Se non siete particolarmente giovani, probabilmente avrete memoria dei Minnesota Timberwolves del 2004, la squadra di Flip Saunders e di Kevin Garnett in formato MVP, unico di sempre a vincere il premio con questa maglia. La squadra da 58 vittorie in regular season e poi finalista di conference, entrambi record per una franchigia che nella sua storia, al di fuori di quell’anno, non ha vinto una singola serie di playoff.
Da allora, in un’estenuante via vai tra staff tecnico e front office, il lungo inverno della Minneapolis cestistica è sembrato non finire mai, con tredici primavere consecutive trascorse a guardare la post-season da spettatori. Poi, un barlume di luce: ai Rookie of the Year del 2015 e 2016, Andrew Wiggins e Karl-Anthony Towns, si uniscono Jimmy Butler e Tom Thibodeau, ed ecco il tanto atteso ritorno ai playoff. Ma svanisce tutto molto presto: lo spogliatoio implode, Butler saluta (non proprio amichevolmente) dopo una sola stagione e per la franchigia arrivano altri tre anni di lungo inverno, nei bassifondi della Western Conference.
Tutto questo dovrebbe bastare per dare una dimensione di quanto sia stato faticoso tifare Minnesota negli ultimi tempi. E perché, quindi, i Timberwolves del 2022 - una squadra divertente da guardare, che ha raggiunto i playoff sopravvivendo al Play-In e ha creato più di qualche problema a Memphis nel primo turno – abbiano conquistato i cuori dei tifosi del Target Center. Come non accadeva da tempo, alimentando l’entusiasmo e, inevitabilmente, le aspettative per la stagione 2022-23.
Il resto l’ha innescato la trade per Rudy Gobert, che ha stravolto il paesaggio all’interno dell’organizzazione e ha portato la squadra ad autoproclamarsi un championship-or-bust team. E se a dirlo è il giocatore più rappresentativo della franchigia, non si può chiedere a una tifoseria con un background simile di avere ambizioni prudenti. Al record di vendite degli abbonamenti, però, hanno fatto seguito tre mesi di regular season in cui l’euforia si è trasformata rapidamente in un misto di disillusione e frustrazione, per poi tornare a guardare con ottimismo all’annata.
Nonostante il calendario più accomodante dell’intera NBA, Minnesota in classifica ha fatto dentro e fuori dalla zona play-in ed è nella mediocrità della lega sia per efficienza offensiva che difensiva (esattamente 112.6 punti segnati e concessi su 100 possessi, 18esimo e 13esimo dato in NBA). Al di là dei risultati raccolti con un record di 22-22, però, a destare preoccupazioni sono i margini di miglioramento di questo nucleo; preoccupazioni che diventano angosce se il metro di giudizio sono le aspettative di inizio anno, e se il contrappeso sulla bilancia è l’enorme sacrificio di asset compiuto in estate.
Ponendola nei termini di KAT, Minnesota ad ora sembra flirtare più con bust che con championship. La squadra dell’anno scorso, però, ha insegnato il valore della pazienza; e con un gruppo che ha ancora pochissimo vissuto condiviso e il cui cambio di identità sta richiedendo fisiologicamente del tempo, hanno avuto ragione coach Chris Finch e il General Manager Tim Connelly quando hanno chiesto calma nei giudizi e fiducia nel processo, di fronte a un pubblico che ha fatto piovere i boo dagli spalti nei primi momenti di difficoltà. È pur vero che certe sere è stato difficile mantenere un’equilibrata visione a medio termine: ad esempio in occasione di due deprimenti sconfitte contro New York e San Antonio, serate in cui il primo problema è stato «un atteggiamento sorprendente, deludente e francamente inaccettabile» a detta di Connelly.
Al netto delle ultime settimane in cui qualcosa ha cominciato a girare per il verso giusto, il potenziale di questo roster sembra schiantarsi dove iniziano i suoi limiti strutturali. Con un margine di manovra che è letteralmente evaporato l’1 luglio scorso, la data spartiacque, quando i T’Wolves hanno lanciato le fiches sul tavolo in un all-in largamente disapprovato dal resto della NBA (lo ha raccontato Zach Lowe di recente nel suo podcast), e in controtendenza un po’ con tutto. Con le caratteristiche dei propri migliori giocatori, con il credo cestistico di coach Finch e con le sicurezze dell’anno scorso; ma anche con la direzione di una lega sempre più small e votata allo spacing, e con il progetto della precedente gestione di Gersson Rosas e Sachin Gupta.
Genesi dei “Twin-berwolves”
La prima importante mossa di Connelly, arrivato a maggio dai Denver Nuggets, è stata una sorta di redenzione - a peso d’oro - del suo primo peccato da dirigente NBA, risalente al Draft del 2013, quando scambiò Gobert (selezionato con la 27esima) per la scelta numero 48 e un compenso economico. Nove anni e un’infinità di rimpianti dopo, per arrivare al centro francese ha ceduto Malik Beasley, Patrick Beverley, Jarred Vanderbilt, Walker Kessler, Leandro Bolmaro, quattro scelte al primo giro (tre delle quali non protette) e una pick swap. Un pacchetto mastodontico, che ha sottratto parecchio all’ossatura della squadra e alle sue prospettive future.
Prima di tutto, cedere un capitale di scelte del genere desertifica gli asset spendibili sul mercato e ha un gravoso impatto a lungo termine su una franchigia che non gioca né a Los Angeles, né a New York, e che quindi deve cercare nel Draft le proprie opportunità di miglioramento. Aggiungendo a ciò il contratto che Gobert porta in dote (124 milioni di dollari fino al 2025, con un’opzione in suo favore per la stagione successiva), l’estensione già firmata da Towns e quelle in arrivo per Anthony Edwards e Jaden McDaniels, da un precedente regime di flessibilità si è passati improvvisamente a un ingorgo salariale.
Quanto al campo, le partenze di Beasley, Beverley e Vanderbilt hanno creato dei vuoti difficili da colmare in termini di personalità, energia, difesa e pericolosità perimetrale. La mancanza di una leadership forte e riconosciuta all’interno dello spogliatoio è parsa evidente in più di un’occasione negli ultimi mesi. Intermittenza dell’impegno, esternazioni di frustrazione o di completo distacco, incapacità di reagire ai momenti difficili e una diffusa passività emotiva sono state all’ordine del giorno al Target Center. Coach Finch a inizio anno ha detto di aspettare che qualcuno si erga a tone setter del gruppo: qualcuno che dia l’esempio e tenga tutti sull’attenti, che aiuti la squadra a scendere in campo con la giusta mentalità per 82 partite e per 48 minuti (inclusi quelli dopo l’intervallo, in cui Minnesota incassa sistematicamente dei parziali). Qualcuno che dia la scossa ai compagni, insomma. Senza girarci intorno, qualcuno che riempia il vuoto lasciato da Beverley e Vanderbilt.
Russell che non si accorge di essere in campo e lascia giocare un possesso 4 contro 5 ai suoi compagni (Shaqtin-a-Fool-instant-classic!), e poi Edwards che si prende un possesso di riposo in modo polemico e più che plateale: due indicatori inquietanti dello stato di salute dello spogliatoio a inizio anno.
A mancare di Pat e Vando, però, non è solo il carattere, anzi. La difesa perimetrale e l’energia a rimbalzo che garantivano alla causa ogni sera stanno mancando enormemente, e la seconda è una carenza collettiva preoccupante, considerando l’aggiunta sotto ai tabelloni di Gobert. I T’Wolves finora sono una delle peggiori squadre per percentuale di rimbalzi offensivi concessa, principalmente per la mole spropositata di seconde occasioni lasciate agli avversari sulle 50-50 balls che cadono a più di due metri dal ferro. Finch ha puntato il dito contro la scarsa reattività delle guardie, e Edwards il mese scorso ha ammesso le colpe del suo reparto: «A volte guardiamo la palla e non facciamo niente per andarla a prendere: dobbiamo mettere un’altra energia a rimbalzo, io per primo».
Offensivamente, il vuoto lasciato sul perimetro dalle partenze di Beverley e soprattutto Beasley si è rivelato un bagno di sangue. Minnesota al momento è alla disperata ricerca di tiratori affidabili e pericolosi lontano dalla palla – soprattutto considerando che Bryn Forbes, unico specialista firmato l’estate scorsa, sta disputando la peggior stagione della sua carriera. Le 8.1 triple a partita tentate l’anno scorso da Beasley (convertite con un ottimo 37.8%), sommate alle 4.2 di Beverley (34.4%), contribuivano enormemente a rendere i T’Wolves la squadra più prolifica dall’arco di tutta l’NBA; ora, invece, sono abbondantemente sotto la media per numero di tentativi (31.5 su 100 possessi) e precisione (34.6%).
La missione di Finch è trovare, al netto di tutti questi sacrifici, il modo per ottimizzare ciò che è stato ottenuto in cambio. Un tre volte Difensore dell’Anno e sei volte All-Defensive First Team, la Presenza con la P maiuscola nei pitturati NBA; ma, allo stesso tempo, un centro poco duttile, che ha cambiato contesto tecnico per la prima volta dopo aver compiuto i 30 anni e che non può essere, per caratteristiche, un’integrazione semplice all’interno di un sistema. Figurarsi al fianco di un altro lungo, per quanto versatile offensivamente come Towns.
Ciò che sappiamo per certo dopo mesi di rodaggio è che servirà ancora del tempo, nella migliore delle ipotesi, per far fruttare «la più grande scommessa sulle dimensioni nella storia recente dell’NBA», prendendo in prestito l’espressione di Kevin O’Connor di The Ringer. Mettere insieme tutti quei chili sul parquet, stravolgere l’identità offensiva e difensiva della squadra e forzarla a interiorizzare diverse filosofie ha prodotto, finora, più bassi che alti.
Alcune sfortunate contingenze, va detto, non sono state d’aiuto. Prima l’assenza di tempo per lavorare con le “Twin Towers” nel training camp, con Gobert di ritorno da EuroBasket e Towns da un’infezione respiratoria; poi una lunga serie di infortuni e i continui cambiamenti nelle rotazioni. Il tempo, in ogni caso, è dalla loro parte, con una classifica a Ovest ancora compatta e poco meno di metà stagione. Ma fino a che punto l’esperienza e gli aggiustamenti potranno sopperire alle disfunzionalità di questo roster?
La nuova difesa Gobert-centrica
Con il francese in campo, la squadra di Chris Finch ha concesso finora 109.8 punti su 100 possessi agli avversari, che scendono a 91.4 considerando solo quelli giocati a difesa schierata. Dati di livello assoluto, che contengono tutte le nuove sicurezze acquisite con Gobert, ma anche qualche incertezza. La zona in cui l’impatto di Rudy è più evidente, ovviamente, è il pitturato. I suoi 216 centimetri e le sue doti da rim protector rendono la vita difficile a chiunque nei pressi del ferro (-3% effettivo per la difesa dei Wolves nei minuti con lui in campo) e fanno del francese una tangibile forza deterrente. Lo conferma il calo vertiginoso - dal 39% al 30% (ovvero dall’85esimo al quarto percentile!) quando l’ex Utah è in campo - nella frequenza dei tiri avversari negli ultimi due metri di campo.<
Potreste chiedere ai Pacers e ai Cavaliers, ad esempio, quanto sia difficile segnare al ferro contro Gobert.
La presenza di Gobert in difesa, però, limita la gamma di opzioni percorribili e richiede a chi lo circonda degli adattamenti, ad esempio alzando lo standard di attenzione lontano dalla palla. La strategia difensiva più congeniale alle sue qualità, infatti, è la drop coverage, ovvero il posizionamento del lungo sotto alla linea del blocco, a protezione del pitturato. Un sistema masterizzato negli anni a Salt Lake City, durante i quali nessuno in NBA ha difeso più pick and roll di Gobert in questo modo; ma un sistema che, in ogni caso, presenta pregi e difetti.
La presenza di buoni difensori sul punto di attacco e una diffusa capacità di navigare i blocchi (nel caso di Minnie, dunque, non la specialità di Russell, Nowell e Forbes) sono dei requisiti fondamentali. E la vulnerabilità contro le guardie più pericolose dal palleggio e contro i lunghi nel pick & pop rappresentano due comprovati limiti. Soprattutto in ottica playoff, quando le squadre tendono a pagare maggiormente debolezze del genere.
Non è un caso che due centri con ampio range di tiro come Kristaps Porzingis (6/10 da tre) e Myles Turner (11/15 in due partite) abbiano banchettato contro la drop coverage di Minnesota.
Rispetto al pre-Gobert, quando la strategia predominante era un high wall con i lunghi che salivano all’altezza del blocco, è un cambiamento radicale, che richiede nuovi automatismi e quindi tempo per familiarizzarci. «Stiamo mettendo da parte la memoria muscolare», ha spiegato Finch di recente, «e provando ad acclimatarci al nuovo sistema». Un processo, tra l’altro, complicato anche dalla tendenza a ripristinare le abitudini difensive dell’anno scorso nei minuti senza Gobert. «Dobbiamo imparare come giocare con Rudy, e poi farci trovare pronti quando è fuori: è tutto estraneo per noi», ha commentato D’Angelo Russell.
Un’altra significativa novità causata dall’arrivo di Gobert, anch’essa preoccupante in ottica post-season, è l’utilizzo difensivo di Towns. Fino all’infortunio, KAT ha passato quasi il 60% del suo tempo giocando da 4 e condividendo il campo con il francese, mostrando spesso delle difficoltà con i nuovi compiti difensivi. La visione di Finch, comunque, è chiara: it’s a work in progress. E dunque, più minuti possibile alle lineup con i due lunghi, anche nelle partite in cui staggerarli è sembrata chiaramente la soluzione più funzionale.
Dal canto suo, Towns ha mostrato fin dal primo giorno una lodevole predisposizione di fronte al cambiamento del ruolo. L’ennesimo nella sua carriera, in attacco e in difesa: «Negli anni ho stravolto il mio gioco tante volte, più di qualsiasi altra stella della lega», dice KAT, ricordando di aver avuto quattro capo-allenatori diversi (con filosofie agli antipodi) in sette stagioni. «E la cosa più importante che ho imparato è saper accogliere ogni cambiamento».
Ciò nonostante, tra la teoria e la pratica rimane una certa distanza, almeno nel caso specifico. Per stare in campo insieme a Gobert, il dominicano è chiamato a marcare ali più rapide e leggere di lui, inseguendole sul perimetro, navigando blocchi e facendo closeout sui tiratori: un compito molto dispendioso e in cui ha mostrato tutti i limiti di mobilità imposti dalla sua taglia. I quasi 4 falli a partita ne sono il fisiologico risultato, così come l’indebolimento di diverse aree della difesa di Minnesota: in transizione (ultimissima in NBA per efficienza a 134.2 punti concessi per 100 azioni) e ancor di più sul perimetro (24esimo posto per volume e penultimo per percentuale dall’arco degli avversari, ultimo per triple “wide open” concesse).
Il salto di qualità difensivo auspicato dal front office con l’acquisizione di Gobert, insomma, si è visto a intermittenza fino ad ora, e il sistema ha mostrato delle fragilità. Per farsene un’idea definitiva è però necessario attendere. La familiarità e la reciproca conoscenza tra i giocatori, insieme a un giro di vite all’effort lontano dalla palla e a rimbalzo, potrebbero bastare a coach Finch per avere una delle migliori difese della Conference, quantomeno in stagione regolare.
Un attacco da ripensare
Se il basket fosse una semplice somma di talento, Minnesota offensivamente sarebbe messa piuttosto bene. Tre guardie con le doti realizzative di Russell, Edwards e Nowell, unite a un lungo dal talento smisurato come Towns e una minaccia nel pitturato quale Gobert, e intorno a loro un nucleo di role player che si stanno dimostrando sempre più affidabili, in primis McDaniels, ma anche Prince, Anderson, Reid e McLaughlin. Non è poco, soprattutto con una mente come Chris Finch ad orchestrare il tutto. Non sempre, però, l’addizione del talento corrisponde ai risultati. E qui vengono le note dolenti: la chimica conta, e ancora di più come si amalgamano le caratteristiche dei singoli.
La stagione è iniziata con il diktat di coinvolgere offensivamente Gobert, per evitare che finisca «sottoutilizzato come nei Jazz», dice Towns. Proprio KAT è stato il primo a prendere in carico tale dettame mettendosi al servizio della causa, agendo da stretch-4 e da facilitatore offensivo, e mostrando costante applicazione nel cercare il francese.
Sui 66 canestri segnati da Gobert nel primo mese a Minneapolis, 25 sono arrivati su un passaggio di Towns, che al momento sta facendo registrare il suo career-high per assist a partita (5.3).
Nelle prime settimane coach Finch ha esplorato qualche ricezione in post e al gomito per il francese, poi il numero dei suoi tocchi si è ridotto e il suo coinvolgimento si è registrato in prevalenza come bloccante. Sulla palla, nei pick and roll con Russell, Edwards e Nowell; o lontano da essa, principalmente per liberare spazio a Towns ed Edwards. Complessivamente, però, il risultato finora è stato, senza mezze misure, un disastro. Con Gobert sul parquet, i Wolves segnano la miseria di 108.3 punti su 100 possessi, un dato che proiettato su 48 minuti li posizionerebbe all’ultimo posto nella lega.
Per questioni strutturali, la transizione offensiva ha perso parecchio rispetto all’anno scorso, sia in termini di frequenza che di efficienza. E a metà campo le cose non vanno meglio, anzi. Il quintetto base Russell-Edwards-McDaniels-Towns-Gobert ha mostrato spesso un gioco stagnante, senza ritmo e con poco movimento di palla; ha prodotto tonnellate di palle perse (il 19% sul totale dei possessi), pochi canestri assistiti e pessime percentuali da fuori. E, cosa ancora più grave, si è dimostrato incapace di esaltare – o quantomeno di non soffocare – le qualità dei giocatori più talentuosi a roster.
La cannibalizzazione di KAT
Se la stagione era partita con l’intenzione sbandierata da coach Finch di «stare attenti a non cannibalizzare il giocatore che è KAT», i primi due mesi hanno lasciato molte perplessità su come il dominicano possa trovare una propria dimensione funzionale a questo roster senza sacrificare eccessivamente le sue qualità da realizzatore.
Attualmente la produttività offensiva di Towns, fatta eccezione per la voce relativa agli assist, è ai minimi storici sotto ogni punto di vista: punti a partita, tasso di “utilizzo” dell’attacco, volume di tiro, percentuali. E l’assertività della scorsa stagione si è vista solo a sprazzi nel primo mese e mezzo. Cercando di coinvolgere più possibile Gobert e accelerare la sua integrazione, l’impressione è che KAT abbia faticato a trovare il proprio, di posto. E come lui anche Naz Reid, che in assenza del francese - e dunque potendo agire da 5 - mostra con più facilità il meglio del suo repertorio offensivo, come nella recente vittoria contro Cleveland in cui ha divorato il ferro con una serie di schiacciate impressionanti.
Se è vero che un periodo di adattamento era preventivabile e che i due stop per problemi fisici non lo hanno certamente aiutato, la percezione è che il talento di Towns sia effettivamente a rischio di cannibalizzazione. KAT ha passato molti, anzi troppi possessi sul perimetro a guardare dei pick and roll e, sostanzialmente, dare ossigeno alle spaziature. Che sia tecnicamente in grado di farlo e che abbia dimostrato un’apprezzabile predisposizione è un dato di fatto; che sia il modo migliore per sfruttare il suo talento, invece, è tutto un altro discorso. «Ogni volta che sono in campo, cammino su una linea sottile», ha raccontato. «Cerco di lasciare spazio e coinvolgere gli altri, di non interrompere il flow dell’attacco, ma allo stesso tempo di non perdere aggressività». Più facile a dirsi che a farsi.
Ant e D-Lo: playmaking cercarsi
Anthony Edwards si è affacciato con enormi aspettative a questa stagione, ma anche nel suo caso le cose non sono andate nella direzione auspicata dal primo giorno, anzi. Quantomeno, non con la continuità che in molti, al suo terzo anno nella lega, davano ormai per scontata. La prima scelta assoluta del 2020 ha mostrato dei segnali di crescita e giocato diverse ottime partite, a volte anche in entrambe le metà campo, ma la sua annata è stata un continuo sali e scendi. Da un punto di vista tecnico e non solo. E tutto sommato, ce lo si può aspettare da un ragazzo appena 21enne.
Ad Ant il coaching staff ha chiesto mansioni diverse da quelle della passata stagione. A cui, a dire il vero, non sempre ha risposto con entusiasmo. Ha commentato così, ad esempio, il maggior comfort dimostrato nella prima stagionale con un quintetto piccolo intorno: «The smaller we go, the better is for me». Potete immaginare, considerata la direzione intrapresa in estate dalla franchigia, con quanto piacere la dirigenza avrà ascoltato la propria futura stella pronunciare queste parole; oppure la spiegazione che ha fornito sulle zero schiacciate nelle prime due settimane: «L’area è piena, e io ho non ho il fisico di Giannis».
Partiamo da quanto era noto già dopo la scorsa stagione, ovvero dalla complementarietà imperfetta (eufemismo) di Edwards con il suo compagno di backcourt, D’Angelo Russell. D-Lo è una point guard con qualità associative molto circoscritte, che tratta a lungo la palla, gioca molti pick and roll e tende a creare prevalentemente per sé o per il bloccante. La sua stagione è iniziata in modo disastroso in entrambe le metà campo e sotto ogni punto di vista. Nelle ultime settimane, però, ha mostrato un’attitudine decisamente migliorata, cosa che ha avuto effetto immediato sul suo impatto difensivo; e in attacco ha limitato le palle perse, impennato le proprie percentuali al tiro (dal 31% da tre di inizio stagione al 46% delle ultime partite) e mostrato qualche accenno di chimica con Gobert.
Particolarmente incoraggiante è stata la risposta al recente cambio di ruolo richiesto a D’Angelo da coach Finch. Nelle ultime partite, infatti, Russell ha agito molto più spesso lontano dalla palla, lasciando più tocchi nei primi secondi e una buona parte dei compiti di playmaking a Edwards, e l’esperimento ha funzionato. Per un mese e mezzo lo stile ball-dominant dell’ex Warrior è sembrato mettere tremendamente fuori ritmo Edwards, che ha mostrato in diverse occasioni una preoccupante passività. A dicembre poi, di pari passo con il miglioramento della condizione fisica e della familiarità con le nuove geometrie offensive, Edwards ha avuto in mano le redini dell’attacco in un paio di partite senza Russell (e il lungodegente Towns), e da quel momento sembra iniziato un nuovo corso che lo ha rivitalizzato: «Prima stavo in angolo, pensavo più che altro a tirare; ora invece ho la palla molto più spesso, ed è fantastico per me, non mi sono mai divertito così tanto su un campo da basket», ha detto dopo i 37 punti e 11 assist (massimo in carriera) contro quello che resta dei Chicago Bulls. «E poi, D-Lo è un grande tiratore, gli ho detto di lasciarmi iniziare l’azione e di farsi trovare pronto in catch & shoot. E lo sta facendo alla grande».
Guardate questi due passaggi in situazione di pick and roll, arrivati dopo un primo tempo in cui Edwards aveva ripetutamente mandato il rollante a schiacciare. Se diventassero la normalità, letture del genere rappresenterebbero un enorme miglioramento per il suo gioco e l’attacco di Minnesota.
La sfida sarà confermare tutto ciò al rientro di Towns dall’infortunio, e nel frattempo continuare a maturare nelle letture e lavorare sull’intesa con Gobert, altro aspetto in cui si vedono spiragli di luce. Nel primo mese di stagione, la presenza di Rudy aveva reso davvero difficile per Edwards trovare la via del canestro, al di là dell’astinenza da highlights sopra al ferro; e soltanto quattro volte su 125 possessi la guardia era riuscita a recapitare la palla al francese in situazione di pick and roll.
Non è una novità: il range di tiro di Gobert non è quello di Towns e Reid, e nemmeno di Vanderbilt, il che impatta sulle spaziature offensive e accorcia i tempi di lettura richiesti. Edwards è parso a lungo smarrito in tutto ciò, e il suo talento oppresso dalla carenza di spazi. Col passare delle settimane, però, ha mostrato flash sempre più frequenti sia nell’attaccare il canestro che nel trovare Gobert dopo un blocco.
Andando al ferro contro i centri avversari (Adams, Embiid, Kessler e Wood) dimostra tutto il suo mix di qualità fisiche, atletiche e tecniche. Edwards ha i mezzi per trovare la via del canestro anche in spazi intasati.
«Prendere le misure, abituarsi, imparare dove e come passargli la palla», ha detto coach Finch sull’intesa delle guardie con Gobert.
Il definitivo salto qualitativo che in molti si aspettavano da Ant, insomma, non è arrivato in un colpo solo, con il nuovo anno. E il contesto non ha aiutato in questo. La sua crescita di settimana in settimana, però, è sotto gli occhi di tutti, e una maturazione come playmaker è proprio lo sviluppo che i Timberwolves stavano aspettando. “Ha 21 anni e non smette di parlare”, ha detto di recente Austin Rivers. “Può sembrare assurdo, ma è a cinque o sei anni dal suo prime, ed è già a questo livello. È il nostro uomo-franchigia”. Non dice il falso il figlio di Doc: da un mese a questa parte, Edwards semplicemente è stato il lupo alfa, il capobranco.
Alla ricerca di soluzioni per rendere più fluido l’attacco, tra l’altro, coach Finch aveva trasferito a Kyle Anderson una parte delle responsabilità in cabina di regia; e “Slow-Mo” aveva risposto egregiamente, grazie alle sue doti come passatore e al suo affidabile decision-making, toccando addirittura quota 12 assist (7 nel solo quarto periodo) contro gli Utah Jazz. In particolare Anderson sembra in campo con il preciso compito di trovare il modo di coinvolgere Gobert il più possibile: solo Russell (40) e Towns (27) hanno dato più assist al francese di Slow-Mo (23).
Come point guard in uscita dalla panchina, poi, il contributo di Jordan McLaughlin (assente da più di un mese per infortunio) è stato molto solido in stagione, tanto da essere in assoluto il membro del roster con il differenziale più alto (+19.1 su 100 possessi) tra i minuti con e senza di lui. Al netto di percentuali bassissime nel tiro da fuori, il suo stile di gioco fatto di decisioni rapide e condivisione della palla ha un impatto positivo sull’attacco di Minnesota; e difensivamente, la sua rapidità nell’inseguire sui blocchi lo rende adatto alla difesa in drop implementata con Gobert.
I limiti al tiro di Anderson e McLaughlin, però, in post-season potrebbero rivelarsi onerosi per l’attacco a metà campo. E se il primo ha grande versatilità difensiva, JMAC presenta anche dei problemi di taglia difficili da nascondere nei playoff. Tutti buoni motivi per cui trovare una soluzione al problema playmaking all’interno del quintetto base, e quindi nella crescita di Edwards, è di incalcolabile importanza per coach Finch.
La responsabilizzazione difensiva di Ant
Anche nell’altra metà campo il paesaggio è cambiato per Edwards, e parecchio, rispetto a qualche mese fa. Le partenze di Beverley e Vanderbilt lo hanno forzato a farsi carico più spesso delle migliori guardie e ali degli avversari: un compito di cui è all’altezza, come ha dimostrato in diverse occasioni, ma stancante fisicamente (soprattutto in regime di drop coverage) e interpretato fin qui con una dedizione altalenante.
Se avete guardato un po’ di partite dei Timberwolves, vi sarà capitato più di qualche volta di vederlo disattento e poco reattivo sul lato debole, concedendo dei tiri ad alta percentuale gratuiti agli avversari. Un difetto del suo gioco per cui, auspicabilmente, si deve aspettare che la sabbia scorra nella clessidra.
Sulla palla, invece, Ant sta confermando quanto aveva dimostrato di poter essere già l’anno scorso, grazie a un pacchetto completo di forza fisica, mobilità e atletismo. Edwards è un difensore più che affidabile, anche contro le migliori guardie della lega. Anzi, il problema è quasi il contrario: mantenere alto il livello anche contro chi lo stimola meno, per sua stessa ammissione.
Una serie di possessi in cui, fronte e spalle a canestro, Edwards ha dato prova di tutte le sue qualità difensive.
McDaniels, semplicemente insostituibile
Ultimo, ma assolutamente non per importanza, è il caso di Jaden McDaniels. Nelle 26 partite in cui è stato in campo 30 o più minuti, i Timberwolves hanno raccolto 16 vittorie e 10 sconfitte; quando è stato per meno tempo sul parquet o in sua assenza, invece, sono arrivate 10 sconfitte in 15 gare. Una discrepanza abissale, tutt’altro che casuale.
McDaniels è l’unico giocatore del quintetto che numericamente ha un impatto positivo sia sull’attacco che sulla difesa di squadra, eppure è il meno utilizzato da coach Finch. Una scelta forzata dai suoi frequenti problemi di falli: 3.4 a partita, uno dei dati più alti della lega, nonostante un minutaggio di soli 30.6 minuti. Il vero tallone d’Achille di un 22enne che ha scritto All-Defensive Team nel proprio destino.
Per il resto, se volete trovare dei difetti nella sua difesa… buona fortuna. McDaniels è almeno nell’85° percentile tra le ali NBA per un’infinita lista di voci statistiche, tra cui: stoppate, palle rubate, deviazioni, triple contestate, percentuali al ferro degli avversari (sia in assoluto, sia rispetto al dato atteso), metri percorsi e difficoltà media dei matchup.
McDaniels ogni sera scende in campo e difende sul miglior giocatore degli avversari, dalle point guard più rapide alle ali più fisiche. In stagione si è preso carico personalmente, e quasi sempre con ottimi risultati, di Morant, Garland, Doncic, Haliburton, Kawhi, LeBron e Markkanen. Una collezione di archetipi diversi, in pratica: oro colato per un roster che ha bisogno come l’ossigeno di difesa perimetrale, versatilità negli accoppiamenti e flessibilità nelle rotazioni, nonché di qualcuno che consenta di alleggerire il carico difensivo di Edwards e di nascondere Russell più facilmente.
McDaniels combina doti rare per un giocatore delle sue dimensioni (205 centimetri di altezza e 212 di apertura alare): mobilità laterale, reattività sui cambi di direzione e velocità, intensità, verticalità, tempismo in aiuto e nelle stoppate, buoni istinti sulle linee di passaggio, capacità di navigare i blocchi e contestare ogni tiro.
A tutto ciò, McDaniels sta affiancando nel tempo una dimensione offensiva sempre più eterogenea. La rispettabilità per le difese avversarie del suo tiro da fuori (salito al 39% in stagione), nonostante un volume ridotto, è essenziale per essere funzionale al contesto. Inoltre, quest’anno sta mostrando evidenti progressi nella capacità di mettere palla per terra e concludere con efficienza sia al ferro (72%, 79° percentile tra i pari-ruolo) sia dal mid-range (44%, 74° percentile), a cui unisce eccellenti doti come tagliante, un’accresciuta capacità di usare il vantaggio fisico contro avversari di taglia inferiore, e dei flash non più episodici come creatore per se stesso. Un giocatore pericoloso, insomma, da lasciare libero sul perimetro, oltre che un difensore di livello elitario. Cosa volete di più da un role player?
Il nuovo coaching di Chris Finch
La squadra dell’anno scorso calzava a pennello per il basket “free-flowing” predicato da Chris Finch, basato su ritmi alti e ampia libertà d’azione per le giocate e le letture dei singoli. Ora invece, con un roster che sta costruendo la propria identità e che presenta tutte le disfunzionalità di cui si è parlato, è diventato necessario un maggior controllo di quanto accade nella metà campo offensiva.
Per funzionare, i Timberwolves hanno bisogno di muoversi come un orologio svizzero nelle esecuzioni dei propri giochi. Non per niente segnano 0.977 punti per possesso dopo un timeout o una pausa tra due quarti, un balzo in avanti rispetto al 18esimo posto complessivo dell’attacco a metà campo.
La logica conseguenza è un utilizzo più massiccio di set offensivi, in primo luogo nel tentativo di coinvolgere e valorizzare contemporaneamente le qualità di Gobert e Towns, utilizzando frequenti blocchi lontano dalla palla del primo per il secondo. Ecco un paio di soluzioni viste spesso in questi mesi.
Horns: Partendo dalla classica disposizione “ad A” sul campo (ball-handler in punta, due blocchi alti dei lunghi, e due tiratori aperti negli angoli), Finch vuole creare spazi per Towns e Gobert (talvolta anche Reid) sfruttando la triplice minaccia offensiva del primo e le doti da bloccante e rollante del secondo.
Spain pick and roll: aggiungendo un terzo giocatore al gioco a due (con un blocco verticale), Finch punta a generare qualche passaggio a vuoto di comunicazione delle difese avversarie e massimizzare la “gravità” dei lunghi coinvolti.
Vincere o andare a casa
Dopo aver vivisezionato le tante disfunzionalità dei nuovi T’Wolves, due cose dovrebbero essere chiare: la pazienza necessaria con questo progetto tecnico e la mole di incognite, tutte generate dell’all-in della scorsa estate, che ancora separa Towns e compagni dall’essere competitivi ad alto livello.
Trovarsi in questa situazione non è il massimo per una franchigia che ha decuplicato la posta in palio sui propri risultati nei prossimi tre anni. E oltre alle realistiche aspettative primaverili – Play-In? primo turno? – è la direzione intrapresa a destare perplessità. A partire dagli ostacoli, e forse i limiti, posti allo sviluppo di quello che dovrebbe essere il futuro della franchigia, Anthony Edwards; fino all’utilizzo di chi invece ne è il presente, Karl-Anthony Towns.
Le possibilità che Connelly e soci si muovano in modo importante sul mercato, al momento, sono ridotte. Tra i contratti in scadenza che possono avere appeal, Naz Reid è quello più sacrificabile e rappresenta una possibilità; in alternativa, si potrebbe ipotizzare una (improbabile) scossa al roster con una trade per D’Angelo Russell. Le sue prestazioni dell’ultimo mese ne hanno accresciuto il valore, che aveva toccato i minimi storici dopo i playoff del 2022 conclusi a osservare Jordan McLaughlin in campo nel quarto periodo di gara-6 contro Memphis, e le sue doti da realizzatore potrebbero attirare qualche squadra alla ricerca di un upgrade nel reparto guardie; il suo salario (31.4 milioni di dollari) e la carenza di scelte al Draft, però, rendono realistico solo uno scambio per un altro singolo contratto, oneroso e vicino alla scadenza. Se ne riparlerà, forse, a ridosso della deadline.
L’attuale quintetto base, comunque, è presumibilmente quello che finirà la stagione. A suggerirlo è la determinazione con cui cinque mesi fa la dirigenza ha scommesso su questo progetto, ma anche la penuria di tempo che il nuovo roster al completo ha avuto a disposizione. Connelly proverà a consegnare a Finch uno o due elementi low-cost, via trade o dopo un buyout (si è parlato di un possibile ritorno di Beverley, plausibile in caso di addio ai Lakers). In ogni caso, l’estate prossima D’Angelo sarà free agent e come lui anche Nowell. Allora, tendenzialmente, arriverà il momento per sedersi alla scrivania e prendere delle decisioni.
«It’s a win or lose league», come ci ha ricordato KAT. La finestra per competere che Minnesota si è costruita, a caro prezzo, è iniziata. Con la consapevolezza che non è eterna, che i giocatori e le scelte sacrificati per Gobert non torneranno, e che non esiste il diritto di reso in NBA. Ma questo, chi tifa Timberwolves, lo sa fin troppo bene.