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La luce che c'era l'ultima volta che l'Arsenal è stato in semifinale di Champions
29 apr 2025
Omaggio ad un dettaglio inutile di tante semifinali europee.
(articolo)
7 min
(copertina)
IMAGO / Paul Marriott
(copertina) IMAGO / Paul Marriott
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Sta finendo aprile, maggio è alle porte e per chi ama il calcio questo è un periodo interlocutorio. Le partite si fanno via via più pesanti, è arrivato il momento della resa dei conti. Il calcio influenza così tanto gli schemi mentali dei suoi seguaci più accaniti che per alcuni questo è il momento dell'anno in cui trarre un bilancio della propria vita, di quali obiettivi sono stati raggiunti negli ultimi mesi e di cosa rimane da fare prima che arrivi il caldo a rendere tutto più difficile.

Ognuno vive dentro di sé la propria lotta salvezza, oppure il tentativo di trovare finalmente una svolta, di capire se è possibile aspirare a qualcosa di più grande. Un po’ come l’Arsenal di Arteta, a cui sono rimaste queste semifinali di Champions League per dare un senso al 2024/25.

Era dal 2008/09 che l’Arsenal non arrivava così lontano nel torneo. Sono passati sedici anni ma sembrano il doppio se pensiamo a quanto era diverso il calcio. Anche all’epoca erano anni di dominio della Premier League ma tra le concorrenti delle inglesi non figuravano né Real Madrid né Bayern Monaco, impelagate in uno dei periodi più mesti della loro storia recente.

Come oggi, invece, anche allora c'era un nuovo rampante Barcellona che si affacciava sulle cime del calcio europeo: Guardiola era al primo anno sulla panchina dei “blaugrana”, quell’anno nella loro versione più fresca ed eccitante, non solo rivoluzionaria - checché ne dicano i mistificatori che continuano a usare la parola tiki-taka senza nemmeno sapere cosa volesse dire. C’era già l’impressione che quella squadra stesse lasciando qualcosa di storico, ma non vi era ancora la certezza che fossero i più forti.

I galloni della favorita spettavano al Manchester United di Sir Alex Ferguson, all’ultima stagione di Cristiano Ronaldo a Old Trafford. Una squadra fenomenale, proprio quella che avrebbe spazzato via l’Arsenal in semifinale.

Quando poche settimane fa i “gunners” hanno sconfitto il Real Madrid al Bernabéu, e tv e media hanno iniziato a ricordarci quanto fosse lontana l’ultima volta che l’Arsenal era finita tra le prime quattro in Europa, mi è tornata subito in mente quella semifinale del 2009, non tanto per qualche gesto tecnico o perché fosse stato uno scontro indimenticabile, quanto piuttosto per un dettaglio (che a dire il vero con la partita c’entra poco): la luce del tardo pomeriggio sull’Emirates Stadium.

Niente di fuori dall'ordinario: più ci si sposta a ovest e più tardi tramonta il sole; non era la prima partita di Champions League che iniziava con la luce del sole e, ovviamente, non è stata nemmeno l’ultima.

La Champions League ha tutta una sua liturgia, di cui fanno parte non solo giocatori, squadre e tifosi ma anche i dettagli scenografici, primi fra tutti il pallone con le stelline e quella musichetta; oltre che gli sponsor - Heineken, MasterCard, PlayStation - che da una vita ci accompagnano mentre santifichiamo il martedì o mercoledì sera con una partita di Coppa. Per me, la luce del giorno che annuncia l’inizio delle semifinali e le accompagna per buona parte del primo tempo fa parte di quel rituale: le partite che si aprono col chiarore roseo del tramonto, invece che col buio della notte, segnano il cambio scena più importante della stagione.

Ottavi e quarti di finale sono ancora un momento di baldoria (a meno che di mezzo non ci sia la vostra squadra del cuore), la sbornia tocca il suo apice perché quantità e qualità delle partite vanno di pari passo. Nel calendario emotivo della Champions, però, le semifinali sovvertono tutto ciò.

È come quando di domenica pomeriggio subentra il peso di dover pensare al giorno dopo. Vale anche in primavera, nonostante le giornate si allunghino: o forse, vale a maggior ragione per quello, un ulteriore promemoria del fatto che l’anno, ormai, è iniziato da cinque mesi e bisogna mettersi in pari con i propri obiettivi. In questa fase della Champions si insinua una leggera malinconia che ti rende conscio del fatto che la festa sta per finire. E il chiarore con cui si aprono le semifinali ne è il primo indizio.

È una costante che è rimasta invariata in tutti questi anni, nonostante l’UEFA l’abbia messa in pericolo con la scellerata decisione, dal 2018, di posticipare l’inizio delle partite di Coppa dalle 20:45 alle 21, negandoci un quarto d’ora di luce naturale.

Di grandi semifinali il cui sipario era la luce del giorno, con la grafica delle formazioni che si apriva sul grandangolo dello stadio e lo sfondo del cielo ancora azzurro/roseo, ne ricordo tante. È logico che sia così, dato che la maggior parte di questi incontri va in scena in Spagna o in Inghilterra, due tra i Paesi più ad ovest del continente: la vittoria dell’Atleti del Cholo nel 2014 in casa del Chelsea di Mourinho; il Calderón che ribolliva prima dell’ennesima sconfitta in un derby contro il Real Madrid; il Camp Nou in attesa di Barcellona e Inter nella speranza, vana, della remuntada; o ancora, negli ultimi anni, le epiche battaglie tra Real Madrid e Manchester City.

Nonostante tutto questo tempo, e nonostante tutte queste sfide, resto convinto che non ci sia stata partita di Champions investita dalla luce del tardo pomeriggio allo stesso modo di quell’Arsenal-Manchester United. Non saprei dirvelo meglio di così, le parole hanno un limite, per fortuna ci sono le immagini.

Qui col riflesso del sole sui parapetti delle tribune. Chissà se a Sagna stava dando fastidio.

Sarà perché magari è una cosa a cui avrò fatto caso per la prima volta in quell’occasione, sarà perché avevo quell’età in cui inizi ad interessarti a tutto il contesto intorno alle partite e non solo a guardarle perché ti piace il calcio.

Ma sono certo che la punizione da 40 metri con cui Cristiano Ronaldo ha bucato le mani di quello scarsone di Almunia non me la ricorderei così bene se non fosse stata immersa in quella luce.

L’Arsenal di Wenger era ricco di talento, pieno di giovani eccitanti: solo in quella partita c'erano Fábregas, Song, Nasri, Walcott e Vela, senza dimenticare van Persie e Adebayor. Come da luogo comune, però, si trattava di una squadra estremamente naïf: se l’andata a Old Trafford, persa per 1-0, lasciava tutto sommato aperti i giochi, all’Emirates dopo nemmeno dieci minuti il risultato già diceva 0-2 per gli ospiti, con gol di Park Ji-sung e Cristiano Ronaldo.

Troppo netta la differenza tra le sue squadre. Il Manchester United era al picco, aveva vinto la Champions un anno prima e aveva mantenuto un livello altissimo, probabilmente la miglior versione dei “red devils” di questo secolo. Solo il Barcellona di Guardiola avrebbe potuto sconfiggere quella squadra in finale, comunque non senza esserne stato intimorito nei primi minuti.

Quello United era una squadra rocciosa, sorretta in difesa dagli insormontabili Ferdinand e Vidić (MVP della Premier League in quella stagione) e letale in transizione, che non lasciava punti di riferimento agli avversari, con Ronaldo che iniziava già a spostarsi al centro e Rooney a compensarne i movimenti defilandosi sulla sinistra. I tifosi dell’Inter non avranno dimenticato l’impotenza provata di fronte ad un avversario del genere negli ottavi di finale quella stessa edizione (0-0 a San Siro e 2-0 ad Old Trafford), la stessa sensazione che deve aver provato l’Arsenal in semifinale.

Per chi non ricordasse l’andazzo di quella partita, lascio qui la linea difensiva dell'Arsenal: Almunia in porta, davanti a lui Sagna, Djourou e il ventenne Kieran Gibbs, oltre al povero Kolo Touré, unico difensore degno di essere considerato tale in questa sequela di nomi disgraziati. Nel dopo partita, Patrice Evra, già all’epoca simpatico come una cartella esattoriale, aveva riassunto così il divario tra quell’Arsenal e il suo United: «Undici uomini contro undici bambini».

Il cielo durante il gol di Park Ji-sung, nato da uno scivolone di Gibbs.

Tutto l’opposto, insomma, rispetto alla squadra che si è guadagnata le semifinali quest’anno. Quello di Arteta è ancora “l’Arsenal dei giovani” (se non fosse per Nuno Mendes, il diciottenne Lewis-Skelly sarebbe senza dubbio il miglior terzino di questa Champions per la sua interpretazione unica del ruolo) ma ha barattato la spensieratezza offensiva con la solidità e un grande spirito competitivo.

Nella Champions League della rinascita del gioco di posizione, quella di Arteta ne è la versione più difensiva e brutalista, costruita sulle spalle di difensori tanto robusti quanto affidabili e dove il genio di Nicolas Jover, il preparatore dei calci piazzati, vale quasi quanto il talento di Ødegaard e Saka.

Niente a che vedere con la leggerezza dell’Arsenal di Wenger - come se, dopo un’infinità di delusioni, fosse stato necessario rinnegare il proprio spirito per tornare a questo punto della Champions League.

In campo, quindi, aspettiamoci uno spettacolo del tutto diverso rispetto a quello di sedici anni fa, dove i “gunners” sapranno di certo come affrontare il potenziale offensivo del PSG. Intorno all’Emirates, però, il colore del cielo quando si aprirà la partita rimarrà lo stesso, e per fortuna nessuno potrà togliercelo.

Vorrei riavere le partite di Champions League alle 20:45 solo per godere di un quarto d'ora in più di luce del giorno, quando arriva maggio e le semifinali vanno in scena negli stadi di Spagna ed Inghilterra.

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