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La sindrome dell'impostore degli atleti paralimpici
11 set 2024
La disabilità è uno spettro.
(articolo)
7 min
(copertina)
Foto di IMAGO / Beautiful Sports
(copertina) Foto di IMAGO / Beautiful Sports
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A 44 anni, nel meraviglioso quadro della reggia di Versailles, la finlandese Jonna Aaltonen si è classificata 11esima nel paradressage, una disciplina equestre paralimpica che consiste nel presentare il cavallo in un rettangolo di gara, con il quale si eseguono dei movimenti obbligatori alle tre andature, passo, trotto e galoppo. Si tratta di un risultato storico per la Finlandia: è la prima volta che il Paese riesce a portare una squadra di dressage alle Paralimpiadi. «Parigi non era solo il mio sogno, ma anche del team finlandese», ci racconta la cavallerizza.

Anche quella di Aaltonen è stata la prima partecipazione a una Paralimpiade. «Gareggio sin da piccola, e non voglio andare a cavallo se non posso competere. Dopo la malattia, non vedevo l’ora di tornare in sella, e mi sono impegnata per continuare a competere a un buon livello», spiega.Nel 2021, quattro giorni dopo la seconda dose del vaccino anti Covid-19, Aaltonen ha subìto effetti collaterali che le hanno fatto perdere la sensibilità al lato destro del corpo. Dopo le cure dei medici, l’atleta ha riacquistato buona parte della sensibilità, ma il suo corpo non è più stato quello di prima. Oggi soffre di una malattia al sistema nervoso che spesso le impedisce di avere il pieno controllo del proprio corpo, lasciandola stanca e con un costante dolore ai nervi. «Quando avevo 19 anni, sognavo di competere ad alti livelli, ma pensavo di non poterlo fare perché mi rendevo conto che i miei genitori non avevano la disponibilità economica necessaria per permettermi di arrivare a quei livelli», dice Aaltonen. «Ho gareggiato nel mio primo Gran Prix nell’anno del Covid, poi c’è stato il vaccino e ora sono alle Paralimpiadi».

Quella di Aaltonen è solo una delle oltre 4mila storie di atleti che, dal 28 agosto all’8 settembre, hanno gareggiato alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Quest’anno le discipline sportive sono state 22, sia individuali che di squadra, e spaziavano dal paraciclismo alla paratletica, passando per il judo paralimpico al sitting volley. Molti sport, poi, sono a loro volta suddivisi in categorie che tengono conto della disabilità dell’atleta e dell’influenza che questa può avere sulle prestazioni atletiche. Questo è il motivo per cui ad atleti con disabilità diverse può essere assegnata la stessa classe sportiva e possono quindi competere l’uno contro l’altro, spiega il Comitato paralimpico.

Nell’equitazione paralimpica, per esempio, gli atleti di “grado I” presentano gravi menomazioni che colpiscono tutti gli arti e il tronco, mentre quelli di “grado V”, come Jonna Aaltonen, hanno problemi alla vista, o cecità completa, o un range di movimento o forza fisica moderato, o una deficienza di un arto o una lieve a due arti.

Nella paratletica, invece, la suddivisione è un po’ più complessa essendo uno degli sport in cui competono atleti con tutti e tre i diversi tipi di disabilità previsti alle Paralimpiadi: motoria, visiva e intellettiva. La classificazione degli atleti è definita da una lettera e un numero: “T” per le gare di atletica e di salto, “F” per le gare sul campo, quindi i lanci. I numeri rappresentano invece le disabilità, che possono essere compromissione della vista, disturbi della coordinazione, protesi, disturbi della coordinazione e altre.

L'80% delle disabilità sono invisibili

Nonostante le diverse disabilità, nell’immaginario collettivo alle Paralimpiadi partecipano solo atleti amputati, su sedia rotelle o ciechi. Atleti che hanno, per dirlo chiaramente, una disabilità facilmente riconoscibile. «Oggi la società ha un’immagine della disabilità molto dura e un po’ patetica», dice Mathieu Thomas, giocatore francese di parabadminton e portatore della fiaccola olimpica. Il ventaglio delle disabilità è invece molto ampio e vi rientrano anche le disabilità invisibili. «Ci sono tantissime persone che oggi hanno una malattia invisibile e la nascondono», continua Thomas. «Il mio obiettivo è veramente muovere la società, rendere visibile l’invisibile, mostrare che siamo 10 milioni con una disabilità invisibile oggi in Francia». Il ministero della Trasformazione e della Funzione pubblica nel 2023 parlava infatti di 12 milioni di persone in situazione di disabilità in Francia, l’80% delle quali hanno una visibilità per l’appunto invisibile, non riconoscibile nell’immediato. Come Jonna Aaltonen, Mathieu Thomas fa parte di questa percentuale maggioritaria. Durante l’intervento per la rimozione di un cancro diagnosticato a soli 17 anni, i medici sono stati obbligati a sacrificare un importante nervo del sistema nervoso periferico, il nervo crurale, causando una paralisi permanente alla coscia destra. «La cosa più difficile è stata l’accettazione della disabilità», spiega l’atleta. «Perché a 17 anni per me l’immagine della disabilità era molto forte. Era l’immagine data dalla società: era sinonimo di grandi difficoltà e di non poter fare più nulla. Non volevo questa etichetta su di me».

Insieme a Thomas, sono diversi gli atleti che fanno attivismo e cercano di sensibilizzare la popolazione sulle disabilità invisibili. Nick Mayhugh, corridore paralimpico, ha colto l’opportunità proprio nel palco per eccellenza, le Paralimpiadi. L’americano si è presentato a Parigi con un taglio di capelli molto particolare: sui capelli rasati, il disegno di un cervello umano. «Se si guarda più da vicino, si può vedere il punto morto sul lato destro che si ripercuote sul lato sinistro del mio corpo», spiega l’atleta, che soffre di una paralisi cerebrale dall’età di 14 anni. «Volevo che la gente ne parlasse e che capisse che ci sono disabilità invisibili, che le persone come me esistono e gareggiano alle Paralimpiadi, e che anche se sembro normale, ho comunque una disabilità».

Le Paralimpiadi sono una buona occasione per provare a sensibilizzare la popolazione alla tematica dello sport e della disabilità. Per esempio, il movimento paralimpico ha provato ad allontanarsi dalla retorica pressante che descrive gli atleti con disabilità come individui “speciali” o “supereroi” solo per il fatto di partecipare alle Paralimpiadi. Quello che si vuole fare è focalizzare il pubblico più sulle prestazioni sportive degli atleti paralimpici più che sulle loro disabilità personali. Gli stessi atleti e le stesse atlete hanno recentemente preso sempre più posizione sul tema, chiedendo di essere trattati come atleti professionisti e non come persone “speciali”.

La sindrome dell'impostore

Il linguaggio in questo senso, almeno da parte del Comitato olimpico, è cambiato. Allo stesso tempo, però, è importante nominare e mostrare tutte quelle disabilità invisibili per rendere noto il fenomeno, e cambiare la narrazione che lo circonda. Il racconto attuale infatti porta con sé due grandi conseguenze. La prima conseguenza è che, non vedendola, quella invisibile venga considerata meno rispetto ad altri tipi di disabilità, tanto nello sport quanto nella vita di tutti i giorni. «La reazione è quella del: se non si vede, non hai nulla», spiega Thomas. «Molti dicono che il problema è nella nostra testa, che è finto, che è un problema solo quando vogliamo. In molti pensano che dobbiamo lamentarci di meno, che non è così grave. C’è molta incomprensione». Sia Jonna Aaltonen che Mathieu Thomas dicono di essersi già ritrovati nelle condizioni di dover giustificare la propria situazione. «Non mi sono mai dovuta giustificare con gli atleti, ma con altre persone si», afferma la cavallerizza. «Sono una persona positiva e, anche se ho dolore, non mi lamento, quindi le persone attorno pensano erroneamente che io stia bene», continua Aaltonen, che racconta di non perdere mai tempo a spiegare la sua malattia agli altri.

Contrariamente alla cavallerizza finlandese, altri paratleti con disabilità invisibile hanno sviluppato una vera e propria sindrome dell’impostore, soprattutto nei confronti degli altri atleti contro cui gareggiano. È l’altra conseguenza che deriva da un’errata narrazione delle disabilità. L’idea è che le disabilità invisibili, non essendo immediatamente riconoscibili, siano meno valide, e vadano dunque giustificate. Mathieu Thomas spiega che il problema si presenta tanto nella vita quotidiana quanto nello sport: «quando è un atleta con una disabilità invisibile a vincere una competizione, questo si trova spesso in condizioni di dover giustificare la propria disabilità». Questa condizione spinge molti ad impegnarsi di più, a comportarsi come se la loro disabilità non esistesse o fosse meno grave di quanto non sia in realtà. «Tanti si mettono in pericolo, non si comportano nel modo in cui sarebbe più comodo per loro e la malattia», spiega Thomas. «Io stesso l’ho accettata a 30 anni».

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