
«Che gli altri siano i favoriti cosa significa? Perché sono favoriti? Perché credo che abbiano delle qualità superiori alle nostre in determinati aspetti. Però nel calcio si possono trovare delle risposte a tutto ciò. E se noi siamo capaci, e ne abbiamo le capacità, possiamo colmare la loro superiorità e trovare le opzioni per vincere»
[Unai Emery, 2021]
Unai Emery stava per farlo ancora una volta. Ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per un Donnarumma che si candida con forza al ruolo di miglior portiere di questa Champions League e per l’istinto premonitore di Willian Pacho, che sulla volée di Maatsen all’ultimo minuto aveva deciso di piazzarsi proprio fra il tiro e il gol, a due passi dalla linea di porta.
Alla fine restano solo gli applausi, non solo da parte dei tifosi dell’Aston Villa, ma da chiunque ieri sera abbia deciso di dedicare un paio d’ore a due quarti di finale di Champions League il cui esito, dopo l’andata, sembrava già deciso. Tanto più dopo i gol di Hakimi e Nuno Mendes in meno di mezz’ora, con cui il PSG sembrava aver messo in ghiaccio anche il ritorno. Invece le squadre di Unai Emery un modo di mettere in discussione ogni gerarchia lo trovano sempre.
Sono passati undici anni da quando il tecnico basco ha iniziato a costruirsi la fama di mago degli scontri a eliminazione diretta. Undici anni in cui spesso le eliminatorie e le partite secche le ha superate da una posizione di netto svantaggio: le finali di Europa League vinte col Siviglia contro Benfica e Liverpool, e quella vinta col Villarreal contro il Manchester United; le eliminatorie di Champions League, sempre alla guida del “submarino amarillo”, in cui ha sconfitto la Juventus e il Bayern Monaco. È stata davvero questione di dettagli se agli scalpi nobili che conserva in casa non si è aggiunto anche quello del PSG di Luis Enrique.
Non era la prima volta che Emery si ritrovava ad affrontare, in Champions League, una partita di ritorno con uno svantaggio iniziale di due gol. Era già successo nel 2022, quando in semifinale contro il Liverpool aveva perso l’andata per 2-0. I “reds” erano forse nella miglior versione del ciclo di Klopp, infinitamente più forti del Villarreal. Eppure gli spagnoli, al ritorno, avevano trovato il modo di pareggiare i conti e portarsi sul 2-0. Poi, però, la sfortuna, il divario di talento e l’imperizia di Geronimo Rulli in porta avevano fatto sì che il Liverpool recuperasse piuttosto tranquillamente. Ieri, invece, il PSG ha tremato per davvero: in Champions League, nemmeno con uno scarto di 4 gol (questa era la distanza in aggregate dopo il gol del momentaneo 0-2 di Nuno Mendes) ti puoi sentire al sicuro. Basta un episodio per ribaltare tutto e rimanere travolti da un avversario in fiducia, da un ambiente che si accende all’improvviso e dai propri fantasmi.
Nella versione di quest’anno il PSG sembrava aver finalmente superato i propri traumi in Europa. La sicurezza con cui, anche al Villa Park, aveva saputo sprigionare il proprio talento, lasciavano presagire un’altra serata tranquilla per i francesi. I gol, peraltro, erano arrivati proprio dall’ardore con cui l’Aston Villa aveva provato ad affrontarli. Ne erano scaturite due transizioni letali, in cui il PSG in parte si era avvalso di un certo disagio dei centrali Konsa e Pau Torres a campo aperto, sia nel mantenere il giusto posizionamento preventivo, sia nel correre all’indietro, ma soprattutto aveva potuto sprigionare la velocità dei suoi uomini offensivi e dei suoi terzini.
Il primo è nato dopo un contropiede non finalizzato da Rashford. Entrambi i terzini dei villans erano saliti, c’era un potenziale squilibrio. Il mediano Kamara, invece di coprire lo spazio e rinculare, aveva preferito lanciarsi in avanti in gegenpressing. Nel frattempo Barcola a sinistra era partito alle spalle del terzino Cash. Konsa avrebbe potuto aprirsi per avvicinarsi a Barcola, invece era rimasto sul posto, e così il francese aveva potuto ricevere tutto solo la verticalizzazione di Nuno Mendes.

Il cross per Dembélé era stato respinto corto da Emi Martinez per via dell’interferenza di Pau Torres, e così sulla ribattuta Hakimi aveva potuto segnare.
La transizione del 2-0, poi, era arrivata da circostanze ancora più particolari: il Villa si era alzato in pressing alto e Onana, in area del PSG, aveva addirittura recuperato palla su João Neves. Marquinhos ci aveva messo una pezza e aveva alleggerito su Kvara, su cui era salito Konsa. Anche in questa azione il terzino del lato palla, Digne stavolta, era salito. Nel frattempo Hakimi era partito alle sue spalle. Konsa non aveva fatto in tempo a prendere contatto con Kvara che aveva appoggiato a João Neves, il quale aveva verticalizzato di prima per Hakimi nello spazio dietro Digne.
L’altro centrale, Pau Torres, non aveva potuto avvicinarsi perché da quelle parti si era allargato Dembélé, che infatti ha ricevuto da Hakimi.

L’Aston Villa non ha fatto in tempo a rinculare, Nuno Mendes ha chiamato palla a rimorchio sul limite dell’area e ha segnato.
Emery a fine partita ha sottolineato come la sua squadra fosse consapevole dei rischi derivati da una strategia più aggressiva. Forse confidava nella poca freddezza del PSG in finalizzazione. In effetti, il tasso di conversione dei francesi non è di certo dei migliori. Prima di ieri, agli ottavi contro il Liverpool la squadra di Luis Enrique aveva ricavato meno gol rispetto agli xG prodotti (1 rete a fronte di 4,4 npxG, complice uno straordinario Alisson a dire il vero) e anche all’andata contro l’Aston Villa i 3 gol erano arrivati da 1,9 npxG, non di certo un dato eccellente. Le due transizioni finalizzate con questa sicurezza, in effetti, sono state un po’ un’eccezione, perché il PSG di occasioni ne ha sprecate anche ieri: alla fine, i 2 gol sono arrivati da 1,7 npxG, un differenziale troppo basso per una squadra con questo potenziale offensivo (e a costo di essere banali, la Champions League è la competizione dove l’imprecisione sotto porta si paga al prezzo più caro).
Insomma, i calcoli di Emery, dopotutto, non erano così sbagliati. E già cinque minuti dopo aver subito lo 0-2 (5-1 globale) l’Aston Villa aveva trovato il modo di rialzare la testa. Merito dell’atteggiamento generale con cui gli inglesi avevano preparato la partita. Rispetto all’andata, dove aveva pensato a limitare i danni, ieri l'Aston Villa ha difeso più in alto, con un blocco medio pronto ad alzarsi o abbassarsi all’evenienza. Un 4-4-2 molto attivo, la ricetta di Emery per tutte le stagioni, in cui le distanze cortissime tra un reparto e l'altro permettevano ai difensori centrali di rompere la linea per uscire sull'uomo e tamponare le ricezione alle spalle dei mediani, quelle con cui il PSG è solito esaltare i suoi talenti.
Così, poco dopo la mezz’ora, Kvara ha provato a triangolare al centro per farsi restituire palla alle spalle di Pau Torres, inizialmente salito per seguire Dembélé (che si era abbassato addirittura fino a centrocampo). Lo scarico, però, non gli è riuscito e Pau e Onana gli hanno rubato palla.

Perfezionato il recupero, Onana ha verticalizzato per Tielemans tra le linee (schierato trequartista alle spalle di Rashford nel 4-2-3-1/4-4-2 degli inglesi).

A quel punto il belga ha dato il via a una transizione di grande qualità, dove lui, Rashford e McGinn si sono avvicinati e hanno interagito scambiandosi pallone e posizione per poi far arrivare Tielemans al tiro da dentro l’area. La deviazione di Willian Pacho ha spedito la palla in porta.
Una reazione tanto puntuale è la dimostrazione di quanto la squadra credesse nella sua strategia. Affrontare le difficoltà con questo spirito è il segno più chiaro di quanto un allenatore abbia saputo fare presa. Preparare un piano partita, quello lo sanno fare tutti. Infondere ai giocatori la fiducia di poterlo eseguire anche quando sembra impossibile, di fronte a un avversario ben più forte, beh, in pochi ci riescono e forse Unai Emery è il migliore in questo. Per valutare le sue doti occorrerebbe entrare nello spogliatoio, capire quali parole sceglie di dire ai giocatori (alla faccia di chi, qualche anno fa, lo prendeva in giro per il suo inglese). Solo così potremmo pesare per intero il suo valore.
Si dice che Emery convinca i suoi giocatori durante le sessioni di analisi, ricordando ai suoi giocatori il loro valore e mostrandogli che anche gli avversari hanno dei punti deboli. È un allenatore ossessionato dallo studio dell’avversario, non potrebbe essere altrimenti visto che quasi mai ha allenato la squadra più forte. Il fatto di affidarsi così tanto all’analisi e rendere partecipi anche i giocatori lo aiuta, tra le altre cose, a compensare i pochi giorni a disposizione per allenarsi tra partite di campionato e di coppa. Dopo la finale di Europa League vinta nel 2021 contro il Manchester United aveva detto di aver analizzato ben 17 partite dei Red Devils. The Athletic assicura che, prima di ogni partita, Emery ha studiato almeno cinque partite del suo avversario.
La sfida di ieri non ha fatto eccezione e, evidentemente, il difetto strutturale da sfruttare per l’Aston Villa, era la posizione delle ali parigine in pressing alto. Sia che il PSG pressasse col 4-1-4-1, sia che lo facesse col 4-2-3-1 (a seconda delle posizioni dei tre centrocampisti), le ali inizialmente rimanevano strette a copertura dei mezzi spazi, per negare verticalizzazioni. Così, se i terzini Cash e Digne si alzavano alle loro spalle, il terzino del PSG rimaneva in inferiorità numerica contro l’ala e il terzino del Villa. Da lì in poi bisognava trovare il modo di sfruttare quel vantaggio posizionale. Il Villa poteva trovare direttamente il terzino scodellando il pallone con i centrali. Oppure, come nel caso del secondo gol, sfruttare la posizione avanzata di Cash o Digne per servire l’ala nel mezzo spazio.
In occasione del 2-2 Hakimi aveva seguito McGinn nel mezzo spazio. Intanto Digne si era alzato alle spalle di Kvara, che era rimasto alto e stretto. Hakimi allora aveva preferito lasciare McGinn per andare su Hakimi.

Lo scozzese ha potuto ricevere la verticalizzazione, girarsi e puntare la porta. Arrivato sul limite, il suo tiro, ancora una volta, è stato deviato dal povero Pacho e ha superato Donnarumma.

Erano passati meno di dieci minuti dall’inizio del secondo tempo. Con più di mezz’ora ancora da giocare, il fatto di aver recuperato con quello spirito lo svantaggio rendeva improvvisamente più vicini gli altri due gol da recuperare. Se ne sono accorti i giocatori, se n’è accorto lo stadio e se n’è accorto il PSG, che il terzo gol (un gol di Konsa al culmine di un angolo corto, con incursione in area di Rashford in cui Fabian e Vitinha, per paura di concedere rigore, si sono fatti saltare come birilli) lo ha subito a due minuti di distanza dal secondo: la percezione del tempo in Champions League, quando l’inerzia della partita si ribalta, diventa il concetto più relativo del mondo. Capita che in pochi secondi una squadra riesca a produrre più di quanto non abbia fatto nel resto dei 180’.
Così, dopo il 3-2, sembra rimanere troppo tempo perché l’Aston Villa, alla fine, non pareggi i conti. Troppo favorevole la direzione presa dall’incontro, mentre qualcuno al PSG inizia a vedere i fantasmi: è Marquinhos, il capitano, che in una squadra del tutto rinnovata rappresenta la continuità con gli sfortunati cicli precedenti.
Il brasiliano sembra portare con sé l’aura di sfiga che ha connotato il PSG in Europa finora, che lo trasforma da difensore normalmente affidabile in una vera e propria calamità per la sua squadra. Un minuto dopo il 3-2 prova maldestramente a respingere di tacco un cross, e fa finire la palla sulla testa di Tielemans. La parata di Donnarumma (quella che vedete nella copertina di questo pezzo) non ha semplicemente senso. Al 70’, invece, devia di testa un lancio di Pau Torres per Rashford e, di fatti, lo trasforma in un assist per Asensio a campo aperto. Il gol dell’ex per riequilibrare l’eliminatoria sarebbe stato l’ennesimo episodio da incubo dell’epopea del PSG in Champions. Invece, Donnarumma ieri sera aveva proprio voglia di ribaltare il destino della sua squadra e ha respinto il tiro dello spagnolo.
Sul prosieguo dell’azione l’Aston Villa ha conquistato una punizione defilata su cui Konsa, per un millimetro, non ci ha messo la testa. Emery, per la disperazione, si è buttato a terra come se stesse eseguendo dei push up.
Era quello il momento di segnare il quarto gol, le occasioni ci sono state ma l’Aston Villa non ha saputo sfruttarle. Così, il resto della partita è scivolato via, con qualche contropiede sprecato dal PSG. Una mischia all’ultimo minuto ha liberato al tiro Maatsen ma Pacho, l’uomo che con le sue deviazioni aveva contribuito a due gol dei villans, ha deciso di invertire il karma e salvare Luis Enrique sulla linea di porta.
Alla fine al PSG resterà la paura, e ad Emery l’amaro in bocca per l’impresa sfiorata. Nella percezione del tecnico basco, però, il fatto che Pacho abbia salvato o meno quella palla gol all’ultimo minuto cambia poco. Le eliminatorie di Unai Emery riescono sempre a essere una grande lezione: nello sport, nel calcio di alto livello soprattutto, un modo di competere si può trovare sempre, anche da una condizione di inferiorità. Il resto, sono solo scuse.
È questa la grandezza di uno degli allenatori migliori della sua epoca, che forse meriterebbe ben altro riconoscimento. Chissà, forse Emery non è uno che riesce a vendersi granché bene alle società e alle tifoserie delle squadre d’élite. Magari perché non parla bene inglese, o perché non ha avuto un passato da grande giocatore («sentivo molto la pressione ed ero abbastanza cagón», diceva del sé stesso calciatore).
Oppure sarà per il modo di presentarsi. Quando vediamo Unai Emery a bordo campo con il solito completo scuro, la cravatta che spunta dalla zip del maglione a collo alto, i lunghi capelli pettinati all’indietro col gel che sembra tirargli anche le rughe della fronte, sembra sempre che si prenda troppo sul serio, come quei professori del liceo che ci tenevano a presentarsi vestiti in un certo modo, magari con una giacca e una cravatta, e anche per questo suscitavano un po’ di ilarità degli studenti, che percepivano il contrasto tra il tentativo di mantenere un qualche rispetto istituzionale dei ruoli attraverso il vestiario e la trasandatezza del contesto in cui si ritrovavano ad insegnare. Look the part, be the part, avrebbe detto Prop Joe di The Wire. E competere come riescono a fare le squadre di Emery richiede una meticolosità che forse passa persino dal modo di mostrarsi, anche a costo di non cambiare look e pettinatura da più di dieci anni.