
Qualche giorno fa, con colpevole ritardo, ho visto The Substance, il body horror diretto da Coralie Fargeat che magari voi invece non avete ancora visto, quindi cercherò con tutto me stesso di non commettere l’errore di spoilerare. Il tema generale del film ruota tutto attorno l’ineluttabilità del tempo che scorre e gli sforzi che facciamo per scendere a patti (o non scenderci) con quest’evenienza contingente. Il dilemma etico sollevato da The Substance poggia su una domanda: come vi comportereste, voi, di fronte alla possibilità di iniettare nel vostro corpo un siero grazie al quale potrete ottenere una versione di voi «più giovane e perfetta».
La metafora del corpo che invecchiando si logora funziona particolarmente bene con le squadre di calcio, specie con le squadre di calcio che escono da un ciclo di vittorie gloriose come è l’Argentina di Lionel Scaloni: prima nel ranking FIFA da due anni ininterrottamente, protagonista negli ultimi quattro anni dell’inedito ciclo di trionfi iniziato al Maracanã, proseguito in Qatar e poi ancora negli States, due Copa Américas intervallate da una Coppa del Mondo, roba senza precedenti.
"La Scaloneta", come viene chiamata la Nazionale di Scaloni, invecchiando ha già perso alcuni dei suoi pezzi più importanti (Di María, che ha lasciato la Selección nel luglio scorso) e altri li perderà pian piano. È endemico, non ci si può fare molto, non basta desiderare con tutto il cuore che non accada mai. E l’elefante nella stanza, quando si affronta questo discorso, inevitabilmente è Leo Messi.
Allo stesso tempo, però, l'Argentina è in quella fase del suo ciclo di vita che arbasinianamente definiremmo "Venerati Maestri", per i quali è pero necessario l’innesto di giovani promesse affinché non ci si ritrovi nello status di "Soliti Stronzi".
L’ultima parentesi di partite valide per le qualificazioni ai Mondiali metteva l'Argentina di fronte a un doppio bivio pericolosissimo, potenzialmente decisivo, per una squadra che da una parte deve rafforzare la sua egemonia nel subcontinente, e dall’altra fare i conti con il rischio, più o meno calcolato, di defezioni che aprire gli scenari più diversi, in un range che oscilla tra piccola débacle e catastrofe generazionale.
Le avversarie, affrontate a strettissimo giro di posta, nell’arco di quattro giorni, sono state infatti due rivali da Clásico: l’Uruguay, che con l’Argentina si contende, da più di un secolo, non solo il predominio calcistico sul Rio de la Plata ma anche la primazia nell’invenzione del dulce de leche, nella maestria nell’arte dell’asado e la natalità di Gardel (e, in più, con il timore reverenziale della sfida a Marcelo Bielsa); e poi il Brasile, rivale con il quale la lotta al predominio calcistico si estende su tutto il continente, se non oltre. E se nel primo caso a sobillare la rivalità è stata sostanzialmente l’Argentina, con quel tipo di provocazioni che si fanno tra cugini, nel secondo ad essere animata da istinti di vendetta era soprattutto il Brasile, mai vittorioso nei precedenti quattro scontri diretti e sconfitto per la prima volta in casa sua nella gara di andata di questa tornata di qualificazioni.
Qualche giorno prima della gara, ospite al podcast di Romario, Raphinha ha detto che il Brasile avrebbe dato all’Albiceleste un pisto, cioè più o meno “una ripassata”, dentro e fuori dal campo. In Argentina, per tutta risposta, era circolata la voce che Tapia avrebbe esposto la Coppa del Mondo all’ingresso del prato del Monumental.
A rendere ancora più ostico il doppio appuntamento, per Scaloni, è stata la necessità di trovare rapidamente una risposta a una domanda sulla quale si sta prendendo più tempo possibile, ma che è comunque inevitabile: come sarà, l’Argentina, dopo Messi? Per capirlo, ad oggi, Scaloni si è accontentato di arrovellarsi – sicuramente più sollevato – sul quesito: come deve essere l’Argentina OGGI senza Messi?
Certo, magari non si aspettava di dover scartare le due prime soluzioni più intuitive, quelle che prevedono Lautaro Martínez – infortunatosi all’inizio del ritiro – o Paulo Dybala – che per sua sfortuna sull’aereo per Ezeiza non è neppure riuscito a salire. Si è trovato, insomma, tra le mani la siringa con il siero: ma esiste davvero una versione più giovane e perfetta? Il futuro deve spaventare, o rassicurare? In fondo non è la più meravigliosa delle occupazioni argentine immaginare una trasmigrazione di sostanza, che da quelle parti chiamano talento, da un prodigio all’altro, più giovane e perfetto?
Nessun calciatore si può definire a partire da una giocata, ma una giocata – specie se fondamentale – dà un’ottima visione d’insieme dell’apporto che quel giocatore può conferire alla causa. In questo caso, le giocate fondamentali sono due, una per partita. Il calciatore uno soltanto, ma forse neppure, diciamo una coppia.
La prima giocata è questa qua sopra, e i protagonisti sono Thiago Almada e Julián Álvarez. Fino a questo momento la partita con l’Uruguay è stata una partita piuttosto ruvida, bloccata, in cui non si può dire che l’Argentina abbia mai dominato, ma neppure sia mai stata in balia degli avversari. L’Argentina è scesa in campo nella sua conformazione ormai cristallizzata, in cui otto undicesimi erano gli stessi campioni del mondo a Lusail, che poi erano più o meno gli stessi campioni d’America a Miami, in cui i due assenti (Di Maria e Messi) sono stati sostituiti – e la masterclass di Scaloni è stata proprio qua – da un esordiente assoluto, Giuliano Simeone, e, appunto, da Thiago Almada.
È il 68’ minuto, un quarto d’ora prima al termine di una bella transizione offensiva simile a quella del gol di Di Maria contro la Francia, con la palla che ha attraversato con una rete di passaggi tutto il campo orizzontalmente, Thiago Almada – servito da Julián – ha già scaldato le mani di Rochet con un destro a giro.
In questo caso è Thiago Almada che affonda sulla sinistra trascinandosi via un avversario, mentre Álvarez riceve palla centralmente. Punta l’area, defilandosi sulla sinistra, verso quella zona di campo che Thiago Almada sta già abbandonando per portarsi verso il vertice alto dell’area di rigore. Dal momento che Álvarez attira verso di sé due difensori, Thiago è ora libero di ricevere il passaggio di ritorno, e poi ok, il tiro a giro di destro che inscena è un prodigio balistico, ma il vero vantaggio competitivo, qua, è stato generato dalla fluidità del loro interscambio.
L’impressione che i due argentini restituiscono, quando scendono in campo insieme, è che si conoscano a fondo, o che almeno esista, tra loro, una forte corrispondenza d’amorosi sensi. A conti fatti non hanno poi condiviso il campo tantissime volte, la loro bromance calcistica è effettivamente nata nella frequentazione con l’Under 20 ed è sbocciata a Parigi, nell’estate scorsa, durante una campagna olimpica neppure troppo scintillante. Eppure la maniera in cui si associano - fluida, innata, predestinata - è stato il piede di porco con il quale l’Argentina ha scardinato le resistenze dell’Uruguay.
La seconda giocata, invece, è quest’altra:
Siamo al quarto minuto di Argentina – Brasile, la Seleçao, fino a quel momento, il pallone l’ha davvero visto poco. De Paul, dal cerchio di centrocampo, sventaglia un pallone largo sulla fascia sinistra, dove un altissimo Nico Tagliafico la tocca di testa per Thiago Almada – che da qualche settimana è suo compagno di squadra al Lione. Almada protegge il pallone appoggiando il bacino sul suo marcatore, che usa per fare da perno, lo lascia sfilare ed effettua una breve pausa prima di infilarlo – come Federica Brignone tra i paletti – tra due marcatori: è una linea di passaggio illuminante, precisa, sui piedi di Julián Álvarez che si sta incuneando nell’area brasiliana, e che, dopo un rimpallo fortunato – la stessa caparbietà di una certa semifinale – la piazza alle spalle di Bento.
Julián Álvarez e Thiago Almada, Thiago Almada e Julián Álvarez: alla fine i protagonisti di questi due scontri campali sono stati loro, la loro duttile combinabilità, quella capacità di non cercare il gol, ma di avere il gol che cerca loro (una definizione che dà Guillermo Furlan per Almada in un documentario girato su di lui ai tempi dell’Atlanta United, ma che è valida per entrambi). Due calciatori con un legame cementificato dalla vittoria in Coppa del Mondo, certo, ma soprattutto uniti dal destino di essere un po’ gli outsider, quelli che spuntano quando meno te li aspetti: Julián Álvarez, che in Qatar si è trovato catapultato al centro dell’attacco al posto di Lautaro, e Thiago che ci si è ritrovato dopo l’infortunio di Joaquín Correa; e ancora Thiago Almada, chiamato a sostituire Messi, che segna contro l’Uruguay il gol 2000 nella storia dell’Argentina, e che in fondo i crismi del predestinato li aveva già dimostrati quando, nella prima partita giocata in casa dalla Selección dopo la vittoria mondiale, aveva segnato la prima rete di una nuova era.
Nato trequartista funambolico come tutti i giocatori nati su un potrero – per di più, lui, a Fuerte Apache, come Tévez –, lanciato da Heinze al Vélez appena diciassettenne, la percezione di Thiago Almada come sostituto perfetto per Messi è una scelta che denota tutto il carisma, e la genialità, dell’interpretazione scaloniana. Baller ma anche disciplinato tatticamente, capace di dare il suo apporto non solo sulla trequarti ma anche e soprattutto lungo tutta la fascia, Almada ha inanellato una serie di scelte di carriera finora inappuntabili.
Ha lasciato il Vélez per gli Stati Uniti, per la MLS, che ha interpretato più come trampolino che come buen retiro anticipato. Ad Atlanta sarebbe potuto sbocciare definitivamente, o avrebbe potuto prendere un aereo per catapultarsi in Europa dopo la vittoria del Mondiale, e invece ha scelto un intermezzo in prestito al Botafogo, dove ha comunque vinto da protagonista una Copa Libertadores, prima di trasferirsi al Lione (proprietà di John Textor, come in effetti il Botafogo) nello scorso mercato di gennaio. Scaloni lo ha sempre tenuto in considerazione ma ai margini della squadra, considerandolo patrimonio dell’Under 23 di Mascherano, una specie di rituale formativo al termine del quale, oggi, Thiago appare come un’alternativa a Messi coerente, seppur contingente.
In quanto a Julián Álvarez, che sia una certezza per Scaloni è vero a prescindere dalla stagione tra luci e ombre che sta attraversando con Simeone, all’Atlético di Madrid. Nonostante il ripetersi tragicomico dei corsi e ricorsi storici dei colchoneros ha messo da parte undici gol in Liga, e comunque con l’Argentina dimostra una sicurezza nei propri mezzi che lo porta a compiere gesti tecnici sfavillanti (qua stava quasi per segnare con un pallonetto da fuori area) o a caricarsi sulle spalle la responsabilità di illuminare, reggere, custodire l’intero reparto offensivo. Un giorno, poi, magari, parleremo degli effetti del “cholismo” sui calciatori argentini, dacché nella doppia sfida di queste qualificazioni ne sono scesi in campo cinque (Molina, Correa, Álvarez, De Paul e Giuliano, autore della sua prima rete in Albiceleste con un tiro da un angolo praticamente impossibile) tutti portatori sani di un’emotività contundente, sì, ma positiva, ottimistica.
L’emotività è sempre stata il vulnus dell’Argentina: troppa, oppure troppo poca, ha fatto scadere le prestazioni dell’Albiceleste nella riottosità più fine a se stessa o in un pechofriismo annichilente. Quello sfoggiato nella doppia sfida con Uruguay e Brasile, ma più al Monumental, è invece l’esatto mood di chi ha tra le mani un giocattolo perfettamente funzionante – così perfetto da scadere nella presunzione che porta all’errore di Romero, che è poi l’unica maniera in cui il Brasile è riuscito a rendersi pericoloso – di chi può permettersi di schernire l’avversario mettendosi a palleggiare in area come ha fatto il Dibu Martínez o ha, finalmente, i dati numerici dalla sua per dimostrare la superiorità.
L’Argentina non vinceva in casa contro il Brasile da venti anni: sembra una pazzia, ma l’ultima volta a brillare era stato Riquelme. Negli stessi giorni, in Olanda, Lionel Messi giocava una Coppa del Mondo Under 20 che avrebbe decretato la sua esplosione.
L’altro ieri è tornata a farlo con una personalità esuberante ai limiti del bullismo – per dire, al termine della partita i calciatori e i tifosi hanno passato almeno dieci minuti a cantare: “un minuto de silencio… para Raphinha que está muerto”. Un po’ sfacciata e passivo-aggressiva, ma anche con una squadra collaudata, e con risposte bold a quesiti bold. In soldoni, piena della sostanza quintessenziale de “La Scaloneta”, e con in più una soluzione – una delle tante soluzioni – all’assenza di Messi che non ha intaccato la resilienza dell’organismo, notizia che a poco più di cinquecento giorni dal Mondiale 2026 – al quale l’Argentina è ufficialmente classificata – suona rassicurante alle orecchie di Scaloni.
Magari non è ancora scoccato il tempo di una versione più giovane e migliore. Ma forse Scaloni qualche fiala di The Substance in frigo ce l’ha già.