
Provate a immaginarvi se lo scorso marzo Frosinone, Sassuolo, Salernitana, Lecce, Empoli e Verona si fossero presentate in assemblea di Lega per chiedere se per un anno si potesse far finta di niente con le retrocessioni in Serie B, rimandando tutto all’anno successivo. Chissà se ci sarebbe stato un dibattito o se semplicemente ci saremmo fatti delle grasse risate, pensando di trovarci di fronte a uno scherzo.
Se non riuscite ad immaginarvelo, comunque, poco male: in Argentina, infatti, in autunno questa proposta viene periodicamente tirata fuori, e altrettanto periodicamente viene accolta, anche di buon grado. Com’è possibile? È una storia lunga.
Come funziona?
Quando pensiamo al campionato argentino, chiunque, anche chi non può definirsi un appassionato, citerà due vocaboli nei quali è impossibile non essere incappati prima o poi: Apertura e Clausura. Questi erano, storicamente, i nomi dei due tornei semestrali in cui si divideva la stagione e che venivano giocati rispettivamente da agosto a dicembre (Apertura) e da gennaio a giugno (Clausura): girone unico a venti squadre, tutti contro tutti, solo andata. Immaginate che al campione d’inverno in Serie A venga consegnato uno Scudetto e poi si riparta daccapo per assegnarne un altro alla capolista finale del girone di ritorno.
Questo sistema, rimasto in vigore dal 1990 al 2014, consentiva di gestire meglio l’aspetto climatico (gennaio e febbraio sono mesi di caldo torrido in Argentina) e la qualificazione alle coppe internazionali, visto che Libertadores e Sudamericana sono stati, fino al 2017, tornei anch’essi svolti su base semestrale e non alternativi: la stessa squadra poteva qualificarsi per entrambi, un po’ come se nella stessa stagione si potesse partecipare prima all’Europa League e poi, finita quella, alla Champions League.
Oggi, però, Apertura e Clausura non esistono più, nonostante le competizioni in Argentina continuino ad essere divise per semestri, ma con qualche modifica rispetto al passato a cui eravamo abituati.
Dal 2017, infatti, in una metà dell’anno si gioca un classico campionato tutti contro tutti a girone unico (prima Superliga, ora Liga Profesional), e nell’altra metà un torneo con format di coppa: due macro-gironi in cui le prime quattro si qualificano per i playoff con quarti, semifinali e finale in gara secca. Si tratta della fu Copa de la Superliga, ora Copa de la Liga Profesional. In che semestre si svolgano l’uno o l’altro non è dato saperlo fino alla definizione dei calendari. Perché? Difficile rispondere in maniera razionale. Forse meglio citare Harry Potter: alla federazione argentina piace cambiare.
Cosa c’entra tutto questo con le retrocessioni? Per rispondere bisogna prima capire come si retrocede, o forse sarebbe meglio dire come si retrocederebbe, in Argentina. Ogni stagione, nonostante si giochino due tornei tra di loro distinti e scollegati, vengono stilate due classifiche complessive: una è la Tabla General, che tiene conto di tutti i punti fatti nella fase a gironi della Copa de la Liga Profesional e nel campionato di Liga Profesional, l’altra è la Tabla de Promedios, in cui viene considerata la media punti fatti/partite giocate in Primera División negli ultimi 3 anni.
Quest’ultima, introdotta stabilmente nel 1983 dopo la storica retrocessione del San Lorenzo, è pensata per tutelare le squadre che hanno un rendimento più costante nella massima categoria. Non basta, quindi, avere un’annata storta per retrocedere. Per dire, il River Plate, per arrivare al disgraziato descenso del 2011, dovette inanellare un triennio a dir poco disastroso.
Nei fatti, quindi, se da una parte il Promedio è sempre stato un paracadute per le grandi squadre a cui capitava di sbagliare completamente una stagione, dall’altra le neopromosse (che non hanno stagioni antecedenti che rientrano nella media) e i club costantemente coinvolti nella lotta salvezza (e quindi con un Promedio sempre appena sopra quota critica) lo hanno sempre vissuto come una pericolosissima spada di Damocle.
Per quasi quarant’anni il Promedio è stato l’unico metodo per definire le retrocessioni, in un numero variabile da 1 a 4 - sempre perché alla federazione argentina piace cambiare. Dal 2023, però, si è optato per un deciso cambio di rotta, stabilendo che solo una squadra sarebbe scesa per Promedio, accompagnata nella retrocessione dall’ultima classificata nella Tabla General: un modo per evitare che le squadre di metà classifica saltassero a piè pari stagioni intere sapendo di essere lontane dalla zona pericolosa avendo avuto un buon andamento negli anni precedenti e mettendo in atto una sorta di tanking, per utilizzare un termine caro alla NBA.
Eccezioni
Nel mondo del calcio, tranne che negli Stati Uniti, tutti sanno che le retrocessioni così come le promozioni, sono una cosa seria, e fanno parte dei motivi per cui il calcio è uno degli sport più seguiti al mondo. Per annullarle deve succedere qualcosa di straordinario, e così è sempre stato anche in Argentina. O quasi. Gli unici precedenti, da quando il fútbol argentino ha iniziato ad essere sport professionistico (1934) furono stagioni sporadiche negli anni Sessanta, quando si era deciso di allargare il novero di squadre partecipanti alla massima categoria, e negli anni Settanta, ai tempi bui della dittatura militare. Nemmeno quand’è toccato a club storici come Estudiantes, Rosario Central, Independiente e persino River Plate si è mai pensato concretamente di andare a truccare la partita annullando d’ufficio le retrocessioni.
Poi però c’è stata la pandemia. Nel marzo 2020, dopo una sola giornata giocata, la Copa de la Superliga viene sospesa e successivamente annullata. Di conseguenza, essendo stata troncata a metà la stagione, si decide che non ci sarebbero state retrocessioni fino al 2022, in modo tale da lasciare ai club tempo e spazio per superare la pandemia e riprendere l’attività in seguito, senza tutti i problemi di gestione che una retrocessione incombente avrebbe implicato. Allo stesso tempo, però, si è deciso che, nel momento in cui si sarebbe ripreso a giocare, sarebbe ripreso anche il conteggio relativo alla Tabla General (sulla quale si basa la qualificazione alle coppe continentali), e alla Tabla de Promedios, così da avere poi dei dati aggiornati e coerenti quando si fosse tornato al normale svolgimento del campionato.
Qualche malizioso disse che era un modo per aiutare il Gimnasia La Plata, allora allenato da Diego Armando Maradona e in una situazione di classifica disperata, ma tutto sommato si trattava di una decisione equa: dopotutto, nessuno aveva mai avuto a che fare con una pandemia mondiale e la cautela era d’obbligo. Così facendo, a seguito del biennio senza descensos, siamo tornati a vedere squadre abbandonare la Primera División e finire in Primera Nacional, la Serie B argentina: nel 2022 Aldosivi e Patronato, nel 2023 Colؚón e Arsenal de Sarandí.
Qui arriva però la prima anomalia. Se le retrocessioni in quel biennio sono state sospese le promozioni invece no, portando quindi il numero di squadre militanti in Primera a crescere dalle 24 del 2020 alle attuali 28, andando a formare un marasma incredibile tra calendari ingolfati e una palude di metà classifica composta da squadre che non possono ambire alle coppe ma allo stesso tempo si tengono a debita distanza dalla zona retrocessione.
Come si esce da una situazione simile? Mentre sono molti quelli che chiedono di tagliare il numero di squadre e di cercare di avvicinare il campionato argentino a logiche e format simili all’unico grande campionato del continente, il Brasileirão, la federazione sembra essere di parere opposto e nell’assemblea di ottobre, che si terrà il 17, cioè dopodomani, potrebbe compiere una mossa inattesa e impronosticabile: annullare le retrocessioni.
Cosa c’entra Claudio “Chiqui” Tapia
Per capire come si potrebbe arrivare a questa svolta surreale dobbiamo introdurre un nuovo personaggio, e mi scuso se la faccenda si fa ogni paragrafo più complicata, ma l’Argentina è così. Si tratta di Claudio Tapia, eletto presidente della federazione argentina (AFA) nel 2017, a seguito di un triennio caotico dovuto alla scomparsa del Presidentissimo Julio Grondona nel 2014. Il suo vice Luis Segura fa da reggente fino al 3 dicembre 2015, giorno in cui si vota per eleggere il primo, nuovo, presidente della Federazione dopo i 36 anni di regno di Grondona. I candidati sono lo stesso Segura, ai tempi presidente dell’Argentinos Juniors, e Marcelo Tinelli, presidente del San Lorenzo. Votano in 75 club ma, al momento del conteggio, il risultato è di 38-38. Li ricontano, ancora 38 pari. Non si riesce a capire chi abbia votato due volte e quale voto sia da annullare. Ci sarebbe da rivotare, ma alcuni presidenti già se ne sono andati: va tutto a monte. Insomma, una gran figuraccia o, come dicono gli argentini, un papelón.
Fatto sta che l’elezione del 38-38, pur rimanendo negli annali, termina con un buco nell’acqua e la Federazione viene commissariata: si muove la FIFA, che nomina in fretta e furia una Comisión Normalizadora capeggiata dall’allora presidente del Belgrano, Armando Pérez, incaricata di traghettare l’AFA fino alle elezioni successive, fissate per il 2017.
In questa fase di vuoto di potere, emerge definitivamente la figura di Claudio Tapia. In realtà, “Chiqui” lavorava da anni al suo consolidamento politico all’interno della Federazione, scalandone progressivamente ma silenziosamente i ranghi. Presidente, dal 2001, del Barracas Central, club minore di Buenos Aires in cui aveva giocato come centravanti da giovane, ricopre, come massimo dirigente del Guapo, ruoli apicali sempre più importanti. Consigliere e poi Presidente del Comitato di Primera C (quarta divisione), poi Consigliere del Comitato di Primera B (terza serie), membro del Comitato Esecutivo dell’AFA, fino a essere nominato Responsabile dei Tornei AFA e, nella parentesi di Segura, Vicepresidente della Federazione.
Quando la candidatura forte di Marcelo Tinelli salta per aria, Tapia vede uno spiraglio per tentare il ribaltone: più di un decennio passato a bazzicare l’Ascenso (le divisioni inferiori argentine) lo hanno trasformato nel referente degli “invisibili” del fútbol argentino, quei club che si sentono snobbati dalle squadre di Primera e che ben vedrebbero un loro uomo al comando della baracca.
Tapia però è ben visto anche dalle squadre di massima divisione che, da sempre, vivono lo stesso fenomeno di emarginazione. Le squadre, cioè, del cosiddetto Interior, ovvero quelle che ricadono al di fuori della zona della Gran Buenos Aires e che nutrono verso i club della capitale un malcelato, storico, desiderio di rivalsa. Per questa ragione, Tapia nomina come suo braccio destro Pablo Toviggino, plenipotenziario calcistico nella provincia di Santiago del Estero e amichevolmente soprannominato “Padrino del fútbol del Interior”.
Per non farsi mancare nulla e non rischiare brutte sorprese, Tapia registra anche l’appoggio di qualche club di Primera División, soprattutto di chi non vede di buon occhio l’eventuale vittoria dell’altro candidato, cioè Armando Pérez, spalleggiato da River Plate e San Lorenzo. Non nuoce il fatto che la sua causa venga perorata, in massima divisione, da suo suocero Hugo Moyano, presidente dell’Independiente.
La strategia, insomma, è perfetta e il 29 marzo 2017 Claudio Tapia viene eletto Presidente dell’AFA con 40 voti a favore e 3 astenuti: quasi un plebiscito.
Dietrologie
Faccio un’ulteriore parentesi per far sì che abbiate il quadro completo. E con quadro intendo quadro politico, perché in Argentina non si fugge mai da questo tipo di discorsi.
Già dal 2018 si iniziano a vedere i primi cambiamenti sostanziali voluti da Tapia. Quell’anno infatti si avvia la costruzione, nella città di Santiago del Estero, dello Stadio Único Madre de Ciudades: un impianto futuristico da 30mila posti, fiore all’occhiello delle infrastrutture sportive argentine, che però viene eretto in una provincia che registra dati record per disoccupazione e povertà, lontana da tutto. Il prototipo della cattedrale nel deserto. Le polemiche non mancano, dopotutto sono soldi pubblici che potevano essere usati in un’altra maniera, ma la Federazione tira dritto, tanto che si cominciano a giocare al Madre de Ciudades tutte le finali nazionali, quasi fosse una sorta di Wembley d’Argentina: Copa Argentina, Trofeo de Campeones, Supercopa Argentina, tutte partite che nella quasi totalità dei casi coinvolgono squadre di Buenos Aires, i cui tifosi sono costretti a sobbarcarsi 12 ore e mille chilometri di trasferta perché la finale è dall’altra parte del Paese e non ci sono collegamenti decenti. Ci viene addirittura portata a giocare la Nazionale, più volte: pensate, la Albiceleste di Leo Messi in uno stadio con meno della metà dei posti del Monumental, in una provincia dove la maggioranza degli abitanti non può permettersi il biglietto. Un capolavoro di logistica.
Certo, ci fosse una squadra locale in Primera División, sarebbe tutto più sensato. Ma quella squadra c’è: è il Central Córdoba de Santiago del Estero, squadra con una storia ultracentenaria ma con solo due partecipazioni alla massima serie negli anni Settanta, che però nel 2018 e nel 2019 compie il doppio salto, passando dalla terza divisione alla Primera Nacional e poi all’allora Superliga. A dire il vero, non è l’unica storia di successo di una squadra della provincia. Nell’ultimo decennio, le promozioni di club santiagueños nelle varie categorie del fútbol argentino si sono moltiplicate. Independiente de Fernández, Vélez de San Ramón, Sarmiento de La Banda, Mitre (due volte), Güemes (due volte). Detto così, non sarebbe nulla di sconvolgente, stiamo pur sempre considerando un arco di 10 anni e di 4 divisioni. Non fosse che in 4 di queste squadre ha allenato (ottenendo 4 promozioni con 3 di esse) Pablo Martel, tecnico prodigioso ma anche, pensate la coincidenza, cognato di Pablo Toviggino, proprio lui, il braccio destro del presidente Tapia.
C’è un altro elefante nella stanza: il Barracas Central. Club di cui, come detto, Tapia è stato giocatore in gioventù e successivamente presidente e che, nel dicembre del 2021, viene promosso in Primera División dopo la vittoria dei playoff di Primera Nacional. Certo, a quel punto, Tapia non era più il massimo dirigente del “Guapo”. In nome della trasparenza, il ruolo è passato al figlio Matías, tuttora in carica.
Nel 2014, sul retro delle magliette del Barracas, ha fatto la sua comparsa come sponsor una famosa bevanda energetica, Speed Unlimited, i cui diritti di commercializzazione sono in mano all’avvocato Víctor Stinfale, celebre per essere stato, tra gli altri, il legale di Maradona. I dietro le quinte dicono che sia stato addirittura l’eminenza grigia Grondona, di cui Tapia si configura sempre più come erede spirituale, a favorire la sponsorizzazione da parte dell’energy drink, in un momento in cui il club aveva bisogno di un aiuto economico. Sempre più o meno nello stesso periodo Stinfale diventa, quantomeno formalmente, consulente del Deportivo Riestra, piccolo club vicino di casa del San Lorenzo (i due stadi sono lontani circa 200 metri): formalmente perché in realtà, nei fatti, ne è il gestore a 360° tanto che, fin da subito, Speed diventa main sponsor della squadra. Vuoi o non vuoi, da quel momento in poi, in un decennio il “Malevo” passa dalla Primera D (quinta divisione) alla Primera División. Una scalata inarrestabile costellata, secondo alcuni, da arbitraggi favorevoli.
Perché abolire le retrocessioni, quindi?
Ecco, saputo tutto questo, possiamo finalmente rispondere alla domanda che ci portiamo dietro dall’inizio: perché in Argentina si potrebbe decidere di abolire le retrocessioni?
La risposta brutale sarebbe: perché ogni blocco delle retrocessioni (a cui segue sempre un aumento delle squadre in massima divisione, visto che le promozioni non vengono mai annullate) rappresenta un’opportunità. L’opportunità per qualsiasi club dell’Ascenso di sognare la Primera, tanto c’è posto per tutti; ma anche l’opportunità per le squadre che rischiano di perdere la categoria di confidare che anche quest’anno ci si salverà d’ufficio; e infine l’opportunità, per il presidente Tapia, di allargare il proprio bacino elettorale, visto che ogni promozione e ogni mancato descenso sono, virtualmente, un voto in più verso la rielezione.
Anche i risvolti politici diventano rilevanti: tra le squadre che, a causa della classifica complicata, maggiormente beneficerebbero dell’ennesima quita de descensos abbiamo, oltre agli evergreen Central Córdoba e Riestra, il Tigre (squadra che ha tra i suoi referenti l’ex-ministro e candidato presidente, Sergio Massa), l’Independiente Rivadavia (il cui presidente è Daniel Vila, grande amico dell’appena menzionato Massa) e il Sarmiento (in cui ha una grande influenza la famiglia Lombardi, proprietaria del marchio Naldo, main sponsor del club e della Nazionale argentina). Solo un caso che, in occasione delle ultime elezioni presidenziali argentine, si sia parlato di un possibile incarico politico per Tapia?
È un quadro desolante, me ne rendo conto. E ciò che è peggio è che il senso di rassegnazione palpabile che sale dall’opinione pubblica argentina non dipende solo da fatto che al momento ha altro di ben più grave a cui pensare, ma anche perché l’ha già vissuto in passato.
Come detto, l’eredità di Julio Humberto Grondona, padre-padrone del fútbol argentino, è ancora pesante. Grondona ereditò la federazione nel 1979 dalle mani di Carlos Alberto Lacoste (il “Ministro dello Sport” della dittatura militare) e la tenne in pugno per tutto il resto della sua vita, cioè fino al 30 luglio 2014, data della sua morte. Ex-calciatore, nel 1956 insieme ad alcuni soci aveva fondato un club, l’Arsenal de Sarandí, in cui aveva successivamente giocato, diventandone poi presidente (incarico ricoperto in seguito anche dal fratello e attualmente da uno dei figli). Un club che ancora oggi disputa le partite casalinghe allo stadio conosciuto come El Viaducto, ma il cui nome ufficiale è Julio Humberto Grondona. Non vi ricorda qualcosa questa storia?
L’ultimo regalo di Julio Grondona a questo mondo è stato l’apertura del grande Vaso di Pandora che ancora, a 10 anni di distanza, non si sa come tappare: il torneo a 30 squadre. Con una mossa degna del soprannome che l’ex-dirigente calcistico Alexandro Burzaco gli aveva affibbiato, “El primer Papa argentino”, Grondona aveva architettato un sistema perfetto per compattare dalla sua parte la totalità delle squadre argentine. Promuovere in blocco 10 squadre della seconda divisione per andare a formare un pachidermico campionato di Primera División con 30 club, lungo un anno, che avrebbe reso praticamente impossibile la retrocessione per le grandi squadre (visto il cuscinetto di squadre che avrebbero trovato tra loro e la zona calda del Promedio), nonché ingolosito tutte quelle squadre dell’Ascenso che mai avrebbero pensato potesse diventare così facile calcare i campi della massima divisione.
Grondona ha passato la vita a promuovere questa riforma ma non l’ha mai vista realizzata. La Primera División è stata infatti a 30 partecipanti per tre campionati, tra il 2015 e il 2017, e dopo questo periodo di follia le cose non sono state più le stesse. Nonostante le infinite promesse di riportare a 20 il numero di squadre con retrocessioni draconiane, la voglia di essere rieletti e di non perdere consensi, alla lunga, hanno sempre avuto la meglio. Le squadre, arrivate a 24 come numero minimo in questo decennio, sono poi irrimediabilmente tornate a salire a colpi di “tana libera tutti”: prima 26, adesso 28.
Oggi, però, il sogno di tornare a 30 è di nuovo realtà e “Chiqui” Tapia può realizzare ciò che il suo padre spirituale non è mai riuscito a vedere. Niente retrocessioni per un anno, poi dalla stagione successiva chissà: alla federazione argentina piace cambiare.
Giovedì, come detto, sapremo di più. Oggi però sembra improbabile che le cose possano andare diversamente. D’altronde, come lo tiri giù il presidente che ha scelto Lionel Scaloni e gestito la Federazione nel suo periodo più vincente di sempre, regalando agli argentini la gioia del Mondiale atteso da una vita?