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Atlante cosmico dei soprannomi sudamericani
02 mag 2018
In Sudamerica, soprattutto in Argentina, un apodo è per sempre.
(articolo)
12 min
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Ogni lista di soprannomi associati ai nomi di calciatori sudamericani, anche se non esaustiva, è l’oggetto letterario più simile a un bestiario medievale, o a uno dei volumi de I Quindici su cui abbiamo imparato a distinguere un colocolo da una lince pardina. Per capire un po’ più a fondo cosa porta ogni calciatore latinamericano, ma diciamo soprattutto argentino, a inscrivere in maniera praticamente indelebile un apodo tra il nome e il cognome sul suo curriculum, voglio partire un po’ da lontano.

Da una foto di Luigi. Quella custodita nell’ellissi di ottone incastonata sulla sua lapide, nel cimitero del paesino di campagna in cui sono cresciuto, un posto in cui la contabilità dei morti ha superato quella dei vivi da un pezzo. Indossa un vestito contadino, il cappello a falda larga, ha i baffi pronunciati e un mozzicone di toscanello tra le dita.

Luigi è il nonno di mio padre, che in suo onore porta lo stesso nome, tradizione che tecnicamente sarei destinato a perpetuare, avessi casomai un figlio maschio. Ma non è la sola legacy che ci ha lasciato. Perché in quel paese, ogni volta che torno, sono - e credo rimarrò per sempre - “il figlio di Luigi di Tabacco”, che era il soprannome del Luigi immortalato nel dagherrotipo con il toscanello in mano. Per estensione, e per semplicità, “Tabacchino”. Un’eredità che lascerò ai miei figli, temo. Anche se nessuno di noialtri, alla fine, è sudamericano.

Luigi è morto più o meno negli anni in cui frotte di immigrati, attraversando l’oceano Atlantico, contribuivano a dare una dimensione tangibile al proverbio «i peruviani discendono dagli Inca, i messicani dagli Aztechi, e gli argentini dalle barche». Nel crogiuolo di razze e provenienze che dava vita al Nuovo Sudamerica, l’appartenenza era una questione seria, per certi versi dirimente per le sorti del proprio futuro: il soprannome era un marcatore sociale, un’etichetta non necessariamente negativa, un tag che aiutava a fare ordine, e ti spiegava il tuo posto al mondo. Anche se l’integrazione, semmai esista davvero un modo per raggiungerla senza abbattere troppe barriere, sembrerebbe suggerirne l’eliminazione, gli apodos geopolitici erano il primo passo nella costruzione di una comunità.

Chi si rifiutava di abbandonare i propri costumi, di sacrificarli sull’altare dell’edificazione di una nuova Nazione, veniva bollato: “tano” (da “napolitano”), “gallego” (per estensione tutti gli spagnoli erano della Galizia) e “ruso” nascono in questo tipo di contesto.

La generalizzazione è una delle amiche più fidate dei meccanismi di soprannominazione, insieme all’infamia, alla facilitazione e al totale disconoscimento del politicamente corretto. In pochi altri posti, al di fuori dal Sudamerica, negro, gordo (ciccione) e feo (orribile) possono diventare una maniera di riferirsi a qualcuno che non senta l’intima necessità di querelarti.

Héctor Baley è stato il secondo portiere dell’Argentina campione del mondo nel 1978. Potevano prenderlo in giro per i denti, e invece con una leggerezza per niente maliziosa presero la mira sul colore della pelle. Era soprannominato “Chocolate”.

Ogni soprannome è un’eredità

Il nome non puoi scegliertelo. Il soprannome sì. Anche se il più delle volte te lo ritrovi affibbiato, finisci per affezionarti, per sentirlo più tuo del nome. Perché è originale. Perché la sua vasca di fermentazione è quasi sempre un contesto ludico, una microcomunità con il sorriso sulle labbra. Soprannominare è un gioco nel gioco, senza (quasi mai) malizia.

«In Argentina», mi ha detto una volta Cintia, una mia amica ovviamente argentina, «tutti hanno un soprannome». Lei no, però, perché è una cosa che vale «solo per i maschi».

Potrebbe darsi che un soprannome obbedisca a una necessità, dal momento che c’è poca diversità nei nomi di battesimo, e quindi una possibilità più ampia che nella stessa famiglia ci siano una manciata di Juan, o di Claudio, o di Diego. Come li distingui?

Un costume maschile, anzi di più: machista.

Provate a chiedervi perché Danilo Gerlo, difensore passato anche per il River, sia soprannominato Paco. Poi, se non riuscite a darvi una risposta, cercate di ripeterlo più volte, in successione, a voce alta. Potrebbe servire conoscere una buona fetta di lessico e fraseologia ispanofona, per godere appieno dell’esperienza (Paco Gerlo... PacoGerlo... pacogerlo... pa' cogerlo... abbreviazione di para cogerlo, per prenderlo, che volgarmente può avere anche connotazioni sessuali).

Un soprannome, in un verso o nell’altro, è per sempre.

L’incrostazione di un suono: Pupi, Papu, Cuchu, vezzi fanciulli, il nomignolo con cui ti chiamano a tavola quando l’asado è quasi pronto e tu stai ancora giocando a pallone, che ti permeano fino a cristallizzare un’aura ragazzina intorno a cristi che a quarant’anni ancora arano la fascia.

La tenerezza di un Pupi, buona per ogni età (anche quando hai diciotto anni e certi quadricipiti che fermati; foto di Massimo Cebrelli / Stringer).

Ezequiel Lavezzi, da ragazzino, aveva un cane che si chiamava Pocholo. Quando è morta la bestiola, il fratello e il suo migliore amico hanno cominciato a chiamare Ezequiel col nome del cane, perché come lui stava sempre arzillo, in mezzo ai piedi.

Nel giro di poco tutto il paese, Villa Gobernador Gálvez, lo conosceva come Pocholo, un po’ come se andassi nel mio paesetto e chiedessi chi conosce Tabacchino. A Villa Gobernador Gálvez viveva anche Mauro Formica, passato per il Genoa qualche anno fa: quando si sono incontrati, nella Sele U20, con un po’ di stupore l’ha salutato come Pocholo. Di lì in poi, la crasi di quel nomignolo è diventato il trademark di Lavezzi.

Il rito, il mito, il simbolo

Nella delegazione argentina che ha partecipato alla prima Coppa del Mondo in Uruguay c’erano due portieri. Il primo si chiamava Ángel Bossio, il secondo Juan Botasso. Per tutti erano “Maravilla Elástica” e “Cortina Metálica”, due soprannomi molto distanti tra loro, quasi complementari (il primo esalta la reattività plastica di Bossio, il secondo la tentacolarità impenetrabile di Botasso, l’esatta combinazione di portieri che vorresti avere in rosa) che sono accomunati però da una specie di polvere glitterata mitica che li ricopre: l’epicità con cui le penne sportive degli anni ‘30 battezzavano, moderni cantori di gesta, le virtù dei giocatori alla stessa maniera in cui i griot chiamavano gli eroi delle tragedie cosmogoniche.

Col tempo si sarebbe forgiata una capacità più deduttiva, didascalica, immediata, visuale. Ogni soprannome è la tessera d’ingresso a una comunità esclusiva: se non hai un soprannome non sei nessuno, o almeno non sei parte di un gruppo. E chi va in giro in gruppi? Qual è il corrispondente animale più vicino a una squadra di calcio? Una mandria? Una muta? Uno stormo?

Nella capacità di attribuire ai calciatori le virtù degli animali, Esopo agli argentini lucida le scarpe tutte le mattine. La poesia sta tanto nel concepimento quanto nell’accettazione più o meno supina del soprannome. Perché è vero che alcuni sprizzano machismo e potenza da tutti i pori, come i "tori": Cavenaghi, Lautaro Martínez o Acuña; o atletismo e eleganza nelle forme come i "levrieri": Schelotto e Dezotti. Ma poi ci sono "scimmie", "topi", "ratti", a altri animali meno edificanti nell’immaginario comune, dalle connotazioni negative.

Convivere con questi soprannomi è una scelta esclusiva. Javier Saviola, che era soprannominato “el conejo”, il coniglio, è stato battezzato così da Germán Burgos - che a sua volta era “el mono”, la scimmia - perché sembrava spuntare fuori da tutte le parti, come una lepre, e allo stesso modo era complicato mettergli un guinzaglio, o un cappio al collo.

Filiforme, lunghe leve, il prototipo perfetto del Levriero, anche se col pelo poco lucido da portarlo a una Grande Esposizione Canina.

Più statici, per antonomasia, ma non per questo meno inclini ai sentimenti, anche i vegetali hanno una folta rappresentanza nei campi di calcio.

Il caso più eclatante forse è quello del “Lechuga” Roa, portiere dell’Albiceleste a cavallo tra i due millenni, strettissimo osservante di una ferrea dieta vegetariana. Di un vegetale non puoi ricalcare la personalità: o meglio, non sarebbe un motivo di troppo vanto. Puoi però suscitare gli stessi suoi effetti, come Cristian "Cebolla" Rodríguez, che delle cipolle ha la capacità di strappare lacrime (o l’ingenuità: sono ingenue, le cipolle?).

Quella voglia di scherzare

Contro un soprannome si può combattere. Incarnandone appieno ogni sfumatura, portandolo all’apoteosi e quindi, di fatto, alla desemantizzazione.

Víctor Javier Müller, centravanti esploso nel Colón de Santa Fe a metà degli anni ‘90, era soprannominato “Carucha”, che tradurremmo come “faccino”: non aveva il glam del “Facha” Bartelt, decisamente no, ma bello e brutto non possono essere categorie assolute: assocereste mai la parola “brutto” a qualcuno capace di fare questo capolavoro di stupore?

Juan Román Riquelme e Franco Vásquez condividono il soprannome di “Mudo”. Entrambi, con le parole, hanno sempre avuto un rapporto massimamente complicato: dal carattere introverso, che non significa timido, restii a raccontarsi eppure capaci, soprattutto Riquelme, di riempire le poche parole dispensate di quell’arcignità che solo i manganelli riescono ad avere. D’altronde non serve essere veloci con i piedi, basta esserlo con la testa.

Tweet Mudo.

Oppure, remando in senso inverso, spogliandolo di ogni stratificazione, sbucciandolo come un baccello di fave a primavera, un soprannome può diventare un contenitore vuoto, una ripetizione di suoni esclusivamente evocativa.

Fernando Gago, per la sua personalissima inclinazione all’impeccabile presentabilità, è stato soprannominato “Pintita”, che significa bellezza, anche se in campo ha sempre proffuso - oltre a una tecnica ineccepibile - sforzi agonistici sovraumani che in qualche modo cozzavano con la signorilità un po’ snob dell’estetica del signorino che si aggiusta continuamente i capelli lunghi mentre gioca.

Un soprannome è sempre goliardico, se non iperbolico. Bergessio, poco prima di attraversare l’Oceano per firmare col Benfica, quando era ancora un ragazzino che non aveva imparato a indossare l’armatura e scendere in campo travestito da Juggernaut, aveva i capelli molto chiari. Un giorno si presentò all’allenamento e gli chiesero se casomai si fosse messo la candeggina in testa, "lavandina".

Così come Alejandro Domínguez, che quando passò dal Lanús al Quilmes in Segunda e spingeva al massimo in allenamento per guadagnarsi un posto in squadra, venne ribattezzato dal resto della rosa "Choripán", che è il panino con il salame classico della tradizione del cibo in strada argentino perché era pesante e compatto alla stessa maniera (a Milano lo avrebbero chiamato "Salamella"?).

La materia di cui è fatta la goliardia è un mèlange di provocazione, brillantezza, creatività. Tanto che il soprannome "Loco" finisce per sembrare quasi una caduta di stile, la manifestazione di una rinunciazione al potere della fantasia. Si fa presto, a dare a qualcuno del loco: per le sue idee, per le scelte che compie in campo, per quelle che ne caratterizzano la vita fuori. Ma la maniera in cui era loco René Houseman è diversa dalla pazzia di Gatti, di Palermo o di Bielsa.

Uno dei primi matti è stato Oreste Omar Corbatta. Vorrei dire che fu il capostipite dei locos, ma sarebbe ingeneroso: in un certo senso ha cercato di schivare il sibilo di quell’apodo infamante, senza rivendicazioni, senza accondiscendenza. Corbatta aveva una faccia da attore di Hollywood, o da scrittore spiantato che vive di espedienti, a da un’efficace sintesi delle due cose. Non capisco se somigli di più a James Dean o a Emanuel Carnevali.

A Corbatta dicevano fosse loco perché era diverso dagli altri. Era analfabeta, ma non in quella maniera di ritorno di cui viene mossa accusa ai calciatori di oggi. E se ne vergognava, e ne era triste. Quando i compagni, nello spogliatoio, commentavano le notizie dei quotidiani si sentiva male, diceva. Quando i giornalisti arrivavano fuori dal campo di allenamento faceva finta di leggere i giornali.

Però era loco anche in campo, dove faceva giocate arditissime. Con la squadra dei "Carasucias", delle facce sporche, dei ragazzacci di strada Humberto Maschio, Antonio Angelillo e Omar Sivori vinse la Coppa América del ‘57.

Nell’ottobre di quell’anno, mentre giocava a La Bombonera contro il Cile una partita di qualificazione ai Mondiali di Svezia, segnò una delle reti più belle della storia del calcio argentino, la più bella in assoluto, fin quando non fosse arrivato il Gol Del Secolo.

Anche senza immagini in movimento, anche senza il racconto di Hugo Morales: Corbatta dribbla due avversari, va incontro al portiere e lo irride, si ferma, accenna un movimento e invece si scansa per lasciar sfilare alle sue spalle l’ennesimo difensore, si ferma ancora una volta. Sulle gradinate il pubblico ha le palpitazioni. Tentenna ancora un po’, con la tracotanza dei pazzi, prima di metterne a sedere altri due, e depositare la palla in rete.

Non venne mai a giocare in Italia, al contrario dei suoi commilitoni. E la sua vita finì per annegare nel brodo malmostoso dell’alcolismo, e della depressione. Però si portò in dote una serie di altri apodos, come "El dueño de la raya", il padrone della fascia, o "El Garrincha argentino".

In un gioco in cui la pazzia, l’imprevedibilità, l’incontenibilità sono attributi mitici, un loco si eleva al rango dell’aristocrazia dei vari "Principi" e "Principini", "Marescialli" e "Viceré".

Quando decidiamo che nome dare ai nostri figli, o ai nostri cani, stiamo facendo molto di più che scegliere a quale successione sonora vogliamo risponda: in qualche modo onirico, con una ricercatezza che appartiene alla sfera della prefigurazione, vorremmo imprimere un’identità.

Ma c’è un meccanismo ancora superiore, a livello comunitario: quello della soprannominazione. Che è sempre, in una maniera o nell’altra, la constatazione che stiamo accettando qualcuno come uno di noi. Conferendogli una carica, burlandoci di lui, avvicinandolo a qualcosa, o qualcuno, a cui somiglia. O a cui, inconsciamente, finirà comunque per somigliare.

Ogni soprannome è anche un’eredità da coltivare. Si tramanda di padre in figlio, di nonno in nipote. Ti conviene fartelo piacere. Anche se un legame con tuo padre, specie quando è bagnato dalle sacre acque della trasmissione per osmosi del talento, c’è davvero qualcuno capace di rifiutarlo?

Per questo anche casomai dovessi smettere di fumare, e di tenere toscanelli tra le dita quando mi siedo, la sera d’estate, su una terrazza della casa in campagna, per qualche strano motivo, non smetterò mai di essere, di sentirmi, Tabacchino.

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