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Cosa ci mancherà di Ashleigh Barty
28 mar 2022
Lascia il tennis all'improvviso, all'apice e felice.
(articolo)
10 min
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«Di colpo i 24 Slam non valgono più niente»: l’ho scritto in questo modo spiccio, in un messaggio privato a un amico con cui parlo di tennis, di tenniste – chi sono, come giocano, quanto ci piacciono – , con cui trovo spesso un confronto sul tema delle numero 1 del mondo, la realizzazione pratica dell’idea platonica del successo. L’ho scritto di getto e pochi minuti dopo il video di Ashleigh Barty che annuncia il ritiro dal tennis professionistico. Un video che suonava corretto, semplice, quasi indiscutibile.

I ranking con cui quasi ogni settimana si misurano i tennisti portano conseguenze oggettive: salite, discese, tornei definibili come “casa”, feeling con una superficie di gioco su altre, l’andamento generale di una stagione. I circuiti ruotano attorno a queste migliaia di punti, che si inerpicano attorno a filosofie differenti: il ranking è espressione di una grandezza oggettiva, oppure al contrario è solo un modo freddo per giudicare le prestazioni. I numeri, si sa, sono una cifra di ogni punto di vista possibile. Possono essere osservati per dare un supporto a una tesi, per trovare una ragione.

Il ranking si prende la briga di oggettivare anche il talento, perciò un tennista predestinato molto presto deve arrivare in alto, deve scalare la classifica, un movimento verso l’alto faticoso, che suona come un’impresa impervia ma possibile. Immaginiamo l’atleta armato di ogni possibilità, che sfida gli avversari e vince, accumula punti, accumula colpi vincenti, rincorre una statistica che qualcun altro prima di lui ha reso un obiettivo. La storia sportiva con cui un tennista fa i conti ha sempre a che fare con la vetta della classifica, con le settimane in cui ci deve rimanere per essere migliore di qualcun altro, per accumulare record, cioè prestigio, per far sì che noi ci ricordiamo per sempre delle sue imprese.

Chi arriva al numero 1 del mondo è qualcuno verso cui sentiamo a quel punto un obbligo: dobbiamo sapere come gioca, che cosa lo rende migliore di altri, dove ha imparato, a chi si ispira. Dobbiamo cucirgli addosso un passato, pescando tra i fantasmi precedenti, e dobbiamo prospettargli un futuro, fatto di successi e insegnamenti da lasciare: il numero 1 è frutto di costanza, di vittorie, non è mai un caso e certifica l’appartenenza a un gruppo ristretto di sportivi.

Nel tennis femminile il primato del numero più alto di settimane consecutive al numero 1 del mondo è di Steffi Graf: 187, tra il 17 agosto 1987 e il 10 marzo 1991. Quando scende alla seconda posizione lasciando il posto a Monica Seles si parla di fine di un regno, perché quel numero diventa negli anni il metro di giudizio del suo tennis: imbattibile, quasi noioso proprio perché sempre vincente, inscalfibile.

Lo sport vuole un numero 1 che abbracci un senso di completezza, un’asticella con cui chiunque possa confrontarsi continuamente, a cui tendere, da battere; che si tratti di una squadra o un singolo atleta poco cambia: il succo è arrivare a occupare un posto, sottrarlo a qualcun altro e cercare di tenerselo, per riuscire a entrare nella storia.

Quando Ash Barty si è ritirata dal tennis la prima volta, nel 2014, l’avevo presa sul personale: non ritenevo possibile che un talento simile scegliesse di rinunciare a crescere e a esprimersi. L’avevo catalogato come un gesto facile e comodo: mettere alla porta la competizione è ammettere di non essere capace a gestirla, in fondo. In quel momento, Barty aveva ancora tutta la vita davanti, tennistica e non, e se ne andava perché i risultati non arrivavano, dunque per impazienza, perché aveva altro da fare che correre appresso a uno sport complicato in cui si perde più che vincere, in cui in due punti cambia una partita, in cui la parità non esiste. Il sacrificio di essere sempre focalizzata e completamente votata al risultato era troppo rispetto a ciò che il tennis sembrava valere. Questo ragionamento cozzava con la mia idea di lei, di ciò che sarebbe stato il suo contributo allo sport e di conseguenza il suo contributo ai miei pomeriggi spesi a guardarla. In potenza, e completamente nella mia testa, rinunciare è stato quasi un affronto.

Quando l’altro giorno ho sentito le sue ragioni del ritiro definitivo ho sofferto, mi è dispiaciuto, l’ho trovato incredibile, ma allo stesso tempo comprensibile: se una volta era riuscita a legittimare la sua volontà, a esprimere un desiderio preciso e a decidere di rinunciare, allora sarebbe potuto accadere di nuovo. In qualunque momento. Per qualunque ragione. Lo sapevo già.

Ash Barty, che per 120 settimane totali, e nell’ultima fase per 85 consecutive, è stata in vetta alla classifica WTA. È una tennista di cui sentiremo la mancanza per il suo modo di giocare ma anche per il modo in cui è andata via. In un colpo solo e per se stessa – quindi per noi – è riuscita a raccontarsi con una schiettezza e una consapevolezza enormi.

A 25 anni e da numero 1 del mondo ha detto addio perché non avrebbe avuto più le energie necessarie per continuare. Quel numero, 85, è frutto di un modello di sacrificio con regole ben precise: allenamenti quotidiani, una dieta ferrea, rinunce definite, un certo numero di giorni ogni anno lontano dall’Australia e dalla famiglia, una abnegazione totale che Ash Barty ha messo in pratica finché le è sembrato che ne valesse la pena.

Quando è tornata la prima volta e ha iniziato a giocare il doppio, ci era sembrato che probabilmente il problema fosse la solitudine della singolarista, ma forse avevamo preso un abbaglio. Forse, non ci aveva raccontato tutto: in cuor suo aveva stabilito delle priorità e le ha rincorse con dedizione. Gli Slam, il numero 1 della classifica, la risoluzione dei desideri sportivi intesi come mancanze da colmare hanno costruito il suo percorso lineare, il suo gioco totale: è diventata tutto ciò che ci aspettavamo, è riuscita a vincere il Roland Garros, poi Wimbledon e poi lo Slam di casa e pensavamo che si prendesse anche lo US Open, per completare il giro e per poi ricominciare daccapo una volta e un’altra ancora, dando sfogo a rivalità – con Iga Swiatek, magari – e a darci la solita storia.

Abbiamo creduto a tutto questo e che avrebbe continuato perché in fondo era diventata una decisione semplice, non era più come la prima volta, non avrebbe abbandonato mai più: era, in sostanza, diventata come noi volevamo.

Invece, oggi sappiamo dalle sue parole (e una volta in più) che niente sul campo da tennis è facile, quel tutto, nella nostra testa di spettatori così appagante, comporta delle scelte difficili. Ciascun membro di quel gruppo di tennisti che per poche o tante settimane si è ritrovato numero 1 del mondo è sceso a patti con la propria vita e ha dichiarato di poter rinunciare a tutto il resto per un certo periodo di tempo.

Tra un blocco e l’altro dell’occupazione della prima posizione del ranking WTA da parte di Barty c’è stato il 2020, la pandemia, la decisione dell’australiana di non abbandonare la sua famiglia mentre il tennis degli spalti vuoti ricominciava, di riprendersi ogni risultato possibile nel 2021, fino a luglio, fino a Wimbledon. È un dettaglio importante che ha inciso sul resto; nel video di commiato ha dichiarato: «Wimbledon è stato da sempre il mio più grande sogno. Ha cambiato la mia prospettiva. Ho avuto quella sensazione dopo Wimbledon e ne ho parlato a lungo con la mia squadra. C’era una piccola parte di me che non era ancora pienamente soddisfatta ed è arrivata la sfida dell’Australian Open.»

Due prime volte, quella dello Slam per eccellenza e quella dello Slam di casa, per rendersi conto senza troppe remore del modo migliore per lasciare: in cima e felice.

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Dal minuto 3:02 a 3:44. «C’è stato un cambio di prospettiva nella seconda parte della mia carriera. La mia felicità non dipendeva dai risultati e il successo per me è sapere di aver dato tutto il possibile. Sono completa, sono felice e so quanto lavoro ci vuole per portare il meglio di te là fuori. L’ho detto alla mia squadra tante volte: non ho più questo in me, non più. Non ho la forza fisica, la volontà emotiva e tutto quello che serve per sfidare te stessa al massimo».

L’ultimo Slam

Durante l’edizione dell’Australian Open 2022, Ashleigh Barty non ha mai perso un set: fino alla finale, non è mai arrivata a giocarsi la vittoria a un tie-break, non ha mai dato l’idea di poter davvero fallire, né che qualcun'altra potesse mettersi fra lei e il trofeo.

Nel 2021 e poi a Melbourne nel 2022, Ash Barty ha costruito una cattedrale: ha vinto ogni finale che ha giocato, tranne che a Miami contro Aryna Sabalenka, e in quell’occasione ha detto: «Non posso vincere sempre», ammettendo con una consapevolezza che oggi ha una luce nuova rispetto a un anno fa che i suoi desideri non avevano nulla a che vedere con la quantità, ma con la qualità della vittoria. Ha giocato meno bene del solito, quindi un’altra tennista ha vinto: facile, lineare, un lungolinea bilanciato tirato in faccia alla compiutezza.

A Melbourne, qualche settimana fa, la partita migliore è stato l’ottavo di finale contro Amanda Anisimova: un 6-4, 6-3 in cui Barty ha trovato finalmente un puzzle più complicato del solito da risolvere, ha perso finalmente il servizio e ha fatto un po’ più di fatica, soprattutto fisica, nella corsa, nell’atleticità che si misura contro un’avversaria compatta, che ha risposto colpo su colpo nel primo set. Punteggio alla mano, la finale finita 6-3, 7-6 contro Danielle Collins è sembrata complessivamente più difficile: colpa di un po’ di tensione nel braccio, di qualche pensiero di troppo che si è affacciato nella testa, della forza da trovare per far finta che ci sarebbe stata una seconda volta.

Contro la statunitense Anisimova, però, Barty ha dato spazio al suo spirito più tenace. Amanda ha salvato un break point al primo game, ha provato a rubare il servizio al quarto e fino al 3 pari le è rimasta attaccata addosso. Nel secondo set, l’australiana si è ritrovata sotto 2-0 subito, è dovuta ricorrere al suo gioco migliore, a tutto campo, con le solite variazioni, per riuscire a rimettersi in gioco e al contempo mettere una considerevole pressione all’avversaria, a condurla all’errore più semplice.

Fin dalle prime battute della partita, Ash è stata chiamata al controllo. Sul 30-0 del terzo game, come sul 30-15 del quinto, l’equilibrio che ha mantenuto a rete è stato esemplare di uno stato mentale invidiabile, che le ha permesso di togliersi dai problemi sempre nel modo migliore possibile.

L’intelligenza sul campo di Ashleigh Barty si è compiuta nell’ottavo di finale, in quel giro di boa che le ha dato sufficiente convinzione da renderla ancora di più sul campo una macchina intelligente, calibrata, precisa, piacevole da guardare, esaltante dal mio punto di vista, ma totalmente dedita a un solo obiettivo: vincere. Per andarsene senza rimpianti.

Guardare giocare Ashleigh Barty è stato assistere a uno spettacolo unico che ci ha saziato ogni volta, non ci ha mai fatto rimpiangere il passato e ci ha fatto pensare poco al futuro, perché in questi anni ha catalizzato l’attenzione per la quantità di talento espresso, per averlo fatto con serenità, con naturalezza, godendoselo e guidando il tour con autorevolezza.

Domani, il pensiero più grande sarà per molti trovare un’altra Ashleigh Barty, perché non c’è stata nessuna completa tanto quanto lei negli ultimi due anni, nessuna che ha espresso un gioco affascinante e per molti aspetti cerebrale, espressione, ora lo sappiamo, di una forza di volontà ferrea e di una profonda mancanza che ha animato i suoi desideri più grandi e che pian piano si è colmata, avvicinandola al ritiro. Da domani, il circuito femminile per molti tornerà a essere uno spazio senza leader, un territorio di conquista dove ogni cosa può succedere. Se chiedessimo ad Ash cosa ne pensa, risponderebbe che nessuna è chiamata a essere uguale a un’altra, che ogni unicità serve al tennis per farsi rappresentare nel modo migliore, che in fondo è un errore pensare che la storia debba ripetersi per forza.

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