Se il contesto non fosse la Repubblica islamica dell’Iran, e le incessanti manifestazioni anti-sistema che animano decine delle sue città da ormai tre mesi, si dovrebbe parlare della sfortunata storia sportiva di Amir Nasr-Azadani. Nato nel 1996 ad Isfahan, dopo essersi formato nelle giovanili del Sepahan e aver frequentato diversi stage delle nazionali giovanili, Nasr-Azadani esordisce nella Persian Gulf Pro League iraniana nel 2015 con la maglia del Rah Ahan. La squadra a fine campionato retrocede ma lui si fa notare - nonostante le sole 3 presenze - tanto da essere ingaggiato dal Tractor Sazi di Tabriz, reduce da un secondo e un quarto posto.
La parabola di Nasr-Azadani
Dopo una prima stagione, la 2016/17, di “apprendistato” in cui scende in campo una sola volta, Nasr-Azadani, che è un terzino che ama attaccare, inizia alla grande la sua seconda con 13 presenze e due gol, finché non si rompe un crociato. Il Tractor gli dà il ben servito e lui, che nel frattempo per qualche motivo fa fatica a recuperare, trova ingaggio al Gol-e Reyhan di Karaj, che milita nella Azadegan league (la serie B). Non fa nemmeno in tempo a tornare che il suo ginocchio cede di nuovo nel 2021. Torna sotto i ferri e, di fatto, smette di giocare a calcio a 25 anni, con meno di venti presenze in 5 anni nella Persian Gulf Pro league. Dopo il suo addio forzato al calcio, come accade in questi casi, di lui si perdono le tracce. Nel frattempo, in Iran, il contesto cambia in modo addirittura più veloce di quanto non sia cambiata la sua carriera.
Lo scorso 17 novembre l’agenzia di stampa iraniana Tasnim, legata al corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica (Irgc), riportava la notizia dell’uccisione, durante una giornata di proteste ad Isfahan, del Colonnello dell’Irgc Esmail Cheraghi e di due volontari basiji Mohsen Hamidi e Mohammad Hossein Karimi. Tre giorni dopo, in un notiziario pomeridiano dell’agenzia statale Irna, viene lanciato un breve servizio: nel video si vede confusamente l’arresto di un uomo, poi compaiono quattro individui bendati e rivolti contro il muro, come fossero in attesa di un’esecuzione. Tre di loro, dice il servizio, sono i “terroristi” appena arrestati per il triplice omicidio di Isfahan, che “hanno confessato”. Non vengono fatti i loro nomi ma nelle ore successive, sui social media iniziano a circolare: Saleh Mirhashemi, 31 anni, Saeed Yaghoubi, 30 anni, e Amir Nasr-Azadani, 26 anni.
Secondo fonti riservate, citate da IranWire, Amir-Azadani avrebbe partecipato alle proteste anti-regime in corso nella sua città natale, ma non sarebbe mai stato presente nell’area in cui è stato commesso il fatto, e la sua famiglia sarebbe dapprima stata “indotta” dalle autorità a non rilasciare dichiarazioni, e poi, a inizio dicembre, “informata” che Nasr-Azadani verrà condannato a morte, insieme ad altre 46 persone. Da quel momento gli appelli alla “clemenza” si sono susseguiti da più parti, da quello ufficiale della FifPro alle dichiarazioni di diversi ex giocatori.
https://twitter.com/FIFPRO/status/1602410644409618461
I calciatori iraniani e la scure del regime
Amir-Azadani non è il primo atleta a finire sotto la scure del regime in questi mesi, e tantomeno il primo calciatore. Tra fine settembre e novembre almeno altri cinque tra calciatori ed ex calciatori - peraltro tutti passati per la Nazionale iraniana - sono stati arrestati in relazione alle proteste in corso: il 28 settembre, neanche si parlasse di un narcotrafficante del Balucestan, una quindicina di agenti di sicurezza hanno fatto irruzione nella casa dell’ex capitano del Persepolis, Hossein Mahini, e lo hanno arrestato con l’accusa di aver “incitato le proteste”, per poi rilasciarlo su cauzione il 4 ottobre seguente; il giorno dopo è toccato a Kaveh Rezaei, attaccante titolare proprio del Tractor Sazi, reo di aver espresso simpatia per i manifestanti su Twitter, anche lui poi rilasciato su cauzione; il 2 ottobre la stessa sorte, sostenuta dalla stessa accusa, è toccata ad Hamidreza Aliasgari, 32enne centrocampista, ex capitano del Persepolis, ma soprattutto nipote dell’ex capo della Tv di Stato iraniana. Nel giro di 10 giorni, a metà novembre, vengono arrestati e poi rilasciati su cauzione Voria Ghafouri - fermato dagli agenti mentre si trovava al campo d’allenamento – e Parviz Broumand, ex capitano dell’Esteghlal ed ex secondo portiere del Team Melli, addirittura accusato di aver “guidato le rivolte”, e che dopo esser stato rilasciato il 29 novembre, sarebbe stato trasferito in ospedale a causa di non precisati problemi sorti durante la detenzione.
Ad altri è andata peggio. È il caso di Mohammad Ghaemifar, giovane (classe 2004) promettente portiere delle giovanili del Dezful, che si stava preparando a trasferirsi in un club di massima divisione, il Zob Ahan, nella provincia di Isfahan. Secondo le ricostruzioni la notte dello scorso 22 ottobre, nel corso di alcune proteste in corso a Dezful, Ghaemifar è stato raggiunto alla schiena dai proiettili delle forze di sicurezza, e tra il suo collo ed il suo cranio sarebbero stati rinvenuti circa 40 frammenti di munizione. Ancor più abominevole quanto sarebbe accaduto in seguito, se è vero che alla sua famiglia sarebbero state fornite almeno quattro diverse versioni dell’accaduto – in una era stato investito da un’auto – e poi sarebbe stato chiesto di firmare un documento nel quale si affermava che Ghaemifar era un volontario basiji, “ucciso da teppisti”. Il capitano del Persepolis, Soroush Rafiei, se l’è a quanto pare “cavata” con un pestaggio subito dagli agenti di sicurezza, dopo il quale non sarebbe stato in grado di allenarsi per alcuni giorni; Aref Gholami, difensore dell’Esteghlal di Teheran, era stato tra i primi a criticare la repressione delle proteste, ed è stato messo fuori rosa, senza nemmeno la possibilità di allenarsi coi compagni.
Ad altri ancora, per il momento, è andata in qualche modo meglio: alla ex stella Ali Karimi - che ha una storia di irrequietezze contro il regime, a partire da quando durante un match contro la Corea del Sud indossò insieme ad altri calciatori il bracciale verde simbolo delle proteste contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad nel 2009, passando per un celebre scontro verbale a distanza con un comandante dei Pasdaran - è stato di fatto imposto l’esilio negli Emirati Arabi Uniti, e i suoi conti in banca sarebbero stati congelati.
Destino simile è toccato all’altra leggenda del calcio iraniano, Ali Daei. Addirittura era uscita la notizia, poi smentita, di un suo arresto per aver sostenuto le proteste, e addirittura di una sua condanna a morte, riportata da Hengaw, un’associazione curda. Infine, quella confermata, del suo rifiuto di rispondere all’invito della Federazione iraniana a seguire il Team Melli nel Mondiale in Qatar, invito declinato anche da un altro ex nazionale e centrocampista dell’Osasuna, Javad Nekounam. Infine, lo scorso 5 dicembre, le autorità hanno apposto i sigilli al suo ristorante “10 Forever”, nell’elegante quartiere a nord di Tehran, Kamranieh, e all’atelier di gioielli gestito dalla moglie Mona Farrookhazari a Niavaran, nello stesso quadrante cittadino, “in seguito alla sua cooperazione con gruppi contro-rivoluzionari che operano su internet per perturbare la pace e il commercio”, come ha scritto l'agenzia di stampa Isna, citando fonti giudiziarie.
Il concetto di “hirabah”
I problemi di Daei, per certi versi come quelli del citato Aliasgari, rappresentano abbastanza bene sia il momento storico in Iran, che la natura intransigente dell’impianto del vilayat-e faqih – la teoria dello Stato che ha dato vita alla Repubblica islamica dopo la rivoluzione del 1979 -, i cui principi, dogmi, regole e severe sanzioni hanno nel corso del tempo fatto vittime “eccellenti”. A partire dal fratello della Guida Suprema - Hadi Khamenei -, passando per il nipote di Khomeini, per un suo fidato consigliere come l’ex candidato alle presidenziali Mir Hossein Mousavi, per i figli dell’ex presidente Ali Akbar Rafsanjani e molti altri, e per finire appunto ad Aliasgari, nipote di un uomo che soprattutto in passato è stato molto influente, la cui carica è a nomina statale, oppure ad uno dei più noti personaggi dello sport iraniano, come Ali Daei, peraltro apertamente vicino al defunto Rafsanjani ed anche all’ex presidente Hassan Rouhani.
Sono i segni di una frattura profonda, dello spostamento di una faglia dall’ormai sopita dialettica conflittuale tra quel che rimane dei riformisti ed i principalisti, ad un aperto conflitto tra questi ultimi, la loro residua base sociale, ed il resto della società. Le posizioni di chi nel 2009 sosteneva l’Onda verde e le istanze dei riformisti per un cambiamento endogeno al sistema della Repubblica islamica sono oggi quelle di una aperta ostilità al sistema stesso, non di rado, come nel caso di Ali Karimi, dopo aver preso la strada dell’esilio. Le posizioni più o meno intermedie, talvolta opportunistiche, ben rappresentate da una figura come il citato Rafsanjani o anche dallo stesso Daei, sono evaporate.
Rimane lo scontro, anzi la guerra, la guerra contro Dio, se si vuole essere letterali, ed assecondare il peculiare uso che il sistema giudiziario iraniano fa del concetto di hirabah, proprio della giurisprudenza islamica (fiqh) classica. Hirabah in arabo vuol dire letteralmente “guerriglia”, e la sua radice è la stessa della parola harb, che vuol dire appunto “guerra".
Non è il caso di addentrarsi nei meandri della declinazione di questo o quel principio del fiqh, va però brevemente detto che il concetto di hirabah - pur non comparendo mai in questa forma nel Corano - affonda le sue radici in alcuni versetti della Sura 5, quella della Tavola imbandita, che secondo la tradizione sarebbero stati rivelati al profeta Muhammad dopo che alcuni membri del clan degli Urayna finsero di convertirsi all’Islam per “rubare ai musulmani”, uccidendo poi un predicatore. È un periodo storico in cui la nascente comunità musulmana si trova in minoranza contro i propri nemici, e nei versetti si elencano anche le pene corporali e capitali nei confronti di “chi muove guerra a Dio, ai suoi messaggeri, e a chi semina il disordine sulla terra”.
Hirabah trova nel codice penale iraniano - che ingloba e, in piena tradizione sciita, reinterpreta diversi principi della Shari’a – un corrispettivo, negli articoli dal 183 al 195, nel termine persiano di moharebeh, tradotto in inglese con “guerra contro Dio”, e spesso associato ad altri delitti come mofsede fel arz cioè “(diffusione della) corruzione in terra”, spesso attribuito a chi viene accusato di tradimento.
Guerra contro Dio, perché in questo modo la Repubblica islamica si intesta una rappresentatività divina, usando, come ricordava già dodici anni fa il professor Fawaz Gerges, “termini islamici che fanno riferimento a momenti storici in cui i musulmani erano sotto assedio, in difficoltà”, e quindi ammettendo indirettamente un disagio, una polarizzazione interna. Dodici anni fa si parlava già molto di come il regime usasse moharebeh con estrema disinvoltura anche alla luce del framework giuridico islamico - a parere di diversi religiosi, come Mostafa Mohagehgh Damad, o gli ayatollah Yusuf Sanae’i e Ali Dastgheib - e di come se ne servisse in sostanza per silenziare, punire o intimidire gli oppositori. Perché in Iran c’è quello che si potrebbe chiamare un “clero” al potere, ma anche quello composto da religiosi di eguale o superiore rango, che però non hanno incarichi politici o non intervengono attivamente nella vita politica del paese.
Nella Repubblica islamica dell’Iran, per “guerra contro Dio” viene normalmente condannato chi “prende le armi contro lo Stato”, chi “è parte di gruppi armati”, e nella prassi questo si è tradotto nel corso del tempo con la gran parte delle sentenze di morte per moharebeh comminate soprattutto a membri bande di narcotrafficanti nel Sistan-e Balucestan, ad aderenti a milizie separatiste curde, veri o presunti terroristi, o a persone giudicate colpevoli di stupri o di rapine a mano armata. Tuttavia, il moharebeh sembra più in generale essere utilizzata come un passepartout.
Per moharebeh sono stati giustiziati gli agenti dello Shah durante la rivoluzione, gli autori di alcuni attentati, ma anche attivisti accusati di voler rovesciare il regime per conto del Tondar, un gruppo filo monarchico in esilio a Los Angeles, come l’allora ventenne Arash Rahmanipour o Ehsan Fatahian, accusato di reati analoghi per conto del gruppo armato curdo Komala. Decine di altri manifestanti alle proteste del 1998 o a quelle dell’Onda verde del 2009, accusati di violenze, hanno ricevuto pene detentive molto lunghe per moharebeh, e lo stesso vale per attivisti accusati nel 2008 di essere membri di gruppi sovversivi come i curdi Zeynab Jalalian, la cui pena di morte è stata commutata in ergastolo, o Adnan Hassanpour, rilasciato dopo aver scontato 10 anni di galera e due appelli, dopo l’iniziale condanna a morte. O anche per l’ex Ayatollah Hossein Kazemeyni Boroujerdi, la cui pena capitale venne ridotta a 11 anni in appello. Tantissimi altri, come il ricercatore Abdoleza Ghanbari, hanno ricevuto condanne a morte nel primo decennio del millennio, ed ancora attendono in cella di capire se e quando verrà eseguita.
La situazione di Amir Nasr-Azadani
Su tanti altri ancora, l’accusa di moharebeh è stata agitata come un’ascia, e non fanno eccezione le centinaia di persone arrestate in questi tre mesi di proteste. Per alcune, come è tristemente noto, è già arrivata l’esecuzione della sentenza di morte: si tratta del 23enne Mohsen Shekari, accusato di aver ferito un basiji (una delle cinque forze del corpo delle Guardie della Rivoluzione) con un machete, e Majidreza Rahnavard, giustiziato pubblicamente - fatto più inusuale negli ultimi anni - il 12 dicembre in seguito all’uccisione di due basiji, per cui era stato accusato assieme ad altre 9 persone a Mashhad. Solo ventitré giorni sono passati dall’arresto all’esecuzione, con in mezzo anche un ricorso in “appello” ed una confessione molto probabilmente forzata, nonché fornita senza che a Rahnavard fosse permesso di scegliersi un avvocato di fiducia.
I loro nomi compaiono assieme a quelli di altri 45 su un asettico foglio excel diffuso dal Comitato di monitoraggio dei detenuti. Le loro celle excel, alla colonna “descrizione”, hanno lo sfondo rosso, e all’interno c’è scritto “è stata eseguita”. Tra gli altri detenuti, compaiono i nomi di diversi accusati in casi di ferimenti o omicidi di pasdaran e basiji a Teheran, Mashhad, Karaj, Oshnavieh, Zahedan e Isfahan.
Tra i cinque nomi di presunti coinvolti in fatti di sangue nella celebre “città dei ponti” iraniana, compare anche quello di Amir Nasr-Azadani. Nonostante i media anglofoni abbiano riportato - producendo poi il tipico effetto a cascata coi media italiani – che Nasr-Azadani sarebbe stato condannato a morte per moharebeh, in realtà nella lista del Comitato su 47 detenuti, 26 sono accusati esplicitamente di guerra contro Dio, 20 di “corruzione in terra” (alcuni di entrambi) ed uno, proprio Amir Nasr-Azadani, di nessuno dei due ma di baghi, che si potrebbe tradurre con tradimento e che comunque, come detto, può prevedere la pena di morte.
Un’accusa che appare però incoerente, o quantomeno strana, perché Nasr-Azadani è accusato insieme agli altri due citati e arrestati per un caso di omicidio di tre agenti, ma solo Mirhashemi e Yaghoubi risultano accusati di moharebeh. Strana anche perché secondo quanto riferito dallo stesso Procuratore capo di Isfahan, Asadullah Jafari, all’agenzia Irna, Nasr-Azadani è accusato di essere “membro di un gruppo armato coinvolto nell’uccisione di tre agenti durante le proteste di Isfahan”, che è in custodia dal 27 novembre, e che nei suoi confronti non è stata emessa alcuna sentenza. Questo cercando di dimenticare che al momento non esistono prove che fosse sul luogo del delitto.
Non è chiaro cosa accadrà nei prossimi giorni, per l’opacità che regna in Iran, la difficoltà a far filtrare notizie affidabili e proprio perché in casi come quello di Nasr-Azadani, e quando vengono chiamati in causa reati che il regime utilizza storicamente in modo disparato, gli esiti appaiono spesso casuali, o arbitrari, o frutto di contingenze specifiche, circostanze nelle quali appare necessario lanciare un segnale in una o in un’altra direzione, talvolta, pur raramente, anche nei confronti del mondo esterno, in chiave negoziale, ma più spesso ad uso e consumo interno. Forse quella formulazione alla voce “reato”, accanto al nome di Nasr-Azadani, è la spia di una differenza di trattamento, o il preludio ad un rilascio. Forse no. Lui, c’è da scommetterci, oggi non avrà più nemmeno il ricordo, di quel crociato rotto 4 anni fa.