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L'attesa del nuovo grande ciclista italiano
01 lug 2025
Dopo anni ad aspettare il "nuovo Nibali", adesso il ciclismo cerca il suo Sinner.
(articolo)
18 min
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IMAGO / Belga
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La domanda ha iniziato a circolare insistentemente dopo una decina di tappe. È un ritornello piuttosto comune, nelle ultime edizioni del Giro d’Italia: se un corridore italiano non si sbriga a vincere una tappa, comincia il processo. Al Giro d’Italia deve esserci almeno una vittoria di tappa italiana, altrimenti il marchio a fuoco di “movimento in crisi” torna a pulsare come la cicatrice di Harry Potter.

Se nel 2017 la prima vittoria italiana arrivò solo alla sedicesima tappa (Nibali a Bormio), il Giro 2025 ha pareggiato questo “record negativo” grazie alla vittoria di Christian Scaroni a San Valentino di Brentonico. Quel giorno però, siccome dietro Scaroni sono arrivati il compagno di squadra Lorenzo Fortunato e "la Grande Speranza" Giulio Pellizzari (ci torniamo), i titoli si sono capovolti: “Splendido tris azzurro”, “Tripletta italiana”, “Nove anni dopo riecco la tripletta”.

Quello del vincere-una-tappa in un singolo Grand Tour (cioè le corse di tre settimane, Tour de France e Vuelta a España oltre al Giro) è un discorso con le gambe corte, eppure è un microcosmo di un dibattito sul ciclismo italiano maschile che va avanti da anni. Gira tutto attorno alla seguente domanda: quando nascerà il nuovo Pantani, ovvero quell’eroe popolare in grado di trascinare le masse, oppure un Sinner del ciclismo, cioè quel fuoriclasse che proietta il proprio sport nel mainstream?

Un erede di Nibali, ovvero un corridore in grado di vincere le più importanti corse a tappe e non solo, forse basterebbe. I problemi, tuttavia, sono molteplici: e cominciano dagli occhi di chi guarda. Chi vede il bicchiere mezzo pieno, infatti, potrebbe dire che il ciclismo maschile italiano ben due eccellenze le ha eccome. Una è Filippo Ganna nelle prove a cronometro, l’altra è Jonathan Milan nelle volate. Entrambi al Giro d’Italia non c’erano (faranno il Tour) e la loro assenza (sacrosanta: non hanno ancora vinto alla Grand Boucle) ha contribuito a tenere basso lo score italiano.

La verità è che non vogliamo nemmeno un ciclista italiano maschio forte qualsiasi: si attende trepidante la venuta di un ciclista italiano maschio forte per la classifica generale. L’attesa febbrile si spiega anche col fatto che, fino a non troppi anni fa, questa tipologia di ciclista l’Italia la produceva in serie: nel 2007, per esempio, sette dei primi dieci classificati al Giro erano italiani. Tra ‘97 e 2007 il Giro lo hanno sempre vinto corridori italiani, otto persone diverse: Ivan Gotti (due volte), Marco Pantani, Stefano Garzelli, Gilberto Simoni (due volte), Paolo Savoldelli (due volte), Damiano Cunego, Ivan Basso, Danilo Di Luca.

Buona parte di questi era specializzata sul Giro, ma evidentemente a tanti tifosi italiani manca la sensazione di speranza che può vincere la corsa di casa. Desiderio innocente e lecito, che però non tiene conto dei cambiamenti occorsi nel ciclismo e non solo negli ultimi vent’anni.

IL DECLINO, IN BREVE
Il podcast di ciclismo più noto al mondo, The Cycling Podcast, durante il Giro ha dedicato alla crisi del ciclismo italiano un episodio dopo la nona tappa del Giro ‘25 vinta da Van Aert a Siena. Alcune statistiche citate in quell’episodio, intitolato Quo Vadis Italia, fanno riflettere: se nel 1996 i ciclisti italiani al via al Tour de France furono 62, nell’edizione 2024 erano solo otto. Contando le vittorie in corse professionistiche per Paese, l’Italia per buona parte degli anni Duemila era la nazione più vincente, con circa 200 (duecento!) vittorie all’anno. Nelle ultime cinque stagioni, la media è di 49 vittorie.

Tutto ciò era aiutato anche dal fatto che le squadre italiane al massimo livello del ciclismo erano tante e forti. Mapei, Lampre, Mercatone Uno, Saeco, Fassa Bortolo per anni hanno dettato legge in lungo e in largo. Nel 2016 anche l’ultima squadra italiana nel World Tour (ovvero la Serie A del ciclismo), la Lampre-Merida, è diventata la UAE Team Emirates. Tuttora parte dell’anima della squadra è italiana, ma la squadra è di fatto emiratina. Sebbene moltissimi italiani siano impiegati in tante squadre World Tour (buona parte dei corridori della kazaka Astana sono italiani, il grande capo dell’americana Lidl-Trek Luca Guercilena è milanese, solo per fare due esempi), la mancanza di una squadra italiana certamente non aiuta.

Eppure, troppo spesso l’analisi delle cause della crisi del ciclismo italiano si ferma qui. Come se una squadra sponsorizzata da due grandi aziende italiane sia in grado da sola risolvere un problema radicato e variegato. È difficile e lungo elencare e sviscerare tutti i problemi alla base della piramide, che vanno dalla condizione delle strade italiane al fatto che ancora oggi molte persone muoiono andando in bicicletta, ma uno dei più evidenti è da rintracciare nei presupposti economici.

Per buona parte degli anni Settanta, Eddy Merckx ha vinto così tante gare che tuttora viene considerato il più grande ciclista di sempre. E lo faceva per una squadra italiana, la Molteni, sponsor che era un salumificio di Arcore relativamente modesto come dimensioni e fatturato. Bastava poco, all’epoca: oggi non è più così. Le ultime entità entrate nel World Tour sono multinazionali come Red Bull, Lidl e Decathlon, autorità statali (Emirati Arabi Uniti nella squadra di Pogacar, Bahrein e Arabia Saudita in quelle di Matej Mohoric e Michael Matthews) o aziende enormi (Ineos o Uno-X).

Ciro Scognamiglio della Gazzetta dello Sport è uno dei giornalisti di ciclismo più informati. Pochi mesi fa scriveva che nel 2021 il budget complessivo di tutte le squadre nel World Tour era di 379 milioni di euro: è diventato 570 milioni nel 2025. Diverse squadre ormai costano più di 50 milioni l’anno. Sono cifre enormi, che nessun salumificio di medie dimensioni della Brianza potrebbe più permettersi.

Ed è difficile sostenere che la base di praticanti si stia organicamente allargando. Per i giovani ciclisti stessi (e le loro famiglie) praticare questo sport è diventato più costoso. Nella sua versione agonistica, ormai il ciclismo è quasi uno sport elitario. In tutti questi anni, invece, il potere di acquisto delle famiglie italiane è tutt’altro che aumentato (anzi, è diminuito). Inoltre, sempre meno società giovanili riescono a rimanere aperte, a fare attività durante tutto l’anno, a sostenere i costi delle bici o delle trasferte. Se le fondamenta della piramide vanno sgretolandosi, è inutile puntare il dito verso la mancanza di un vertice.

Sempre in Quo Vadis Italia, a Luca Guercilena viene chiesto se non sarebbe più facile per grandi aziende italiane investire nel ciclismo se ci fosse un grande campione italiano. Guercilena risponde: «Si parla di 20, 25 milioni, quindi certo che a quelle cifre vuoi legare il tuo nome a un campione. E ora come ora non c’è nessuno che possa soddisfare le aspettative».

La domanda quindi rimane la stessa: siamo sicuri che sotto questa superficie non si muova niente?

IL GRANDE GIRO D'ITALIA DI GIULIO PELLIZZARI, E I SUOI FRATELLI
A voler star larghi, alla partenza albanese del Giro d’Italia 2025 tre corridori italiani erano considerati buoni candidati per far bene in classifica generale. Si trattava di Giulio Ciccone (11° al Tour 2024 e nella forma della vita, 30 anni), Antonio Tiberi (5° al Giro 2024, 3° alla Tirreno-Adriatico 2025, 23 anni) e Davide Piganzoli (13° al Giro 2024 e in odore di passaggio dalla piccola Polti-VisitMalta allo squadrone Visma | Lease a Bike, 22 anni).

E invece è andata male, un po’ a tutti loro. Nella tappa finita letteralmente sul confine tra Gorizia e Nova Gorica, Ciccone e Tiberi sono caduti: il primo si è dovuto ritirare, il secondo ha dovuto proseguire acciaccato. Prima della caduta, Tiberi era terzo in classifica generale, davanti a Simon Yates, Primoz Roglic e Richard Carapaz, mentre Ciccone era settimo ma con uno squadrone alle spalle.

Ciccone e Tiberi sono due buoni uomini da classifica generale, che sono o stanno entrando nel prime della carriera. Per motivi diversi, tuttavia, è difficile vederli come the next big thing: il primo perché ormai sembra aver perso il treno per diventare il “nuovo Nibali”; mentre sul secondo ancora aleggia l'ombra di quell’assurdo incidente di San Marino.

Discorso ancora diverso per Piganzoli. Dopo il promettente Giro dello scorso anno, tutto in crescendo, era lecito aspettarsi passi in avanti dallo scalatore puro di Morbegno: ma progressi non se ne sono visti, né a cronometro né in salita, dove si è staccato spesso anche da gruppi numerosi. Di recente è andato forte su una salita mitica nei Pirenei, il Col du Tourmalet, in una corsa di livello minore. Potrebbe essere un buon segnale per il resto della stagione. È un ragazzo timido e introverso, che va forte in bicicletta ma non è esattamente un catalizzatore di attenzioni.

Nessuno di questi tre, dunque, è stato il miglior italiano in classifica generale al Giro d’Italia 2025. Il primato spetta al trentasettenne Damiano Caruso, che è anche l’ultimo ciclista italiano ad essere salito sul podio al Giro, nel 2021. Dopo quell’exploit quasi commovente si è ritagliato il ruolo di gregario di lusso, e anche al Giro ‘25 avrebbe dovuto aiutare Tiberi. Poi però il ciociaro è caduto, Caruso volava, ed è riuscito a chiudere quinto.

La vera storia del Giro 2025 è stata quella di Giulio Pellizzari. Nato nel novembre 2003, marchigiano di Camerino, Pellizzari sembra protagonista di un’ascesa inarrestabile. Tuttora ha zero vittorie da professionista, ma è dal Giro dello scorso anno che si mette in mostra. Io l'ho intervistato a Pompei, all’inizio della seconda settimana, e allora mi disse che, se fosse stato per lui, sarebbe già tornato a casa. Non si sentiva affatto bene, era il suo primo Giro e solo il sostegno di compagni di squadra e staff della Bardiani – la squadra in cui correva – lo ha convinto a rimanere in corsa. Dopo 14 tappe a inseguire, nella terza settimana Pellizzari volava. Sempre in fuga, è arrivato secondo sul Monte Pana, ha vinto la Cima Coppi del Passo Sella, e anche sul Monte Grappa ha fatto il diavolo a quattro.

Per la stagione 2025 Pellizzari è passato alla RedBull-Bora-hansgrohe, e al Giro ha fatto il gregario di Primoz Roglic, solo che Roglic è caduto diverse volte e alla fine è stato costretto al ritiro. A quel punto, abbiamo visto per la prima volta Pellizzari da "uomo libero", ed è stato un bello spettacolo. In un tappone di oltre 200 chilometri e quasi cinquemila metri di dislivello, quello già citato con finale a San Valentino di Brentonico, Pellizzari è sembrato semplicemente il più forte di tutti in salita.

Anche sfruttando la libertà che gli concedeva una posizione arretrata in classifica generale, Pellizzari ha attaccato. Ha fatto la differenza e anche quando Carapaz lo ha raggiunto non ha mai mollato la ruota del suo avversario, per poi batterlo in volata. Per tutto il resto della terza settimana, Colle delle Finestre compreso, è andato molto bene. In sala stampa i più smaliziati non hanno perso l’occasione di far notare che, se non avesse dovuto aspettare Roglic, Pellizzari avrebbe potuto fare addirittura meglio del sesto posto finale.

Pellizzari, poi, è un gran tipo. Gli viene naturale una certa spavalderia bambinesca, ha sempre la battuta pronta, i capelli davanti agli occhi molto alla moda oggi, un velo di acne sulle guance e non si fa problemi a dire ciò che pensa. L’accento del centro Italia completa un personaggio da fumetto. Al Tour of the Alps 2024 gli ho chiesto quale sia la sua salita preferita: «È la Porcarella, cioè non so se si chiami proprio la Porcarella, noi la chiamiamo così, da Poggio San Romualdo». Un paio di frasi che profumano di ciauscolo.

In una puntata del podcast Gironimo, parlando del modo di interpretare il ciclismo di Giulio Pellizzari, lo scrittore Leonardo Piccione ha detto che il marchigiano dimostra «una forma di arte elementare, ancora grezza e informe, però pura». Potrebbe anche non diventare un campione, ma Giulio Pellizzari vive e gareggia a cuore aperto, e questo al pubblico piace. E nella sua stessa squadra, la RedBull-Bora-hansgrohe, potrebbe finire a breve l’attuale campione del mondo junior, Lorenzo Mark Finn. Secondo tanti addetti ai lavori, uno dei prospetti più interessanti del ciclismo mondiale.

La combo iride + Ghisallo, le braccia al cielo, lo striscione d’arrivo poco pretenzioso, da corsa di paese: ogni cosa al proprio posto in questa foto.

LORENZO FINN E IL GIRO NEXT GEN 2025
Tappa 3 del Giro Next Gen, la più importante corsa a tappe di categoria tra quelle che si corrono con la squadra. Primo arrivo in salita, Passo del Maniva. Sulla penultima salita, Finn cade in salita: è una circostanza strana, che può succedere quando le acque si agitano in gruppo. Una caduta a bassa velocità che non ne compromette il prosieguo della corsa, ma di certo non fa bene. Sulla fondovalle della Val Trompia la Visma | Lease a Bike Development fa un ritmo indiavolato per il proprio capitano, Jørgen Nordhagen.

Dopo aver vinto un oro ai Mondiali junior di sci di fondo l’anno scorso, Nordhagen si è dato al ciclismo e sembra avere un motore totalmente fuori scala. Il norvegese è solo uno dei tanti campioncini al via del Giro Next Gen 2025. In particolare, ce ne sono tanti del 2006, una delle annate più floride di talento degli ultimi anni. E sul Passo del Maniva dovranno emergere i primi valori tra gli uomini di classifica.

Il ritmo della Visma è forsennato, ma Finn non si fa spaventare. Quello finito la scorsa settimana è il primo Giro Next Gen nella sua giovanissima carriera. Nato il 19 dicembre 2006, il ragazzo di Avegno è un primo anno, come si dice in gergo, cioè alla prima stagione nelle categoria Under 23. Fosse nato un paio di settimane più tardi, Finn sarebbe ancora nella categoria inferiore, tra i junior. Nonostante sia giovanissimo, corre come un veterano.

Quando Nordhagen attacca, e Jarno Widar, il campione in carica che si fa un altro Giro, si guarda oltre la spalla in cerca di collaborazione, Finn rimane tranquillo. Ad ampi gesti chiama davanti a fare l’andatura il suo compagno di squadra Luke Tuckwell. Finn è il secondo atleta più giovane di tutta la corsa, e già comanda il gruppo.

Nordhagen si scioglie come neve al sole, Adrià Pericas della UAE, Filippo Turconi della Bardiani, Albert Withen Philipsen della Lidl-Trek e Jakob Omrzel sembrano avere una marcia in meno. Il finale sul Maniva è una progressione regale di Finn e Widar. Vince il belga allo sprint, ma chi era sulla salita dice di aver visto nella pedalata del genovese qualcosa di diverso e intangibile, che è difficile definire ma che avete già capito di cosa si tratta.

Il Giro Next Gen 2025 per Finn è anche finito molto bene. Quel suo compagno di squadra, Luke Tuckwell, è riuscito a entrare (come Omrzel e Turconi) nella fuga giusta durante la quinta tappa, particolarmente mossa, tra i rilievi di Piacenza e Alessandria, e si è ritrovato in maglia rosa. Con un compagno di squadra in gran forma e sulla sedia di leader, Finn si è adattato a fare il gregario. Per pochissimi secondi Tuckwell non vinceva la corsa. Facendo il diavolo a quattro sui muri al 20% dell’ultima tappa, Finn ha anche portato a casa la maglia azzurra di miglior scalatore.

Alla partenza della quinta tappa, a Fiorenzuola, ho chiesto a Finn proprio della salita del Maniva: «Non ero a tutta, per questo sono riuscito a rimanere lucido e a chiedere quello sforzo a Luke». La sua attività Strava rivela che sulla parte più dura del Maniva è salito a 387 watt medi per quasi 33 minuti, ma «non è quello il mio limite ora come ora. In allenamento non ci sono gli avversari», può gestirsi meglio e sprigionare ancor più potenza. Sono dati piuttosto impressionanti per un ciclista della sua età.

In generale, Finn è un diciottenne molto più maturo e consapevole dei ragazzi della sua età. Parla un inglese perfetto anche grazie al padre britannico Peter, è timido, molto concentrato sul proprio lavoro di ciclista e taciturno, ma si apre molto e volentieri nel parlare di ciclismo. Come diversi altri giovani prodigi, Remco Evenepoel per esempio, Finn è un nerd: ascolta podcast come Empirical Cycling e si stranisce quando gli fanno fare allenamenti datati. «Purtroppo», ha commentato riguardo un periodo di allenamenti con la Nazionale italiana, in una puntata del podcast Ciclismo KOMpetente dei ciclisti Luca Vergallito e Mattia Gaffuri «Abbiamo dovuto seguire gli allenamenti che ci assegnava il preparatore della Nazionale, il che non era proprio top perché per tutta la stagione ho lavorato con un altro preparatore. I lavori erano SFR a canna e partenze da fermo» aggiunge storcendo il naso verso metodologie di allenamento tradizionali ma meno scientifiche e moderne.

Una delle cose che continua a ripetere Finn è che non ha fretta. Poco prima del Giro Next Gen, per esempio, diceva: «So che tutti in Italia aspettano “il nuovo Nibali” per i Grand Tour ma è decisamente presto pensare a me in questo senso. Ho ancora tanto lavoro da fare e nessuna fretta». Il fondatore dell’agenzia che lo gestisce, la 258 Protege, ha scritto una cosa simile per festeggiarne l’ottimo Giro Next Gen: "Torneremo l’anno prossimo per puntare a qualcosa in più".

Finn l’aveva detto fin da subito, infatti, che il suo apprendistato nella categoria Under 23 sarebbe durato due anni. Eppure sta andando così forte che tanti si chiedono se non sia il caso di testarsi al piano superiore già l’anno prossimo. Nel frattempo un suo coetaneo, il francese Paul Seixas, sta facendo i buchi nell’asfalto in corse World Tour: è arrivato in top 10 al Delfinato ed è più volte andato vicinissimo a vincere la sua prima corsa professionistica. Di recente ne ha scritto nientemeno che il New York Times. Quella tra Seixas e Finn è una rivalità che va avanti da anni (furono primo e secondo ad una delle più importanti corse juniores nel 2024, il Giro della Lunigiana) ed è legittimo aspettarsela anche nel World Tour.

Rimanere nella categoria giovanile o passare il prima possibile nel World Tour? Si perde tempo tra i ragazzini, si bruciano le tappe o qualche sfumatura in mezzo? Difficile dirlo con certezza, e impossibile generalizzare. Sono ragionamenti che sicuramente fanno da mesi alcuni dei migliori conoscitori di ciclismo al mondo, come John Wakefield (direttore dello sviluppo della RedBull-Bora-hansgrohe) e Pello Olaberria, ex professionista e ora direttore sportivo.

La pressione mediatica su Finn, intanto, si sta alzando. Al Giro Next Gen la RedBull-Bora-hansgrohe Rookies era una delle pochissime squadre con addetto stampa e fotografo al seguito. Addirittura, il fotografo è stato mandato in Italia a seguire Finn e compagni e non il Tour de Suisse, corsa a tappe di livello World Tour. Se da una parte è vero che rimanere tra gli Under 23 riduce la luce dei riflettori (alla partenza di Fiorenzuola sopracitata, per esempio, gli spettatori saranno stati sì e no un centinaio), dall’altra è altrettanto vero che il circo è già cominciato, e non lo si può fermare.

Per tutto il Giro Next Gen il bus della RedBull-Bora-hansgrohe Rookies era l’unico preso d’assalto. Sono già usciti pezzi che parlano dell’infanzia di Finn nel Tigullio: incredibilmente la sua maestra d’asilo si chiamava Domenica “Mimma” Berardi. Lo stesso atleta ha già fatto capire alla propria squadra che magari non vuole fare tutte le interviste che gli vengono proposte. Finn vuole, insomma, essere lasciato in pace.

Prima del Giro Next Gen, la RedBull-Bora-hansgrohe Rookies ha voluto organizzare una conferenza stampa con Finn e Wakefield anche per rispondere a tutte le richieste di interviste da parte dei giornalisti. Dal loro ritiro in altura in Andorra, Finn e Wakefield hanno risposto a varie domande per oltre mezz’ora. Cose del genere le fa la UAE con Pogačar prima del Giro d’Italia.

John Wakefield è una delle menti dietro il progetto che può portare sostanzialmente chiunque nella pipeline di sviluppo della RedBull-Bora-hansgrohe. Purché abbia un VO2max da biathleta norvegese, ovviamente. Via Zoom Wakefield parla dello sviluppo di Finn come di «un lavoro lento, affinché possa avere una carriera lunga. Si vedono alcuni atleti che sono molto forti molto giovani, e poi si perdono in due/ tre anni. Per un motivo o per l’altro, non realizzano il proprio potenziale perché si bruciano prima».

A un certo punto chiedono a Finn se gli piacciono anche le classiche delle Ardenne in Belgio, corse lunghe e dure tanto a livello professionistico quanto tra gli U23. Finn, che è arrivato secondo alla Flèche Ardennaise dietro al solo Jarno Widar quest’anno, risponde che «mi piacciono molto le corse di un giorno, ma John vuole farmi diventare un corridore da corse a tappe», dice con un sorriso.

Al trambusto mediatico, volente o nolente, Finn ammette di essersi già dovuto abituare. È cominciato «anche un po’ prima dei Mondiali» che vinse da junior nel settembre 2024, ma prova comunque «a non pensarci, è semplicemente il modo in cui funziona lo sport ora. Alla fine sono un adulto ora, questo è il mio lavoro». Molto concentrato sul ciclismo, dicevamo. Per questo fa strano pensare che dopo il Giro Next Gen Finn sarà impegnato in un altro tipo di esame: la maturità.

Si potrebbe proseguire a parlare di singoli corridori per ore. Come Finn, infatti, tanti altri giovanissimi corridori stanno cercando di spingere wattaggi un po’ migliori per un po’ più tempo, gestire corse a tappe di una settimana, convivere con piccole e grandi delusioni. Valori che ora ci sembrano rigide gerarchie tra qualche anno potrebbero essere molto più sfumati di così, e questo pezzo risulterà inutile se non dovesse nemmeno citare che al Giro Next Gen 2025 il miglior italiano in classifica generale non è stato Finn, bensì Filippo Turconi, e che pure Matteo Scalco è entrato in top-10.

Tra una dozzina d’anni, guardandoci indietro e ripensando al modo in cui abbiamo scritto e parlato del giovanissimo Lorenzo Finn, forse non ci sarà nemmeno bisogno di porsi domande. Perché Finn vincerà una corsa dopo l’altra al punto che dovremo solo elogiarne i successi, o perché a una vittoria nel World Tour non si avvicinerà nemmeno. Magari non ci accorgeremo nemmeno che, molto in fretta, saremo passati al prossimo: c’è per esempio Mattia Agostinacchio, classe 2007, che sta vincendo qualsiasi cosa tra gli juniores nel ciclocross e pare che ora voglia concentrarsi sulla strada.

Che il prossimo vincitore di un Grand Tour italiano sia un volto noto (Ciccone), uno che mette assieme tutti i tasselli (Tiberi), o un giovane in rampa di lancio (Piganzoli, Pellizzari, Finn), non ci rimane che sorridere guardando gli altri. Un corridore francese non vince il Tour de France dal 1985: e neanche questo è l’anno buono. Che avrà mai fatto, poi, la Slovenia per ritrovarsi in casa un Tadej Pogačar?

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L'attesa del nuovo grande ciclista italiano