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L'Argentina di Scaloni è già a fine ciclo
24 giu 2019
L'Albiceleste si è qualificata ai quarti tra enormi sofferenze.
(articolo)
7 min
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Domenica 17 giugno 2019 un blackout che passerà alla storia ha lasciato al buio 50 milioni di argentini (e qualche milione di uruguayani, paraguayani e cileni). Le piogge incessanti hanno provocato la caduta di una delle linee di distribuzione elettrica ad alta tensione che si diramano in tutto il Paese partendo dalle dighe di Yacyretà e Salto Grande, ed è stato il buio totale. E proprio mentre il sistema elettrico veniva rimesso in piedi, a Salvador de Bahia una minuscola enclave di cortocircuito, contro ogni legge della fisica, continuava a resistere nelle menti e nei piedi dell’Albiceleste che faceva il suo esordio in Copa América contro la Colombia, perdendo 2-0. Buio totale.

Il fatto che siano quarant’anni che l’Argentina non iniziava in maniera così funesta una Copa América non suona per nulla consolatorio: la qualificazione ai quarti di finale alla fine è giunta, grazie a una vittoria contro il Qatar, ma in maniera agonica e camminando in bilico sulla fune dello psicodramma come recentemente capita (troppo) spesso alla Selección, esattamente come nel Mondiale russo di un anno fa, quando il passaggio del turno arrivò sempre all’ultima partita.

Questo come simbolo del fatto che l’avvicendamento tra Sampaoli e Scaloni non ha portato alla rivoluzione che molti auspicavano e, anzi, a distanza di dodici mesi la stagnazione dell’Albiceleste sembra giunta di nuovo a uno stadio terminale, un impallidimento (metaforicamente cristallizzato nelle nuove maglie) che solo un’eliminazione alla vigilia del compleanno di Leo Messi (contro il Qatar) avrebbe reso narrativamente irreversibile.

Foto di Pedro Vilela / Getty Images.

Scaloni contro tutti

I problemi dell’Albiceleste, è fatto noto, sono molti e complessi e per niente recenti: partono dalla confusione generale a livello istituzionale che regna in Federazione (dove l’avvento del Chiqui Tapia come presidente è stato tutto all’infuori che normalizzatore) e riversano gli effetti, come in una gigantesca e drammatica macchina di Rube Goldberg, in primis sulla direzione tecnica, e poi sui calciatori. Lionel Scaloni ne è un po’ l’emblema, e chissà quanto ingenerosamente il capro espiatorio.

È stato coraggioso, questo almeno gli va riconosciuto, perché ha bevuto il calice amaro dal quale nessuno - Pochettino, Simeone o Gallardo - ha voluto abbeverarsi, accettando di farsi carico di un processo di ricostruzione radicale-per-quanto-a-tempo, ma forse ingenuamente sopravvalutandosi.

La sconfitta con la Colombia, la sua prima gara ufficiale da allenatore, e lo scontro con Queiroz, che con alcune abili e sottili mosse (in primis piazzare Wilmar Barrios in marcatura personalizzata su Leo Messi) lo ha messo in scacco matto, ne hanno decisamente ridimensionato le velleità. Da quel momento Scaloni ha cominciato a manifestare i primi sintomi di sampaolite: la sua risposta è stata confusa, in conferenza stampa ha elogiato i suoi giocatori eppure, per la seconda partita con il Paraguay, ha sconfessato alcune delle convinzioni di partenza, bocciando Di María (ormai pallido ricordo di sé stesso) e il Kun Agüero.

Il fatto che la formazione schierata contro l’Albirroja sia stata la dodicesima diversa in altrettante gare dirette ha avvalorato la percezione che l’Albiceleste, in campo, non fosse che un’accolita di perfetti sconosciuti, slegata, caratterizzata da una patologica mancanza di idee, spirito collaborativo, forza d’animo.

Anche se sembra impossibile, il tiro passerà esattamente attraverso la barriera, e terminerà la sua corsa sul palo.

L’immagine qui sopra, della barriera che si spalanca di fronte al calcio di punizione di Bassam, è fortemente significativa dell’incertezza difensiva che regna nell’Albiceleste. Otamendi e Pezzella (o Foyth con il Qatar) sono apparsi troppo spesso fuori posizione, spaesati di fronte ai filtranti in profondità degli avversari; i laterali non difendono quanto dovrebbero, Saravia è stato bocciato dopo l’esordio in favore di Milton Casco e poi rispolverato per l’ultima gara, e i centrali - davvero - sono troppo distratti.

Il gol di Richard Sánchez per il momentaneo vantaggio del Paraguay, ispirato da una cavalcata solitaria di Miguel Almirón che mette in luce tutta l’inadeguatezza difensiva argentina, aveva già fatto lo stesso rumore che fanno le crepe quando si aprono sul lato di un palazzo, anticipandone l’implosione. Ma Scaloni sembra non essersene accorto, o forse avergli dato poco peso.

Le difficoltà in fase difensiva non vengono peraltro per nulla assorbite da una brillantezza in costruzione che i piedi di Lo Celso o Paredes lasciavano presagire. Il centrocampista del Betis è probabilmente la sorpresa negativa di questa Copa América, l’epitome di una deficienza cerebrale endemica che rende ogni manovra argentina lenta, noiosa e in potenza prona all’errore. L’unico ad aver salva la faccia nell’arco delle prime partite, è paradossalmente stato Rodrigo De Paul (non a caso Messi lo ha elogiato per essere uno dei compagni più caradura, più “tosto”). Voglio dire: Rodrigo De Paul, che contro il Qatar ha addirittura giocato mezzala destra.

L’attacco è il problema dell’Argentina?

Da quando Tapia è diventato presidente dell’AFA, l’Argentina ha giocato 11 partite ufficiali vincendone soltanto tre: con l’Ecuador nell’ultima gara di qualificazione al Mondiale, con la Nigeria nell’ultima gara della fase a gironi del Mondiale e con il Qatar, segnando la miseria di 13 gol nonostante l’Albiceleste possa contare, in potenza, su uno degli attacchi meglio assortiti sicuramente del Sudamerica, se non del mondo.

La decisione di non convocare Icardi, e di portare invece in Brasile Lautaro Martínez, lasciava presagire che Scaloni puntasse molto sul “Toro”. Dopo avergli preferito, nella gara d’esordio, Di María, il “Gringo” ha finalmente schierato Lautaro con il Paraguay: in effetti la coppia formata con il Kun (in Versione Albiceleste full effect, cioè copia sbiadita dell’attaccante che divora a morsi l’area avversaria in Premier) sembrava giovare alle manovre offensive argentine, garantendo una profondità maggiore e una libertà d’azione a Messi. La naturale conseguenza, perfettamente coerente con la tendenza alla complicazione di Scaloni, è ovviamente stata la sostituzione di Lautaro con Di Maria, una mossa tanto improvvida da spingere il DT a sconfessarsi ancora una volta e riproporre Lautaro con il Qatar. Il gol del vantaggio sarà suo.

Ma mettereste la mano sul fuoco per vederlo ancora tra i titolari? / Foto di Alessandra Cabral.

Senza contare il fatto che, finora, Scaloni ha utilizzato Paulo Dybala per un misero quarto d’ora, relegandolo peraltro a un ruolo da secondo rifinitore che lo ha già messo nelle condizioni di inimicarsi Leo Messi.

Le problematiche dell’Albiceleste, insomma, sono tattiche, oltre che mentali ed emotive. L’improvvisazione, il pensiero banale e reattivo è stata la sentenza di condanna per Sampaoli: possibile che Scaloni non sappia avvertire il panico che sopraggiunge e provare a gestirlo?

In Argentina parlano già della sua parabola come della peggiore per un DT dai tempi di Diego Maradona, al quale è accomunato dall’essere «tatticamente inetto e apparentemente incapace di tenere il polso della situazione». Un DT che rischiamo di ricordare solo per essere stato il primo ammonito dall’introduzione delle nuove regole IFAB.

Record tutt’altro che invidiabili.

In questo panorama desolato, a Messi spetta come sempre l’ingrato compito di sobbarcarsi con spirito cristico il totale fardello della depressiva esperienza estetica di una partita dell’Albiceleste. Di farsi illusione irreale, unica scintilla capace di accendere la fiamma della speranza per il semplice fatto di esistere, di esserci, di convincere che basti la sua presenza per vincere una partita.

«È frustrante non riuscire a vincere», ha detto dopo le prime due partite. Dall’esterno appare tranquillo, anche se in mezzo al campo soffre, sbuffa, ripete l’intero campionario di gestualità che caratterizza la sua vita con la maglia Albiceleste: le mani sul volto, la testa bassa mentre rientra, gli sguardi verso il cielo.

L’errore al 72’ della sfida con il Qatar - il pallone che gli rimbalza beffardo davanti al sinistro pochi istanti prima del tentativo che finisce così per risultare assurdo e vergognoso - sintetizza perfettamente, in un’immagine, il presente tormentato, e anche un po’ sfortunato, del numero dieci della Selección.

Chissà, adesso, se basterà battere il Venezuela e proseguire con spirito rinnovato la corsa in Copa América a far sì che non resti per sempre questo, proprio nell’estate in cui Cristiano Ronaldo ha sollevato la Nations Cup (per quel che vale), l’ultimo triste e stinto ricordo di Leo Messi in Albiceleste.

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