tutto passa attraverso due piani: il reale e il virtuale. Se siete andati a una qualsiasi fiera di videogiochi avrete sicuramente visto dei cosplayer, cioè delle persone che si travestono da personaggi dei videogiochi o dei fumetti, e i nickname, di fatto dei secondi nomi, sono quasi obbligatori per gamer e streamer. Walter Day si traveste da arbitro, Roy Shildt si fa chiamare Mr. Awesome… Billy Mitchell non ha nickname se non Billy Mitchell, non ha travestimento se non quelle ridicole cravatte kitsch che si mette tutti i giorni. Billy Mitchell è Superman, ma senza Clark Kent. Come ha scritto Josh Armon: Billy Mitchell è l’avatar di se stesso.
Billy Mitchell, però, non è solo un fenomeno da baraccone, un baro e una persona kitsch, ma anche e soprattutto un pioniere. Quando alla fine di King of Kong, documentario del 2007, viene riportata la sua intervista in cui dice che «i videogiochi sono pensati per essere giocati in un contesto competitivo, sotto pressione, in maniera organizzata» per sottolineare la sua incoerenza nella disputa con Wiebe, lo sta facendo in un mondo in cui il circuito competitivo dei videogiochi è in una fase ancora meno che embrionale. Oggi ci stiamo gradualmente abituando a vedere gamer pagati per competere, inseriti in squadre di professionisti, allenati giorno per giorno. Nel 2007 persino internet per come lo concepiamo oggi era agli albori.
Ma è la sua stessa storia negli ultimi 40 anni ad essere testimonianza di qualcosa che stiamo vivendo compiutamente solo in queste ultime settimane. In questi giorni internet pullula di analisi su come questa pandemia cambierà il mondo, su come lo ritroveremo una volta che potremo di nuovo uscire liberamente di casa - sempre che la libertà avrà lo stesso significato che eravamo abituati a darle prima. E tutte sembrano concordare su una cosa: i processi che pensavamo si sarebbero compiuti in cinque, dieci anni o anche di più si stanno realizzando all’improvviso in queste settimane e ora è diventato impossibile fare finta di niente. Per il mondo dello sport questo significa principalmente una cosa: il 2020 con ogni probabilità verrà ricordato come l’anno in cui gli esports sono definitivamente diventati “qualcosa”.
Improvvisamente ci siamo ritrovati immersi in una realtà in cui uscire di casa non è più possibile e in cui avere una vita digitale non è più un accessorio della nostra quotidianità ma qualcosa di necessario per lavorare, informarsi, fare la spesa, parlare con gli amici, mantenere una relazione con i propri genitori. Ovviamente sono cose che alcuni di noi facevamo anche prima, adesso però anche ai più recalcitranti sembra ogni giorno più normale seguire una conferenza stampa su Facebook, fare un aperitivo su Zoom o fare la spesa su Amazon.
Questo sta avvenendo anche e soprattutto per il mondo dei videogiochi. La quantità di ore di gioco e di streaming sta letteralmente esplodendo, molto di più anche rispetto ai servizi streaming di serie TV e film, mentre le società di betting su esports stanno vedendo i propri affari moltiplicarsi e ci si inizia ad interrogare se non sia più conveniente investire sulla Overwatch League rispetto alla NBA. Quella dei videogiochi è un’industria già oggi più grande di quella del cinema e della musica, molto più grande, e forse era inevitabile che prima o poi allungasse la propria ombra anche su quella degli sport - se guardiamo lo sport dal punto di vista degli spettatori, cioè come forma di intrattenimento.
Prima che un trend statistico, però, questo è in primo luogo un cambiamento culturale. Sempre più persone, di età e background diversi, stanno giocando o guardando qualcuno giocare a un videogioco - e ogni giorno di quarantena che passa guardare qualcuno giocare in streaming o appassionarsi a un esport diventa meno alieno, meno straniante. Più normale.
In questi due mesi scarsi di quarantena anche io ho iniziato ad usare abitualmente il mio impolverato profilo Twitch e soprattutto ho fatto di Fortnite la mia attività di svago principale. Se penso a queste settimane indistinguibili, che nella memoria diventano un unico grande giorno, le uniche cose che riescono a scandirle sono le serate a guardare i Soprano, le ore passate davanti al computer a lavorare e le interminabili partite a Fortnite insieme al mio coinquilino. Intendo interminabili in senso letterale perché Fortnite, come tutti i giochi free-to-play più di successo del momento, per sua natura non si può finire. È qualcosa di diverso dai videogiochi tradizionali, quelli con una storia con un inizio e una fine. Una partita tira l’altra, all’infinito. Questo è il segreto del suo successo commerciale: una serie TV finisce, un film finisce, Fortnite no.
Non è l’unico, ovviamente. Un altro è che è molto facile da imparare e molto difficile da dominare. Si ha sempre l’impressione di non essere forti abbastanza, ed effettivamente è così, almeno nel mio caso e in quello del mio coinquilino. Ogni volta che perdiamo abbiamo sempre una buona scusa per ricominciare: siamo stati sfortunati, avevano armi migliori delle nostre, ci hanno preso alle spalle proprio nel momento sbagliato… E se torno con la mente a queste settimane di scuse e partite penso che non siano molto diverse da quello che Billy Mitchell ha fatto ininterrottamente negli ultimi 40 anni. Iniziare una nuova partita, cercare di superare il record precedente, sentire di aver familiarizzato con il gioco un pochino di più, morire, non sentirsi abbastanza forti, ricominciare.
Ancora e ancora e ancora.