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Il ciclo dei vinti
13 mar 2025
Il risultato del derby di coppa tra Real e Atletico ci insegna che è impossibile sconfiggere la storia.
(articolo)
15 min
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IMAGO / Alberto Gardin
(copertina) IMAGO / Alberto Gardin
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Parlare del derby di Madrid in Champions implica partire da lontano, ripercorrere questioni più grandi delle due partite di questo turno, strategie dell’universo che hanno preso avvio ormai undici anni fa, nella notte della finale di Lisbona, e che hanno fatto sì che il Real diventasse la squadra egemone della competizione come lo era stata solo nell’epoca di Santiago Bernabéu negli anni ’60. Le clamorose rimonte, il calcio liquido, la mistica delle notti di Champions, il miedo escenico del vecchio Chamartín: non ci sarebbe stato nulla di tutto ciò senza il colpo di testa di Sergio Ramos al 93’, il singolo episodio che più ha cambiato la storia recente del calcio europeo. L’ossessione per la decima aveva trasformato il Real Madrid in una squadra come le altre, che aveva rimediato tante brutte figure in Europa e che con Mourinho, che pure gli aveva restituito una dignità in Champions, per tre volte consecutive non era riuscito a superare le Colonne d’Ercole delle semifinali.

Poi, però, arrivarono Lisbona e l’Atlético, in quella che a posteriori può essere considerata come una sorte di notte fondativa dell’identità dei due club di Madrid. Perché se da una parte il Real ha acquisito la consapevolezza per diventare una squadra che a volte le Champions sembra vincerle anche quando non vuole, dall’altra parte l’Atleti è diventato la sua antitesi: l’orgoglio estremo per la propria identità anche nella sconfitta, tradotto in una sofferenza che, più che allo sport, sembra quasi appartenere ad una dimensione religiosa, di penitenza, propria di certi santi del cristianesimo.

Quelli che pregava Simeone in ginocchio prima del rigore di Rüdiger, quando era ormai chiaro a tutti come sarebbe finita. La partita di ieri è stata il suggello definitivo su quello che, per dirla con Verga, potremmo chiamare il ciclo dei vinti: la storia di una sfida in cui una squadra si presenta ogni volta a testa alta all’appuntamento con la storia nonostante la consapevolezza che le leggi che governano Champions League finiranno per premiare gli altri. Quella di ieri, per Simeone, è stata la quinta eliminazione nel torneo per mano del Real Madrid.

Ancora eccitati per la partita mozzafiato di martedì tra Liverpool e PSG, ci eravamo dimenticati che il calcio, quando il peso emotivo della partita cresce e la dimensione narrativa si fa tanto complessa, può diventare uno sport lento, anche noioso se non si bada a certi dettagli.

Atlético Madrid-Real è stata anche una partita semplice da spiegare da un punto di vista tecnico: i "colchoneros", dopo il vantaggio dei primi secondi, hanno aspettato il momento propizio per portare l’eliminatoria dalla propria parte, salvo poi accorgersi che, col trascorrere dei minuti, le risorse a propria disposizione erano finite. E così, ai supplementari, difatti è stato quasi solo il Real Madrid a provarci, per la verità senza nemmeno troppa convinzione.

E mentre tutto ciò andava in scena sotto i nostri occhi, avremmo dovuto accorgerci di come, di fronte al Cholo e ai suoi uomini, si stessero materializzando i fantasmi del passato. La partita di ieri sera ha racchiuso diversi dei topoi del lungo romanzo di sconfitte che l’Atleti ha scritto in Europa in questi anni, dove momenti che sembravano dischiudere la gloria, in realtà erano solo il preludio di delusioni più amare. Segnali contrastanti da interpretare ma che, a posteriori, non facevano altro che dirci che la storia non sarebbe cambiata.

Simeone, ad esempio, aveva scelto il vestito più elegante del suo armadio per presentarsi alla partita. Se bastava il carico di ricordi a fare di questo derby di Madrid una partita cara a chi guarda già con un pizzico di nostalgia al calcio di una decina d’anni fa, l’allenatore dell’Atleti ci ha messo del suo rispolverando il suo abito di gala: non semplicemente il 4-4-2, ritornato in questa stagione dopo anni di 5-3-2 dovuto ai limiti della rosa, ma il 4-4-2 in cui uno dei due esterni, in realtà, è un mediano. Connor Gallagher, arrivato quest’estate dal Chelsea e che fino a ieri aveva giocato soprattutto nel mezzo, si è piazzato sull’esterno di sinistra, mentre nel doble pivote agivano Pablo Barrios e Rodrigo De Paul. L’altro esterno, chiamato a dare verticalità, era invece Giuliano Simeone, figlio di Diego Pablo.

Gallagher ieri sera ha raccolto l’eredità di Saúl e Koke, due centrocampisti che nelle serate più importanti si trasformavano in falsi esterni, non perdevano palla vicino alla linea laterale e incidevano in attacco. E, proprio come aveva fatto Saúl in due delle notti che hanno definito l’epica dell’Atleti del Cholo, quella contro il Bayern del 2016 e quella contro il Liverpool del 2020, è stato proprio il falso esterno Gallagher a portare subito sull’1-0 i suoi e a infiammare un Wanda Metropolitáno che di per sé già ribolliva.

È un grande classico delle eliminatorie dell’Atletico Madrid. I "colchoneros" partono con un impeto che gli avversari non sono pronti a reggere, si portano in vantaggio nei primissimi minuti e si nutrono della spinta di un pubblico che riesce ad entrare in campo come pochi.

Non ci è voluto neanche chissà quale sforzo, in realtà, per bucare un Real Madrid svagato come spesso gli accade. Sul lancio di Lenglet, Julián, attaccante piccolo e mal cavato come direbbe un noto proverbio meridionale, infido nonostante non arrivi al metro e settanta, manda fuori equilibrio Raúl Asencio e lo costringe a una spazzata corta, che finisce tra i piedi di Griezmann. Pronto a raccogliere l’appoggio di prima del francese c’è Llorente, che apre per De Paul. Il Real Madrid aveva mandato i suoi centrocampisti in pressione alta, quindi a difendere sul cross dell’argentino ci sono solo i difensori che corrono all’indietro: situazione particolarmente scomoda, e infatti dopo il tocco sporco di Giuliano sul primo palo, Valverde non riesce a chiudere la diagonale su Gallagher che ha stretto in area piccola e porta in vantaggio i suoi.

Simeone, al solito vestito e pettinato con lo stesso gusto di Henry Hill di Goodfellas quando si presenta da sua madre conciato come un gangster, per una volta si limita a guardare al cielo e a predicare calma.

Per come lo abbiamo conosciuto, quando in Champions League passa in vantaggio così presto, l’Atleti non si limita ad amministrare, anzi. Prima di abbassarsi a difesa della porta, i "colchoneros" sono soliti giocare 15-20 minuti di pressing estremo e minacciosità con la palla. Ieri, però, forse per il fatto che il gol è arrivato dopo nemmeno trenta secondi, l’Atleti ha rinunciato da subito ad essere aggressivo e si è sistemato già dai primissimi minuti nella propria trequarti.

È difficile dire se adottare una strategia del genere abbia senso contro il Real Madrid. La squadra di Ancelotti, infatti, senza Kroos, con Modrić che, per questioni anagrafiche, può contribuire solo fino a un certo punto e senza Ceballos che è un po’ un surrogato di ciò che garantivano il croato e il tedesco, fatica ad uscire dalla pressione. D’altra parte, con giocatori capaci di vincere i duelli e dispiegarsi in velocità come i tre davanti più Bellingham, il pressing può essere sempre un’arma a doppio taglio, questo deve essere stato il calcolo di Simeone. In ogni caso, l’Atleti ha preferito abbassarsi. E mentre di solito, contro avversari che lo aspettano, il Real diventa soffocante, soprattutto grazie alle iniziative di Vinicius che si trasformano in piccole pugnalate sui fianchi – ciò che, tra l'altro, era accaduto in campionato – ieri i blancos col pallone proprio non sapevano cosa farci.

Se quantomeno all’andata il Real Madrid aveva trovato un pattern sulla fascia destra, quella di Rodrygo, dove il terzino Javi Galán non era stato all’altezza della sfida, ieri non c’è stato nemmeno quel punto debole da sfruttare. Simeone, infatti, come terzino sinistro ha preferito schierare Reinildo, laterale che per tenuta difensiva dovrebbe essere il titolare di questa squadra, ma che per incostanza fisica (dopo essersi rotto il crociato a febbraio 2023) e di rendimento, difatti, si è ridotto a essere la riserva di un giocatore modesto come Javi Galán. Ieri, però, il mozambicano ha raccolto le forze per disputare una partita di livello, dove si è avvalso dell’aiuto di Gallagher, che da falso esterno ha potuto rinsaldare quello che settimana scorsa era stato il fianco scoperto dell’Atleti. Su quella fascia, al Real, è rimasto poco, giusto un po’ di spazio per Valverde se Rodrygo riusciva ad attirare gli avversari; i cross rasoterra dell’uruguagio, però, erano preda facile per la difesa di Simeone, quando si compattava in area.

Alla sicurezza difensiva dell’Atleti, ovviamente, ha contribuito la già citata titubanza del Real Madrid con la palla. Se siamo abituati ad apprezzare i blancos per il loro modo unico di interpretare la fase offensiva, con sovraccarichi e movimenti spontanei, nel derby di Champions Ancelotti deve aver pensato che l’Atleti, in mezzo, spazi non ne avrebbe concessi, e che quindi sarebbe stato meglio occupare l’ampiezza e attaccare sulle corsie – dove in effetti da una parte all’andata c’era Galán, e dall’altra Marcos Llorente che non difende di certo al livello di Juanfran. Così, lungo tutta l’eliminatoria Vini e Rodrygo hanno aspettato aperti, in un contesto che avrebbe dovuto permettergli di puntare l’uomo ma che in realtà, impoverendo il circuito associativo, ha minato i loro punti di forza. Anche perché Mbappé ha passato troppo tempo fermo al centro e di spalle – e quando si è abbassato i suoi appoggi sono stati imprecisi – mentre Bellingham si buttava dentro alla cieca, senza che i compagni avessero generato i presupposti per creare scompensi nell’Atlético Madrid.

Chissà, forse la qualità palla al piede di un difensore come Alaba avrebbe potuto sopperire all’assenza di Ceballos, che dà tutt’altro senso al Madrid con il pallone, e ai limiti atletici di Modrić, che una volta contro un blocco basso del genere a suon di conduzioni, giravolte, e tagli senza palla avrebbe di certo trovato il modo di colpire.

In ogni caso, l’Atleti è sembrato comodo in questo contesto, dove è riuscito anche a ripartire con pericolosità: magistrale la partita di De Paul nel dare subito un appoggio una volta recuperata palla, stabilizzare il possesso di prima o comunque a pochi tocchi con i compagni più vicini, e poi avviare la transizione. Così come sono stati utili, per distendersi, gli scarichi spalle alla porta di Griezmann e le sortite di Julián. Alla fine Courtois è stato il solo portiere a dover effettuare delle parate. E se non ci fossero stati la velocità in correzione a campo aperto di Raúl Asencio e, da un certo punto in poi, la capacità sovrumana di recuperare di Camavinga, l’Atleti avrebbe potuto di certo portare pericoli più consistenti.

All’inizio e nella parte centrale della gara, quindi, la squadra di Simeone ha giocato una partita assennata, rivelatasi corretta dal punto di vista strategico. Anche perché nell’unica occasione in cui si è fatto trovare scoperto e Mbappé ha potuto correre, è arrivato il calcio di rigore per il Real Madrid, a dimostrazione di quanto fosse giustificata la prudenza del Cholo.

L'Atleti non è riuscito a concludere un'azione in cui aveva portato tanti uomini in area e quindi non ha potuto riaggredire. La palla è arrivato a Bellingham che ha servito Mbappé. Gimenez e Lenglet non se la sono proprio sentita di rimanere sulla linea di centrocampo per fare il fuorigioco, ma in questo modo hanno dato lo stesso a Mbappé la possibilità di correre: la sterzata con cui il francese si è procurato il rigore non aveva senso di esistere, ripartire colpe in questo caso è inutile.

E ancora una volta, pur in un episodio che sembrava aver preso una piega positiva, avremmo dovuto captare i segnali del passato che erano là ad avvertirci della tragedia. A vederla con ottimismo, l’errore dal dischetto di Vinicius poteva essere il segnale che il destino stava cambiando. In realtà, la sensazione di tregua da una sconfitta scritta nelle stelle era la stessa che l’Atleti aveva sperimentato nella finale di San Siro nel 2016. Quella volta, sotto di un gol, erano stati loro a sbagliare il rigore con Griezmann, salvo rinfrancarsi con il pareggio di Ferreira Carrasco: ieri come allora, il fato sembrava porgere la mano ai "colchoneros", dargli una seconda possibilità impossibile da sprecare.

Quando Vini ha sbagliato il rigore era il 70’. Arrivati a quel punto della gara con la qualificazione ancora in bilico, era lecito aspettarsi che negli ultimi minuti l’Atleti sarebbe tornato a spingere in cerca del gol qualificazione. Del resto, la squadra di Simeone sa essere molto pericolosa nel quarto d’ora finale, grazie soprattutto ai cambi: Angelito Correa non è mai diventato un titolare, ma non c’è giocatore migliore da inserire a gara in corso, e da subentrato è spesso stato decisivo per Simeone. Gli ha persino fatto vincere una Liga nel 2020/21. Di assalti dell’Atleti negli ultimi minuti, però, non c’è stata neanche l’ombra. Correa, addirittura, è entrato all’89’, insieme a un altro giocatore che avrebbe dato un volto nuovo all’attacco come Sørloth: il che lascia pensare che Simeone preferisse giocarsela ai supplementari, magari per non subire la beffa negli ultimi minuti regolamentari.

In effetti aveva senso: massimizzare la freschezza dei nuovi entrati per i due tempi supplementari e, eventualmente, avere più tempo per recuperare un gol subito. Oltretutto, il Real Madrid con le sostituzioni sembrava più vulnerabile. Fran García, inserito al posto di Mendy, non è un terzino abile a difendere come il francese.

La scarsa consistenza di Fran García si è vista al 90’, quando è bastato un movimento a ricciolo di Correa per mandarlo fuori strada e spalancare all’argentino le porte dell’area di rigore su un lancione di Marcos Llorente.

Correa ha ricevuto sulla linea di fondo, si è lasciato ingolosire dal sombrero con cui ha evitato Rüdiger e ha calciato di poco alto da dentro l’area; se fosse stato più freddo avrebbe potuto servire a rimorchio Julián tutto solo sul dischetto.

Soprattutto, però, come terzino destro era entrato Lucas Vázquez, il grande punto debole del Real Madrid di quest’anno: Simeone all’85’ su quella corsia aveva mandato di proposito in campo il più veloce Samu Lino al posto di Gallagher per approfittarne.

Al 95’, pochi secondi prima del fischio finale, accade però l’evento che manda a monte i piani del Cholo. Rodrigo De Paul si accascia a terra e chiede il cambio. L’argentino era stato decisivo per ripartire in maniera pulita e pericolosa. La sua uscita non solo ha privato l’Atleti del riferimento incaricato di orchestrare le transizioni, ma ha anche costretto Simeone a spostare Marcos Llorente al centro del campo e a far entrare Nahuel Molina come terzino destro: due mosse che, insieme all’incapacità di Sørloth di far salire la squadra, hanno prosciugato i "colchoneros" a livello tecnico e hanno negato loro ogni possibilità di ripartire. Quanto sarebbe servito l’ingresso di Koke, che più volte quest’anno a partita in corso ha saputo dare una direzione alla squadra: la sua intelligenza avrebbe di certo permesso di gestire diversamente il pallone e i supplementari in generale.

Koke, però, per via di un infortunio si trovava a bordo campo quasi nelle vesti di collaboratore di Simeone. Ad un certo punto, dalla fine del secondo tempo, le telecamere hanno iniziato ad inquadrarlo con una frequenza sinistra: vestito come un impiegato, con una giacca e una camicia piuttosto anonimi, le sue urla di incitamento sembravano voler esorcizzare la paura che la storia si stesse ripetendo, più che infondere coraggio ai compagni. Pareva di rivedere la seriosità triste di Gabi, l’altro grande capitano dell’Atleti del Cholo, di cui Koke ha raccolto l’eredità spirituale.

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Dall’infortunio di De Paul in poi, l’unica occasione dell’Atleti è arrivata in maniera estemporanea, non con transizioni organizzate. Oblak ha agguantato un cross e, con Fran García che era rimasto alto, ha lanciato per Correa alle sue spalle. L’argentino si è prodotto in un primo controllo fantastico con il collo del sinistro e si è proiettato in area. Anche qui, dopo un gesto di grandissimo pregio tecnico, invece di ragionare e calciare, oppure rallentare per aspettare ancora una volta l’arrivo di Julián a rimorchio, Correa ha messo in mezzo una palla che aveva poche possibilità di passare, e infatti Rüdiger l’ha spazzata.

È stato l’ultimo sussulto dell’Atlético. Per il resto, i supplementari si sono trasformati in una riedizione dell’extra time della finale di San Siro, dove i "colchoneros" si sono seduti in difesa ad aspettare i rigori e, ai punti, il Real Madrid avrebbe meritato qualcosa di più, pur senza troppa convinzione.

L’Atleti, potremmo dire a posteriori, non ha fatto poi molto per vincere la partita, ma avrebbe potuto davvero fare di più per invertire il suo destino? A vederla in maniera razionale, la squadra di Simeone ha rinunciato all’inerzia positiva del gol iniziale, ha atteso per tutto il match il momento giusto per attaccare e provare a fare il 2-0, ma quando è arrivata l’ora di cambiare passo si è fatta trovare impreparata, a corto di soluzioni visto che non aveva più gli uomini giusti per eseguire quel piano.

Oppure, ancora una volta in Champions League dobbiamo rifarci alla dimensione emotiva, o forse dovremmo dire mistica. Magari si sarebbe potuto attaccare anche con Molina e Sørloth in campo, solo che a quel punto c’era troppa paura per farlo: meglio non sfidare gli dei, mantenere la propria coscienza pulita e giocarsela alla pari ai rigori. Prima o poi la fortuna dovrà girare, avrà pensato più di qualcuno, e poi Oblak non è più quello di nove anni fa, che resta immobile sui tiri avversari.

E invece no, la punizione per essersi accontentati di non perdere, se possibile, è stata anche più severa. Il gol di Julián nonostante la scivolata, da colpo di fortuna si è rivelato essere il punto di inflessione della contesa. Senza stare a sindacare sulla legittimità del protocollo VAR e di una regola del genere, quel rigore ha ricacciato l’Atleti in posizione di subalternità a livello psicologico e di risultato: quando Marcos Llorente si è presentato sul dischetto con la possibilità di pareggiare, sapevamo tutti che avrebbe sbagliato. Così come nella finale del 2016 con il palo di Juanfran, ancora una volta a condannare l’Atlético è stato un legno colpito dagli undici metri da un ex canterano del Real Madrid: qualcosa vorrà pur dire, magari era scritto che la sconfitta dovesse gravare sulle spalle di due giocatori rigettati dalla squadra che alla fine vince sempre.

L’ennesima tragedia si è consumata con Simeone che ha chiamato a raccolta il suo popolo, invitandolo a fregiarsi della propria identità nonostante la sconfitta, o chissà forse proprio per quella. L’orgoglio di essere se stessi e di non essere “quegli altri”, come recitava la coreografia ideata in occasione della semifinale di ritorno del 2017, è una consolazione che, seppur magra, dà tutto il senso di sostenere e partecipare alle sorti di una squadra destinata a soffrire come l’Atlético Madrid.

“Me mata, me da la vida”, recitava la scenografia dei tifosi colchoneros prima del fischio d’inizio di ieri sera. Il finale tragico ma fiero ci è servito a capire, una volta di più, che cosa intendessero.

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