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Emanuele Atturo

L’autocombustione di Luciano Spalletti

Una gestione tattica e mediatica inquietante, ma forse ci aspettavamo troppo.

Alla fine della partita, incassato in quella strana giacca morbida di Armani, Luciano Spalletti era molto diverso da quanto ci aspettavamo. Avevamo appena subito una sconfitta tremenda, una delle peggiori della storia della Nazionale, e ci siamo trovati di fronte una versione di Spalletti disallineata al nostro sentimento. Con un tono dimesso, calmo, quasi sonnolento, si è limitato a dire cose semplici con una sintassi complessa: «Abbiamo sofferto qualche individualità con una gamba diversa dalla nostra», «Se il ritmo è questo qui è difficile parlare di qualunque altra cosa». E poi tautologie alla Boskov che suonano come vaticini, o enigmi misteriosi: «Se si trovano squadre che palleggiano bene, allora bisogna palleggiare altrettanto bene»; «Questo fatto di saltarti addosso lo fanno tutti, se non riesci a pulire la palla entro i primi due o tre passaggi dopo diventa dura».

 

Spalletti sembrava essere stato riesumato dal suo sarcofago, dopo aver consumato un sonno millenario, per tornare da noi e regalarci qualche verità semplice e profonda sul calcio. Forse una parte di noi immaginava che davanti ai microfoni, a caldo, avrebbe rassegnato le proprie dimissioni. Sulla base di una prestazione così deludente, in cui una Nazionale ben organizzata come la Svizzera è sembrata molto superiore a noi, le dimissioni sembravano l’unica cosa all’altezza della nostra delusione – dell’imbarazzo, del filo di vergogna persino, che abbiamo provato guardando la partita, seguito da uno strano senso di sollievo, a non dover vedere più l’Italia giocare questo torneo. Le dimissioni di Spalletti, magari pure quelle di Gravina, ci sembravano uno scenario plausibile.

 

Sarebbe stato forse ingiusto. Come si è affrettato a ricordarci, Spalletti ha avuto poco tempo e poche partite a disposizione. Subentrato a settembre del 2023, con la qualificazione ancora incerta, ha vinto quasi tutte le dieci partite giocate prima dell’Europeo («i miei predecessori ne hanno avute almeno 20», ha detto dopo la partita con la Svizzera).

 

Possibile che questo periodo di tempo, meno di un anno, avesse mascherato l’immaturità dell’Italia, venuta poi fuori tragicamente in queste partite? Forse sì, ma ci eravamo illusi che proprio per questo avevamo scelto Spalletti come CT: per la sua grande competenza, e per la capacità di rimettere assieme squadre scollate e senza identità. Una capacità dimostrata più volte in carriera. Non c’era una persona che non potesse dirsi felice per la nomina di Spalletti, subito dopo la fuga di Roberto Mancini. Non c’era allenatore che lo meritasse di più, per la lunga carriera in Serie A e per la capacità di restare sempre all’avanguardia a livello tattico.

 

Per questo è stato così triste vederlo consumare parte della propria reputazione, in questo torneo e soprattutto in quelle interviste tra una partita e l’altra. Forse non c’è modo di uscire bene col linguaggio da un disastro calcistico tale, ma Spalletti poteva certamente fare meglio. Ha ammesso le sue responsabilità, ma poi ha scaricato le colpe addirittura sul caldo, e sopratutto sui giocatori, che hanno corso meno degli avversari. Non è stata la prima volta, è da ancor prima che iniziassero questi Europei che Spalletti tratta i giocatori come dei bambini viziati, e lui finisce per interpretare la parte di un nonno severo che deve correggerne l’educazione: «Viviamo in un mondo che poco incentiva il duro lavoro, il sudarsi le cose. I ragazzi di oggi preferiscono mettere una foto su Instagram con il capello fatto piuttosto che abbassare la testa e pedalare. Questi non sono i valori che la mia Italia deve trasmettere. Si viene in Nazionale con gli occhi che ridono e con il cuore che batte e ci si sta come un branco di lupi che vanno in fila indiana per spingere il compagno davanti e non lasciare nessuno indietro».

 

Spalletti è sempre stato un personaggio stravagante e leggendo queste decisioni, e certe dichiarazioni, veniva da farsi una risata. L’iniziativa “siamo tutti numeri 10”, il concerto voce e chitarra di Rocco Hunt nello spogliatoio, i comandamenti sul pressing: da dove arrivava tutto questo cringe? Un lato buffo di Spalletti è sempre esistito, con le dichiarazioni iconiche («il tacco e la punta»), le interviste in cui lanciava frecciatine a Ilary Blasi, i video mentre dava da mangiare alle oche, gli aneddoti di lui pazzo fuori dalle stanze d’albergo in cui i suoi giocatori giocavano a carte.

 

Stavolta però il suo tono è suonato subito sopra le righe e, al di là dei giudizi morali o di gusto, veniva da chiedersi se effettivamente avrebbe funzionato.

 

Ha vietato Play Station in certi orari, cuffie, e messo regole strette sui ritardi. Ha detto: «Non si viene ridacchiando o a camminare con le cuffie come ebeti». Più che responsabilizzarli è sembrato colpevolizzarli preventivamente. Lo ha fatto con una retorica qualunquista, che ha validato i pensieri più tossici dei tifosi più tossici della Nazionale. Quelli che parlano dei calciatori come dei truffatori, come dei milionari privilegiati dal cervello vuoto che pensano solo al conto in banca. Un pensiero non distante nella sostanza da quello di Fabrizio Corona (che in un post su Instagram ha definito “bambini viziati” i giocatori dell’Italia).

 

Oggi possiamo dire che trattare i calciatori come bambini capricciosi non ha funzionato. Nel tentativo di costruire un gruppo coeso, ambizioso e senza distrazioni, ne ha costruito uno fragile, spaventato e che alla prima difficoltà – il primo tempo contro la Spagna – è andato in pezzi. A forza di trattare i giocatori come ragazzini problematici quelli si sono comportati come tali.

 

Spalletti, però, è sembrato il primo ad andare in pezzi, sprofondando in un burnout oscuro. Sempre più nervoso, apocalittico e scostante nelle risposte alla stampa. Sempre più sotto pressione. Mentre l’Italia continuava a presentare problemi tattici, e a sfoggiare formazioni psichedeliche, Spalletti non voleva parlare di tattica, o ne voleva parlare sempre con un tono vagamente passivo-aggressivo. Dopo la partita contro la Croazia, che ci ha visti qualificati per miracolo, Paolo Condò ha giustamente chiesto conto dell’eccessiva prudenza con cui la squadra aveva giocato a inizio partita. Una domanda assolutamente normale. Siamo però il Paese in cui la maggior parte degli allenatori si rifiuta di parlare di tattica, e che prende le domande dei giornalisti come attacchi personali, e così Spalletti ha esordito con un classico «Ma quale prudenza?!». E poi «che c’entra il modulo?!», quando Condò non aveva mai parlato di modulo. (Spalletti si sarebbe permesso di rispondere in quel modo anche a Fabio Capello, per esempio? Difficile crederlo, visto che quando “Don Fabio” è intervenuto il suo tono si è subito placato). Eppure Spalletti al Napoli era tra gli allenatori che esprimeva i concetti più interessanti, ai microfoni, andando oltre molte delle categorie su cui è impantanato il discorso comune. Mentre tutti parlavano di giochisti e risultatisti lui parlava di “spazio tra i corpi”. Dove è finito quello Spalletti?

 

 

Ogni volta che si è provato a parlare di tattica, Spalletti ha risposto soprattutto parlando di errori individuali. Ha così ignorato qualcosa di cui lui è certamente consapevole, e cioè che le due dimensioni sono sempre legate nel calcio: si sbaglia di più anche perché non si sa cosa fare, o si sbaglia di più perché non si è lucidi mentalmente, e non si è lucidi mentalmente anche perché non si hanno sicurezze tattiche e gli avversari arrivano da tutte le parti (“ti montano sopra” per usare un’espressione spallettiana). E poi non parlare di tattica era davvero impossibile, nel caleidoscopico cambio di moduli, approcci, undici, ruoli e strategie che Spalletti ha sperimentato sull’Italia – con un accanimento ottuso, quasi come se volesse dimostrare che, fosse andata male, almeno non potevano rimproverargli di non averle provate tutte.

 

Nonostante ciò, con i giornalisti si è comunque rifiutato di parlare di tattica – con l’effetto collaterale di peggiorare il tenore del discorso attorno alla squadra; in altri momenti ne ha parlato per negare tutto quello che i giornalisti gli contestavano. «Abbiamo sempre giocato così»; «Ho fatto la tesi a Coverciano sul 5-3-2 dopo gliela faccio vedere».

 

C’è stato un momento, in particolare, di questo Europeo in cui la nostra fiducia in Spalletti ha cominciato a vacillare.

 

Dopo un primo tempo con la Spagna giocato da cani bastonati, eravamo usciti miracolosamente sullo zero a zero. Passato il pericolo immaginavamo la reazione, tattica e mentale. Ci sarebbero state le sostituzioni, gli accorgimenti tattici, una reazione emotiva. Forse ci saremmo fatti forti di non aver subito gol alla fine di un primo tempo così negativo. Chi meglio di Spalletti avrebbe potuto mettere le cose a posto. Ci erano mancati giocatori in grado di tenere palla a centrocampo, palleggiare, darci la pausa dalla pressione asfissiante della Spagna. Ci serviva qualcuno in grado di reggere meglio di Di Lorenzo il terrificante duello con Nico Williams. Spalletti invece ha cambiato Jorginho e Frattesi con Cambiaso e Cristante. È passato a un 3-5-2 quasi del tutto reattivo, che confermava la nostra paura e che sembrava una rassegnazione alla superiorità della Spagna. A quel punto avremmo solo potuto contenere i danni. Cristante era stato messo per vincere i duelli e Cambiaso per aiutare Di Lorenzo su Nico Williams. Cristante è stato ammonito dopo trenta secondi e Nico Williams ha provocato l’autogol di Calafiori quasi alla prima accelerazione sulla sinistra. Il secondo tempo, in generale, non ha offerto nessun elemento positivo a cui poterci aggrappare, tranne quando è entrato Zaccagni e abbiamo giocato con due esterni offensivi larghi.

 

Contro la Croazia, Spalletti ha invece scelto di nuovo un 3-5-2 molto diverso da tutte le formazioni mandate in campo fino a quel momento. L’Italia ha smesso di pressare, o almeno ha smesso di saperlo fare. Il principale strumento tattico dell’Italia – l’aggressione e la riaggressione, scritto nei comandamenti da Spalletti stesso – è scomparsa. Ci siamo rifugiati nella nostra coperta di Linus: il 3-5-2, le difese intorno all’area, una passività tremebonda. Contro la Svizzera siamo tornati alla difesa a quattro, ma avendo perso per strada ormai tutti i principi. Se volete un riassunto della nostra disintegrazione tattica c’è la puntuale analisi di Fabio Barcellona.

 

Da quei due cambi a fine primo tempo con la Spagna, e poi dall’undici scelto contro la Croazia, non riconoscevamo più Spalletti. Era ancora lui? Oppure ci avevano inviato in panchina il suo doppelgänger malvagio? Uno che non riesce più a ricucire la contraddizione tra le idee conservatrici fuori dal campo e innovatrici dentro. Una evil turn imprevista.

 

Nelle ore successive alla sconfitta, quelle delle analisi isteriche, diversi editoriali hanno dato una chiave di lettura diversa. Visto che l’Italia non dispone di grandi talenti allora Spalletti avrebbe dovuto praticare un gioco semplice. Per gioco semplice, ovviamente, si intende un gioco difensivo, reattivo, umile. Eppure è proprio quello che ha fatto l’Italia, senza riuscire a farlo. Nel momento di difficoltà, la stampa reazionaria invoca sempre il ritorno al catenaccio, e lo desidera così tanto che non riesce nemmeno ad accorgersi quando un allenatore la accontenta, come ha – più o meno involontariamente – fatto Spalletti in questo Europeo. Flavio Briatore, interrogato forse in veste di nuovo Maestro dei Sussurri di Allegri, ha detto che parlando con l’ex allenatore della Juve ha capito qual è il problema: è che «scimmiottiamo il gioco delle altre Nazionali». Eppure l’Italia è la quarta squadra col PPDA più alto, quindi tra quelle che pressavano meno, o peggio, in tutto l’Europeo – dietro soltanto a Georgia, Slovenia e Albania.

 

Parliamo del ritorno al nostro DNA difensivo come un trucco, un’interruttore da premere in caso d’emergenza, ma non funziona così. Giocare con uno stile reattivo, senza pressing e senza una fase di possesso ambiziosa, è oggi più difficile che nel passato, figuriamoci farlo con una squadra non allenata per farlo, con giocatori inadatti. Spalletti aveva immaginato una squadra fluida e che pressava, con difensori partecipi della manovra col pallone, anche per assecondare le loro caratteristiche e il gioco che sono abituati a fare nei loro club. Se avesse voluto giocare in modo reattivo e difensivo, come a un certo punto abbiamo fatto, forse avrebbe dovuto puntare su più giocatori della Juventus, ma Locatelli – il miglior mediano italiano per letture difensive – non è stato proprio convocato. Motivando la sua esclusione Spalletti ha detto che «forse è un po’ troppo conservativo per dove sta andando il ruolo». In quella posizione ha finito per giocarci, fuori dalla sua zona di comfort, una mezzala come Nicolò Fagioli, infilato da tutti i lati dalle verticalizzazioni di Akanji e Xhaka.

 

E allora perché Spalletti è passato a un atteggiamento così difensivo? È stata interamente una scelta oppure l’Italia semplicemente non è più stata in grado di pressare? Gli avversari ci hanno schiacciato contro la nostra volontà? Nel caso, cosa sarebbe peggio?

 

La verità sembra stare nel mezzo, ma di certo l’Europeo sta dimostrando che non serve avere una rosa di altissimo livello per giocare un calcio ambizioso – o comunque un calcio simile a quello che voleva fare l’Italia di Spalletti. La Svizzera, in fondo, ha finito per batterci con le armi che pensavamo fossero nostre: pressing, palleggio, fluidità posizionale. Ci ha battuto in modo netto e inequivocabile, facendoci sembrare una squadra minore. Eppure è difficile dire che la Svizzera disponesse di più talento di noi, come ha suggerito Spalletti usando una categoria vaga come quella della “gamba”. Che intende Spalletti dicendo che in rosa non c’erano giocatori “di gamba”? Frattesi, Barella, Calafiori, Chiesa, Folorunsho, Zaccagni, Bellanova (mai utilizzato) non sono giocatori “di gamba”?

 

Guardando l’Italia giocare contro la Svizzera, abbiamo avuto l’impressione di una squadra quasi ammutinata, in autogestione, o comunque del tutto scollegata dalle idee del suo allenatore. Le interviste nevrotiche e cupe di Spalletti allora sono state allora forse un sintomo del suo più generale burnout mentale. Come gli era successo già alla Roma con la situazione Totti, di fronte alle difficoltà e alla pressione che si alza, Spalletti entra in modalità auto-distruttiva. Diventa paranoico, corrosivo, invece di provare a spegnere la tensione la alza scegliendo la strada del conflitto permanente.

 

Dopo la partita con la Croazia un giornalista gli ha chiesto se non c’era forse un patto fra lui e la squadra nella scelta della formazione. Un’osservazione che da fuori pare innocente, e che lo manda completamente in tilt. Sostiene che qualcuno glielo avrebbe confidato al giornalista, implicitamente ammettendo che potrebbe essere vero, e poi impazzisce: «Quanti anni ha lei? 51. Ha ancora 14 anni di pippe per arrivare a 65, per arrivare alla mia età… Io parlo con i giocatori, io debbo saper ascoltare con i loro orecchi e vedere con i loro occhi. Patto di cosa? Patto per gli altri? È un patto per noi…. Glielo hanno detto e fa bene a ridirlo». Poi dice che non avrebbe dovuto dirlo, e che chi dice delle cose che sono interne fa il male della Nazionale. Un monologo che avremmo voluto vedere interpretato da Al Pacino, e che ricorda altri sbrocchi magistrali di Spalletti – «C’è un topino a Trigoria. Ma è un topino un po’ sordo, perché riporta le cose sbagliate». (Per gli appassionati del genere, anche la richiesta del nome del giornalista svizzero che aveva detto che l’Italia era una Panda, è un classico. “Come ti chiami”, “Qual è il tuo nome” sono classici delle interviste spallettiane più folli).

 

 

Queste conferenze pittoresche hanno sempre fatto parte, dunque, di Spalletti, e ci ricordano un lato del CT che forse avevamo dimenticato dopo la grande impresa dello scudetto del Napoli. Lo Spalletti che alza la tensione all’inverosimile, che trasforma le conferenze stampa in terreno di guerriglia, e che vede le proprie squadre accartocciarsi nella tensione dei momenti decisivi. Non lo Spalletti ecumenico, padre della patria, che sembrava essere un anno fa, capace di gestire tutto con mano calma, ma un allenatore che vuole il caos e prolifera in esso. In un torneo breve come l’Europeo, con un gruppo fragile e delicato come la Nazionale, non ha funzionato. La confusione nelle interviste si è tradotta in confusione tattica – e forse c’è stata davvero la difficoltà a calarsi nel ruolo di CT, diverso da quello di allenatore. Sapevamo di non essere i più forti o i più talentuosi, ma non sapevamo di essere anche mal allenati. In questo forse abbiamo chiesto davvero troppo a Spalletti – che ha finito per darci anche meno di quanto fosse lecito aspettarsi.

 

Con più tempo a disposizione ora il CT avrà modo di capire quali sono i giocatori a cui affidarsi, e che tipo di squadra costruire. Non qualificarsi al terzo Mondiale di fila sarebbe una catastrofe inimmaginabile, la tensione sarà subito alle stelle, Spalletti come penserà di gestirla? Dopo l’eliminazione ha detto altre cose squalificanti nei confronti dei giocatori, con una violenza irrituale per il proprio ruolo. Ha detto che quando ha chiesto chi se la sarebbe sentita di battere i rigori, in caso di pareggio con la Svizzera nei 120′, in pochi hanno alzato la mano. Che non ci sono leader e riferimenti. Che vuole ringiovanire ulteriormente la squadra, e prendere giocatori con caratteristiche diverse.

 

Sembra promettere una tabula rasa, eppure il gruppo sembra più o meno questo, a chi si riferisce Spalletti quando parla di altri e più giovani giocatori? Quelli che rimangono cosa pensano di Spalletti, credono ancora in lui, si fidano? Come hanno preso queste interviste in cui tutta la colpa gli è stata addossata? E Spalletti crede davvero a quello che dice o sono parole a caldo generate dalla troppa tensione?

 

Spalletti è davvero in grado di gestire lo stress mediatico che si ha da CT della Nazionale durante un grande torneo internazionale?

 

C’è una frase detta nella famigerata conferenza post-Croazia passata in sordina, e che invece secondo me dice molto di ciò che rende Spalletti imprevedibile e incline all’auto-distruzione. Forse, chissà, contiene anche la soluzione al problema: «Io non voglio che mi si metta ancora più pressione di quella che mi mette addosso la gente. Io reagisco perché me lo inietto da solo il veleno».

 

Quindi ci siamo avvelenati da soli?

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).