• Euro 2024
Dario Saltari

L’Austria di Rangnick come esperienza religiosa

Perché è la squadra che dovete seguire di questo Europeo.

Dopo nemmeno sei minuti i tifosi austriaci stanno già saltando come se lo stadio fosse loro. Nell’aria c’è un’euforia apparentemente immotivata. La Nazionale di Ralf Rangnick non ha avuto occasioni clamorose e soprattutto non è già sicura di un posto negli ottavi di finale. Teoricamente potrebbe essere la loro ultima partita in questo torneo. Per cosa cantano, per cosa festeggiano i tifosi austriaci? 

 

L’Austria ha iniziato la partita come se fosse animata da un sentimento che è il negativo della paura. Una sicurezza nei propri mezzi, un’energia corporea, una voglia di stare nel presente che contrasta con le gambe tremanti che hanno prodotto la pioggia di autogol che abbiamo visto in questi giorni. Dentro a quest’onda, i giocatori olandesi sembrano spaesati. Koeman, con un accenno di disperazione già in volto, gli chiede con ampi gesti di salire sul campo, di alzare il baricentro, di avere lo stesso coraggio, e loro si vedono giocatori di cui forse non avevano mai sentito nemmeno il nome tentare ambiziosissimi passaggi tra le linee, tagliare in continuazione alle spalle della loro difesa, recuperare all’indietro al doppio della velocità. Nei sei minuti che anticipano l’autogol di Malen che apre la gara, l’Austria raggiunge l’87% di possesso palla. La Nazionale di Rangnick ha già completato 54 passaggi, a quella di Koeman gliene sono riusciti appena due. 

 

Forse bisogna rovesciare il punto di vista, vedere l’entusiasmo dei tifosi austriaci come un rito propiziatorio. E infatti loro iniziano a cantare in coro, a saltare, e pochi secondi dopo l’Austria segna. Il portiere olandese Bart Verbruggen prova a far ripartire l’occasione con le mani, forse perché con i piedi fino a quel momento non c’era stata grande fortuna. La sua palla verso Veerman, però, viene intercettata da una corsa all’indietro di Schmid – centrocampista di 24 anni del Werder Brema che la recupera con una tale facilità che sembra stia giocando con i propri figli.

 

Schmid riparte dalla difesa e l’Olanda ha il primo accenno di orgoglio, alzando il baricentro. La tempesta, però, non è ancora finita. Philipp Lienhart, che di mestiere fa il difensore del Friburgo e sembra aver già visto come andrà a finire questa azione, conduce palla col destro, si mette alle spalle Memphis Depay e con la sicurezza di chi sembra addestrato più che allenato taglia le linee avversarie con un passaggio rasoterra che non lascia scampo a interpretazioni. Arnautovic è venuto incontro tra le linee e Wimmer ha già attaccato lo spazio liberato dal suo movimento, anzi, è già alle spalle di De Vrij, che sembra preoccupato. La corsa in diagonale di Wimmer si è portata dietro anche il terzino destro olandese, Geertruida, che presto si accorge di aver lasciato un’autostrada per la corsa di Alexander Prass – nome da scrittore di culto austriaco dei primi del Novecento, doppio taglio da personaggio secondario del Nome della Rosa, fisico da quello che è realmente: un terzino dello Sturm Graz.  

 

 

Prass arriva fino al limite dell’area, vede Arnautovic che gli sta chiamando palla vicino al dischetto e prova a servirlo con un cross basso e teso. Sulla traiettoria però si inserisce Malen, che sta provando a recuperare disperatamente. L’ala del Borussia Dortmund si lancia col destro anziché col sinistro e la palla finisce nella propria rete. La Nazionale del Paese che di fatto ha inventato il calcio contemporaneo sembra non aver mai praticato questo gioco prima di questa partita.

 

È l’incipit della storia che conosciamo. L’Austria batte l’Olanda per 2-3, la Francia riesce nell’impresa di pareggiare per 1-1 con la Polonia e la Nazionale di Ralf Rangnick si qualifica agli ottavi di finale da prima, in quello che probabilmente è stato il girone più difficile di tutto l’Europeo. Dopo la partita c’è un entusiasmo tale che chiedono a Rangnick se l’Austria può vincere l’Europeo. «Non penso che ci siano grandi possibilità», ha risposto con umiltà l’allenatore tedesco, «non lo escluderei del tutto ma rimane una cosa molto improbabile». «Finire in testa al girone: questo è incredibile. Pensate alle possibilità che vincessimo contro l’Olanda e che contemporaneamente la Francia non riuscisse a vincere: se ci avreste scommesso adesso sareste molto ricchi. Siamo stati ricompensati per questa prestazione coraggiosa e piena di energia». 

 

Fa strano sentire Rangnick parlare di fortuna. Rangnick dipinto come uno scienziato pazzo, come una persona fredda e calcolatrice, le cui squadre danno l’impressione di voler pianificare ogni singolo aspetto di una partita schiva il determinismo e sembra interpretare i suoi successi come una ricompensa divina per il modo in cui l’Austria gioca a calcio. È stata la fortuna ad aver apprezzato il coraggio della sua squadra. 

 

D’altra parte, guardando solo i risultati sarebbe difficile capire l’entusiasmo che circonda questa Nazionale, e i litri e litri di inchiostro già versati per raccontarla (anche qui su Ultimo Uomo gli avevamo dedicato un pezzo ben prima di pubblicare le guide squadra per squadra prima di questo Europeo). Appena tre anni fa, con un allenatore opposto nei principi come Franco Foda, l’Austria aveva già vinto due partite e fatto sei punti nella fase a gironi (ma era arrivata seconda per via dei nove punti raccolti dall’Olanda), fermandosi come ricordiamo agli ottavi dopo una partita combattuta contro l’Italia. L’Austria, che probabilmente agli ottavi incontrerà questa volta una tra Turchia e Repubblica Ceca, potrebbe fare ancora lo stesso identico percorso, eppure nell’aria c’è un’energia nuova che restituisce l’impressione che sia cambiato tutto. 

 

Questa energia esiste, non è solo narrazione, ed è palpabile guardando una qualsiasi partita dell’Austria. Dalla prima sconfitta contro la Francia, dopo la quale la Nazionale di Deschamps è uscita dal campo con l’impressione di averla scampata bella, all’ultima contro l’Olanda, in cui la Nazionale di Rangnick a tratti ha messo in mostra un livello di controllo tale da infondere nei suoi tifosi un’ebbrezza forse addirittura eccessiva. 

 

Al 19′, con la Nazionale di Koeman che provava finalmente ad alzarsi aggressiva sull’impostazione dal basso avversaria, l’Austria ha cominciato a palleggiare da destra a sinistra, e quando finalmente ha eluso il pressing avversario i tifosi austriaci sono esplosi in un boato. Subito dopo dagli spalti sono partiti gli “olé” del pubblico a ogni singolo passaggio dei loro e più che un atto di bullismo nei confronti dell’avversario è sembrata la reazione spontanea di chi si stava divertendo. Non voglio stare qui a parlare di spettacolo, di calcio come arte performativa come se il risultato non contasse: so quanto quel discorso possa essere urticante e anche io lo trovo tale. Da questo punto di vista, la storia dell’Austria di Rangnick va infatti nella direzione opposta: quella di una Nazionale che prova l’ebbrezza per aver ritrovato un ruolo, o per la prospettiva che questo possa accadere a breve. 

 

L’Austria, che ha una delle bandiere più antiche del mondo, che trasuda nostalgia di un passato dorato anche solo passeggiando distrattamente per Vienna. Un Paese che, come ha scritto Andreas Hagenauer sul Guardian, ancora parla del cosiddetto “miracolo di Córdoba”, quando l’Austria sconfisse la Germania ai Mondiali del 1978. Che rimpiange i tempi del Wunderteam, la leggendaria Nazionale austriaca che arrivò quarta ai Mondiali del 1934 e che sfiorò la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1936, e sul cui ricordo si sono posate ormai almeno due dita di polvere. L’entusiasmo, credo, non nasce solo dal divertimento, ma anche dalla prospettiva di tornare ad avere un ruolo nel calcio europeo, con quella che è forse la Nazionale più all’avanguardia di tutto il continente, se non di più. Una squadra che è guidata da un uomo che ha già cambiato come si gioca a calcio (come allora Hugo Meisl). E che, dopo quasi un secolo, è tornata ad avere un futuro e non più solo un passato.

 

L’Austria – non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, sul campo – invece di andare indietro, corre in avanti. Non è solo un parallelismo posticcio: c’è differenza tra giocare con l’idea di mascherare i propri difetti (quindi sentendosi in difetto) e farlo con la convinzione di poter sfruttare quelli avversari. Tra queste due cose c’è l’ebrezza di sentirsi protagonisti della storia, senza la quale l’Austria probabilmente non si prenderebbe i rischi che si prende con la stessa leggerezza. Ieri, comunque, l’Olanda ha prodotto 1.73 xG e sono state tante le occasioni in cui avrebbe potuto segnare un gol in più dei due che ha segnato sfruttando la spregiudicatezza degli avversari. Già al 14′ minuto, quindi poco dopo l’autogol di Malen che ha aperto la partita, le scalate super aggressive in avanti dell’Austria hanno prodotto un quattro contro quattro in difesa che ha portato Reijnders a tirare da solo dal centro dell’area. Una decina di minuti dopo, il centrale austriaco Wober ha rotto la linea alzandosi in avanti verso il centrocampista del Milan che aveva ricevuto sulla trequarti, e nel buco che aveva lasciato si è lanciato proprio Malen, che però ha calciato fuori in maniera incomprensibile.

 

 

Da un certo punto di vista, quindi, è vero quello che dice Rangnick, che l’Austria è stata fortunata. E per quanto mi piace pensare che la fortuna aiuti gli audaci, è probabile che al primo gol preso in maniera ingenua i pregiudizi sul suo conto si risolleveranno in volo.

 

L’allenatore tedesco è arrivato a questo Europeo dopo un percorso lunghissimo, in cui ha fatto in tempo a rivoluzionare il calcio prima di diventare lo scemo del villaggio. Una figura che, prima di questa redenzione austriaca, sembrava il vecchio e amareggiato Nikola Tesla di The Prestige, quello per cui «la società tollera un solo cambiamento per volta». Rangnick, ancora prima di gettare le fondamenta dell’universo Red Bull con tutto ciò che ha comportato a livello tattico (e non solo), era passato per un burnout che lo aveva costretto a lasciare la panchina dello Schalke 04. Poi l’affermazione, la trasformazione in profeta, l’approccio delle grandi squadre. Il naufragio della trattativa con il Milan che, dopo i successi di Stefano Pioli, lo ha reso inviso al pubblico italiano; l’esilio russo alla Lokomotiv Mosca; l’esperienza disastrosa nell’inferno del Manchester United, in cui avrebbe potuto ingoiare le frecciatine di Cristiano Ronaldo per rimanere con un ricco ruolo da consulente. 

 

Nel 2022 Rangnick ha accettato l’offerta della federazione austriaca inizialmente con riluttanza (pare che rispondendo al telefono abbia detto: «Non c’è proprio nessun altro che possa farlo?») e l’aura del despota che vuole avere il controllo assoluto su ogni aspetto del suo lavoro. L’Austria effettivamente gli ha cucito un ruolo che va oltre quello del semplice commissario tecnico, concedendogli poteri su tutti i livelli della piramide calcistica del Paese, e una capacità decisionale che ormai tutti i top club europei consideravano anacronistica. 

 

Eravamo pronti a trasformare Rangnick in una pagina di storia e invece il suo percorso con la Nazionale austriaca ci ha costretto a riconsiderare i nostri giudizi affrettati, l’immagine un po’ stereotipata che avevamo di lui. Il tedesco inflessibile nel pubblico e impossibile nel privato, la cui ossessione per il lavoro viene scambiata per freddezza. Ad aprile, dopo un grande girone di qualificazione e una serie di vittorie clamorose in amichevole (tra cui una proprio contro la Germania), il Bayern Monaco si è presentato alla sua porta offrendogli la sua panchina, ma lui ha rifiutato. «Sono il CT della Nazionale austriaca con tutto il cuore, mi piace molto questo compito e sono determinato a continuare con successo il percorso che ho scelto». Sembravano parole di circostanza, mentre forse contenevano un nocciolo di verità. Rangnick sembra davvero tornato nel suo habitat naturale e, facendolo, sembra anche aver smussato gli angoli più indigesti al pubblico che lo guarda con sospetto.

 

L’allenatore ha convocato l’infortunato David Alaba come capitano non giocante anche se non era costretto a farlo, dimostrando un’attenzione nei confronti della sua squadra che non gli riconoscevamo. Davanti ai microfoni sembra più rilassato, pronto alla battuta, con quel carisma da tedesco in campeggio che può essere apprezzato persino da un italiano. Nella conferenza stampa prima della partita con l’Olanda ha risposto con ironia al giornalista che gli chiedeva perché i calci piazzati non stessero funzionando, facendogli addirittura l’occhiolino: «Lascia il meglio alla fine, come si dice, è per questo che nelle prime due partite non abbiamo fatto bene». 

 

Forse è la saggezza che viene allegata alla vecchiaia. Di certo anche l’Austria, a vederla in queste partite, si sta dimostrando una squadra meno spigolosa di come ce l’eravamo prefigurata. Una squadra muscolare, che fa del pressing e dell’aggressività la sua arma principale, che – come ha tradotto significativamente l’interprete della stessa conferenza stampa – «gioca contro la palla», certo, ma anche una squadra che sta dimostrando una certa tecnica, un amore per il lato più sensuale del gioco. Il gol dell’1-2 di Schmid è nato da una seconda palla riconquistata aggredendo il possesso avversario in avanti, è vero, ma anche per una linea di passaggio geniale in area trovata da Prass per Grillitsch. Il 2-3 di Sabitzer nasce da una transizione veloce certo, ma anche da un filtrante d’esterno di Baumgartner dolce come la panna montata sulle Sacher di Vienna.

 

Forse però dovremmo smetterla di mettere, consciamente o inconsciamente, in contrasto il talento con la tattica, con l’organizzazione collettiva. Da questo punto di vista, la maniacalità con cui cura il suo lavoro, la necessità di controllo, più che espressione di una personalità autoritaria mi sembra profondo amore per il gioco. Ieri, contro l’Olanda, la sua mano si è vista addirittura nei primissimi secondi. L’Austria, dopo aver toccato il primo pallone della partita, ha immediatamente messo in pratica uno schema. Sabitzer ha fatto finta di lanciarsi nella metà campo avversaria con i suoi compagni ma poi si è girato indietro per ricevere tra le linee. Il passaggio di Seiwald verso di lui, però, è stato impreciso e l’Olanda ha recuperato palla. A quel punto, invece di correre all’indietro, la difesa di Rangnick è scattata in avanti e ha recuperato il pallone. Dopo pochi secondi di gioco, si è immediatamente capito che squadra fosse l’Austria.

 

 

Qualcuno troverà insopportabile che un allenatore cerchi di controllare addirittura un calcio d’inizio. Ma se ci pensate, quanto devi amare il calcio per fare una cosa del genere?

 

Tags :

Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.