Pubblichiamo un estratto dal romanzo di Giorgia Bernardini "Area piccola" pubblicato da Marsilio.
La mattina presto via Parma è solo una linea scura che termina dietro la curva dei palazzi.
Il tonfo del suo peso che ricade sul parquet riempie ogni spazio della palestra. Fuori da lì non accade niente: è dentro il campo che succede tutto. Chris estrae dal cesto il pallone su cui è scritto il suo nome, lo rigira fra le dita, se lo passa da una mano all’altra con piccole frustate del polso, si esercita in passaggi brevi e serrati.
Sotto il getto zenitale dei fari, le linee bianche che disegnano il campo di La Spezia sembrano i confini immacolati di un recinto sacro. La rete del canestro è immobile, aspetta solo che entri un tiro perfetto: niente anello, niente rete. La palla l’attraversa senza interferire con nulla, se non con un numero sul tabellone luminoso. Chris fa un palleggio – la risposta della palla è esattamente quella che lei conosce a memoria –, si avvicina a canestro e appoggia sul tabellone, prima da destra e poi da sinistra. Due su due. Nessun giorno della sua vita di giocatrice deve aver inizio senza due canestri consecutivi.
Le bastano pochi minuti per completare le cinque serie di otto su dieci ai tiri liberi. Nadia arriva, la saluta con un cenno del capo e inizia a correre intorno al campo. Indossa una tuta da allenamento risalente ai tempi in cui giocava a Vicenza. Il numero nove segnato sul cuore ormai ha i bordi sfrangiati. Fa sei giri e ogni volta che passa sotto canestro prende la palla che cade precisa dentro l’anello e la restituisce a Chris per il tiro successivo. Poi rallenta e fa un giro al passo ruotando le braccia avanti e indietro. Si toglie la felpa e la lancia per terra, allunga le braccia e va sotto canestro.
«Partiamo dal prolungamento del tiro libero» le dice. Chris annuisce, ubbidisce. È stata educata così. «Nel primo tempo di sabato hai tirato da due col trenta per cento». «Trentatré per cento» precisa Chris. «Questo non cambia il fatto che è una percentuale indecente».
Chris lavora in silenzio, esegue ogni movimento tenendo gli occhi fissi sull’anello arancione, come le ha insegnato Nadia sin dal primo giorno. Riceve i passaggi precisi della sua allenatrice di sempre, palleggia, arresta e tira in sospensione. Tiro, rimbalzo, ancora un altro tiro. La palla entra, solo retina: il rumore è un soffio che soffoca la fiamma di una candela. Minuto dopo minuto la sua mano diventa sempre più precisa, più calda. Sul viso di Nadia compare un sorriso mentre conta ad alta voce: uno su uno, due su due. Sei su sei.
Chris infila un canestro dopo l’altro. Assapora la perfezione che si fa tiro, la sente dalla meccanica del movimento, nelle gambe, nelle braccia, nel polso che frusta la palla. «Brava ragazza» dice Nadia. «Pausa». Chris beve un sorso dal collo della bottiglia. Si toglie la scarpa destra, sfila il calzino: le scarpe nuove non le hanno provocato nessuna vescica. «Hai visto che l’auto di Silvio è parcheggiata qui fuori?» chiede Nadia. Chris resta in silenzio, si impone di non dire niente. «È strano» insiste Nadia. «Non ti pare?».
«Sabato ci giochiamo tutta la stagione.» Chris si sforza di guardarla negli occhi, poi però sposta di lato i suoi. «Non mi sorprenderebbe aprire la porta del suo ufficio e trovarlo a dormire lì dentro».
«Sarà». Nadia scuote la testa. «Dubito che il suo ufficio sia il posto in cui resta a dormire». «Magari ha dormito in auto» dice Chris sorridendo. «Perché non sei andata a controllare?» Nadia va a sedersi accanto a lei, sulla panchina. «Sei una giocatrice professionista, e questo è un momento molto delicato». «Cosa stai cercando di dirmi?» «Che hai delle responsabilità precise nei confronti della squadra. La tua squadra è tutto quello che hai, e di fronte a nove ragazze una persona sola è una scommessa che si può solo perdere».
“Squadra” è una parola insidiosa. È una parola che ha insito in sé un equilibrio precario che trema ogni domenica. A ogni suo canestro che le avvicina a una vittoria si staglia un distacco tra lei e le altre che certe volte la fa sentire in colpa. Chris riflette spesso su come portare avanti tutte le ragazze insieme a lei, e quando non ha una risposta, la squadra le sembra la corda di una schermitrice, un filo attaccato a lei che si srotola ma che a un certo punto finisce mettendola di fronte al fatto che non può andare più in là di così. La squadra ha dei costi, e quei costi a volte sono la libera espressione di se stessa.
«Senti, Nadia», Chris solleva il piede per aria, «che ne pensi tu di queste scarpe?» Nadia le lancia l’asciugamano addosso, scuote la testa. «Rimettiamoci al lavoro» dice. «Giriamo tutte le posizioni da fuori area. Facciamo otto su dieci per cinque volte».
Fuori dall’area dei tre punti Chris aspetta il passaggio giù sulle gambe, lo riceve, si alza in sospensione. La palla sbatte sull’anello e cade lontano da Nadia che la rincorre e gliela ripassa. Chris espira profondamente e fa partire un tiro che va a colpire l’anello per la seconda volta. «Stai qui con la testa» dice Nadia. Fa tornare la palla da lei con un passaggio schiacciato a terra. Chris fa una finta di tiro, un palleggio in avanti e arresto con un passo indietro. La palla centra il ferro ancora una volta. «Non pensare mentre tiri. Nell’istante in cui lasci uscire il tiro dalle tue dita, la testa dev’essere sgombra».
La voce di Nadia arriva in differita. Prima raggiunge gli spalti, fa il giro tra i sedili e le gradinate deserte, e solo dopo torna a Chris sotto forma di eco. Lei sa come fare, sa esattamente come far partire un buon tiro. La palla adesso fende la retina, uno scroscio di pioggia che cade sull’asfalto tiepido. «Questo era perfetto. Di nuovo». Chris ripropone la stessa meccanica, ma il tiro esce. E pure quello successivo.
Nadia si infastidisce: «Non ci siamo. Si può sapere dove sei?» Non aspetta la risposta, poggia la palla per terra, ci mette il piede sopra e si guarda intorno. «Mondo» dice Nadia, aprendo le braccia in alto, sopra la testa. «Europa» continua con le braccia che si sono chiuse un poco. «Mondo, Europa» riprende. «Italia, La Spezia, via Parma, PalaSprint. Campo da basket». A mano a mano Nadia restringe lo spazio immaginario racchiuso fra le sue braccia. «Palla» dice infine riferendosi al pallone sotto il suo piede. «E canestro».
Chris la osserva immobile mentre recita la scena preferita del suo repertorio, quella che esegue quando si sente al meglio delle sue capacità di allenatrice. «Tu sei al centro di tutto questo» insiste Nadia. «Torna fra noi. Il tuo corpo sa come fare». Un’atleta si caratterizza anche per il modo in cui sa gestire i suoi punti deboli. Il suo talento si misura anche in quante ore di allenamento ci vogliono per risolvere un problema. Partenza lenta in un uno contro uno, difesa non aggressiva, percentuale bassa al tiro libero: con un certo numero di ore di totale dedizione queste mancanze si possono correggere. Per altri problemi, meno definiti, meno definibili, non resta che un atto di fede. «Chiudi gli occhi» continua Nadia. «I fondamentali sono i movimenti che il tuo corpo dev’essere in grado di compiere senza nemmeno pensarci».
Le stesse frasi da dieci anni, pensa Chris, ma ascolta ed esegue in silenzio. Rigira la palla fra le dita, ne avverte il fruscio con gli occhi chiusi. La palla esce dalla sua mano già sbagliata, e va a sbattere ancora una volta contro l’anello. «Adesso basta scherzare.» Nadia si porta i pugni chiusi sui fianchi in una posa che sarebbe pure comica, se non si stesse innervosendo per davvero. La voce è tirata: «Cinque su cinque e ce ne andiamo a fare la doccia». Chris prende il passaggio schiacciato, espira, molleggia sulle gambe, la palla entra. «Eccoti qui. Questo è il centro».
La perfezione è uno stato che si ricerca giorno dopo giorno, e non si raggiunge mai. Per ogni canestro vincente, per ogni movimento eseguito con precisione impeccabile, c’è tutto un mondo sotterraneo di paure e incertezze che la fanno tremare. Un tiro perfetto è molto più fragile dell’idea stessa di tiro perfetto, perché solo il primo si può scontrare contro l’anello arancione.