È facile ipotizzare come ai tanti tifosi dei Los Angeles Lakers, ora come ora parecchio abbattuti, piacerebbe poter disporre della macchina del tempo. A differenza del protagonista dell’omonimo romanzo di H.G. Wells, però, i sostenitori gialloviola non la utilizzerebbero tanto per viaggiare in avanti e scoprire cosa riserva loro la sorte, quanto piuttosto per riportare indietro le lancette al 12 ottobre 2020. Il giorno successivo alla vittoria del titolo numero 17, infatti, il futuro sembrava sorridere alla loro squadra del cuore, almeno quello a breve termine. Da lì in poi però sono successe molte cose e per i campioni in carica la realtà si è rivelata più vicina all’orrore – almeno all’orrore cestistico – che alla fantascienza. E nel dipanarsi degli eventi il destino dei Lakers, o almeno una sua parte consistente, è gravitato attorno alla figura di Anthony Davis.
Il piano dei Lakers
Sulle scelte di mercato operate dai Lakers dalla conclusione della bolla di Orlando in avanti si è detto e scritto tutto il possibile, con accezione negativa corroborata dai risultati deludenti. La decisione di apportare modifiche alla squadra laureatasi campione ha finito per generare un effetto palla di neve il cui prodotto ultimo è stato l’arrivo di Russell Westbrook, mossa dagli esiti sportivamente tragici. È quindi difficile, quasi impossibile non criticare il lavoro della dirigenza, ma c’è un fattore spesso trascurato nelle analisi relative al percorso che ha portato la franchigia nel vicolo cieco dove si trova ora.
Per quanto sia ormai evidente come non abbia funzionato, il front office capeggiato da Pelinka ha agito seguendo un piano. Un piano fondato sulla certezza che i Lakers sarebbero stati una contender, perfezionando nel frattempo una graduale transizione per cui la squadra modellata attorno a LeBron James sarebbe passata nelle mani di Anthony Davis. Si trattava di un piano avallato dai diretti interessati, anche attraverso gesti simbolici nemmeno troppo elusivi. La timeline delle due stelle, con quei nove anni di differenza anagrafica a separarli, e l’evoluzione delle singole carriere sembravano premessa ideale al passaggio di testimone. E quanto visto nella bolla di Orlando aveva rafforzato questa convinzione, poi sfociata nelle estensioni contrattuali per entrambi.
Un primo anno, senza mezzi termini, memorabile.
È probabile che in casa Lakers un po' tutti abbiano creduto di godere di un margine d’errore ampio nella costruzione del roster, perché la sola presenza di Davis e James rappresentava una garanzia che la squadra sarebbe comunque rimasta competitiva. E se è sempre rischioso dare una risposta semplice a questioni che hanno molte sfaccettature, non lo è affermare che sul fallimento del piano dei Lakers ha pesato in maniera decisiva la prolungata assenza di Anthony Davis.
Un identikit particolare
Fornite a qualsiasi appassionato o addetto ai lavori NBA il seguente identikit: lungo moderno in grado di giocare sia da ala che da centro, contratto importante firmato al massimo salariale consentito, spiccata predisposizione agli infortuni e cospicua quantità di partite saltate nelle ultime due stagioni. Nella maggior parte dei casi la risposta che otterrete è Kristaps Porzingis. La fragilità fisica è costata al lettone il declassamento alla categoria “contratto di cui liberarsi a ogni costo”, ma l’ex Mavericks dalla fine del 2020 a oggi ha disputato più partite (85 contro 79) rispetto a Davis.
Per quanto ovvio, si tratta di due giocatori appartenenti a categorie ben distanti, ma il paragone tra i rispettivi curriculum sanitari aiuta a rendere l’idea della criticità riguardante le condizioni fisiche del prodotto di Kentucky. Nell’arco di poco più di un anno, Davis ha saltato grossomodo la metà delle partite giocate dai Lakers, non riuscendo a dare continuità alle sue prestazioni e privando compagni e staff tecnico di una risorsa irrinunciabile. Nella stagione in corso, anche se record (17-20 con Davis, 11-15 senza) e metriche di squadra non evidenziano grandi scostamenti imputabili alla sua presenza in campo, è indubbio che i problemi fisici di Davis abbiano influito pesantemente sull’andamento complessivo.
Non è un caso che l’efficienza difensiva, unico pilastro della gestione Vogel, abbia registrato un crollo clamoroso che ha portato i Lakers dall’avere il secondo miglior rating difensivo della lega durante la regular season 2020-21 – e il 3° in quella precedente – fino al 18° posto nell’attuale classifica. Più in generale la ricerca di una coesione tattica, già resa difficile da un roster assemblato in maniera discutibile, ha sofferto la presenza saltuaria di quello che avrebbe dovuto essere un punto fermo su entrambi i lati del campo.
Forse la miglior prestazione stagionale, considerati anche l’avversario diretto e l’assenza di James.
Non è quindi un’esagerazione prevedere che un suo mancato recupero entro il termine della regular season, evenienza ritenuta da molti probabile, rappresenterebbe la pietra tombale sulla stagione dei Lakers. Una stagione che in molti, dalle parti di Hollywood, vorrebbero chiudere il più in fretta possibile, ma che lascerebbe comunque molte questioni aperte per Davis e per la franchigia.
Domande in attesa di risposta
Tra le molte questioni rimaste in sospeso a causa della presenza intermittente, c’è quella del ruolo in campo di Davis. Per come funziona oggi il basket NBA, l’adattamento a giocare da centro, almeno nominalmente, appare una via obbligata. I dati della stagione in corso, nella quale Davis ha agito da centro per il 28.6% dei minuti giocati in difesa e il 30.7% in attacco (contro il 12.5% e il 22% del 2020-21), accorgimento di certo influenzato dalla presenza di Westbrook, sembrano indicare una tendenza piuttosto chiara. La ritrosia più volte manifestata e il tributo in termini fisici che tale adattamento richiederebbe, però, sono ostacoli tuttora presenti. Così come rimane ancora incerta la risposta a un’altra domanda, ancora più cruciale per il futuro dei Lakers: Davis può essere il miglior giocatore di una squadra con ambizioni da titolo? Nella bolla di Orlando lo è stato per alcuni tratti, ma sempre all’interno di un contesto in cui James aveva il controllo tattico ed emotivo dei quintetti in campo. Il passaggio di testimone di cui sopra, quindi, è quantomeno rimandato.
L’unica certezza, al momento, è che le fortune di Davis dipendono prima di tutto dalle sue condizioni fisiche. La frequenza e la varietà degli infortuni patiti solo nell’ultimo anno – polpaccio, tallone, addome, ginocchio sinistro e caviglia destra – inducono a sospettare che il quadro complessivo sia compromesso e che sopportare i ritmi imposti dal calendario NBA sarà una sfida sempre più ardua. L’impressione è che il problema di tenuta sia strutturale, e di conseguenza difficilmente destinato a risolversi, anche perché la soglia dei trent’anni si avvicina e le stagioni da professionista stanno per raggiungere la doppia cifra.
Il prezzo da pagare
Un teorema molto diffuso tra chi lavora o commenta la NBA sostiene che ogni sacrificio sia giustificabile pur di arrivare a vincere il titolo. Per quanto sia alto, la conquista del Larry O’Brien giustifica sempre il prezzo pagato. Nella trade che ha portato Davis a Los Angeles i Lakers hanno pagato un prezzo altissimo, ottenendo in cambio la vittoria al primo tentativo. Secondo la corrente di pensiero di cui sopra, quindi, sarebbe valsa la pena di ipotecare il futuro a medio e lungo termine, anche nella prospettiva, alquanto probabile, che il trionfo del 2020 rimanga un unicum. Può darsi che sia in effetti così, anche se il particolare di avere a disposizione gli ultimi scampoli davvero significativi del miglior giocatore degli ultimi vent’anni, forse il migliore di sempre, rende meno solide le argomentazioni alla base del teorema.
A maggior ragione perché le incognite sul domani dei Lakers vanno ben oltre una stagione ormai compromessa. Durante la pausa per l’All-Star Game si è parlato molto degli sviluppi che potrebbero coinvolgere James, in scadenza contrattuale due anni prima del compagno, e poco di quello che potrebbe fare Davis in uno scenario post-LeBron o comunque di sostanziale ricostruzione della squadra. Difficile azzardare ipotesi, anche perché prima occorrerebbe chiarire quando e come Davis sarà in grado di rientrare – e di rimanere – in campo.
In piena salute non c’è dubbio che possa essere un uomo franchigia, anche per una realtà diversa da tutte le altre come i Lakers, e forse potrebbe anche ambire a tornare tra i 6/7 migliori giocatori della lega, per quanto nel suo cuore rimanga un giocatore che ha bisogno di essere azionato rispetto a uno che coinvolge i compagni con il suo gioco. Solo che nel frattempo la concorrenza ha visto irrompere o consolidarsi nomi quali Antetokounmpo, Embiid, Jokic, Doncic e Morant, giocatori autosufficienti e amplificatori del contesto attorno a loro.
La prolungata assenza dai campi, inoltre, sembra aver ampliato la distanza tra la percezione del giocatore e la realtà, come confermato dalla recente polemica con Devin Booker a proposito dell’incrocio con i Suns al primo turno degli scorsi playoff. La polemica, in verità piuttosto futile ma da cui Davis non è comunque uscito benissimo, conferma poi quanto su quella sponda di Los Angeles sia ancora robusta la fiducia nell’eccezionalismo gialloviola, ovvero quel carattere di unicità che dovrebbe, in teoria, contraddistinguere la franchigia da tutte le altre.
Tornare ai vertici della gerarchia, magari trascinando anche la squadra, non sarà invece affatto semplice e il lieto fine della storia iniziata nel giugno 2019 è tutt’altro che scontato. I Lakers, così come i tanti appassionati che Davis ha stregato fin dal suo sbarco in NBA ormai dieci anni fa, non possono far altro che attendere.