Millonarioscontro
Negli anni ’40, tanto il loro gioco era ben rodato, lo storico giornalista Borocotó coniò per il Club Atlético River Plate un soprannome che avrebbe fatto storia, finendo per essere applicato a ogni squadra che avesse dimostrato ingranaggi ben oliati e un’organizzazione superiore alla media: La Máquina. È un apodo che calza bene, a conti fatti, anche a questo River del Muñeco Gallardo, puntera della Primera in corso e, soprattutto, finalista di Copa Libertadores diciannove anni dopo l’ultima apparizione all’ultimo atto della competizione.
L’altro soprannome che il River si guadagnò in quegli anni per la disinvolta capacità di spesa, e che si è appiccicato alle trame della maglia dalla banda roja fino a divenirne inscindibile, è quello di Millonarios.
Oggi, però, il River milionario lo è mica più tanto: «Se non ci fossimo qualificati per la fase a eliminazione diretta della Libertadores avremmo subito un forte impatto economico: la strategia finanziaria per mantenere questa rosa l’abbiamo pianificata solo in funzione del cammino in Copa», ha dichiarato il direttore sportivo dei Millo Enzo Francescoli.
Dopo essersi qualificata ai quarti di finale grazie agli incidenti della Bombonera e alla successiva squalifica dei rivali storici del Boca, il River ha visto la strada verso la doppia finale spalancarsi come un’autostrada a tre corsie di notte. Per questo, alle porte della semifinale, ha deciso di investire sul mercato. Ovviamente, in maniera proporzionale alle sue possibilità. Ha speso 5 milioni di dollari per assicurarsi Bertolo, Alario e Tabaré Viúdez; ma per far quadrare i bilanci si è anche visto costretto a cedere Téo allo Sporting Lisbona, Pezzella al Betis e Mora, l’attaccante uruguayano eroe della semifinale contro il Guaraní, ai sauditi dell’Al Nassr.
Un’ulteriore riprova della strategia al risparmio del River, vieppiù ammantata di nostalgia, è il fatto che in rosa i Millonarios possano oggi contare, quattordici anni dopo questa foto, ancora su Cavenaghi e Saviola, entrambi acquistati, di ritorno dall’Europa e ognuno coi suoi tempi, a parametro zero.
Nella finale di stanotte, dopo averli affrontati già per tre volte (due nella fase a gironi, una nella finale d’andata, tutte partite terminate in parità), i Millonarios si troveranno di fronte i nuovi millonarios del calcio latinoamericano, che nella stessa parentesi di mercato - e con il medesimo afflato, la conquista della Libertadores - hanno speso sei volte tanto rispetto ai più quotati e prestigiosi rivali: i Tigres UANL di Monterrey.
Il gioco di parole sui soprannomi, al di là del calembour, è significativo del potenziale spostamento dell’asse geografico della supremazia calcistica latinoamericana cui potremmo star per assistere: vincendo la Libertadores i Tigres scriverebbero una pagina di storia del calcio americano (il Messico, nella sua ventennale esperienza in Copa, non ha mai trionfato con una sua squadra), ma soprattutto si affermerebbero, in maniera prepotente e su scala mondiale, come icona non più esotica ma globale del nuovo calcio dei ricchi.
La rosa dei Tigres, ai nastri di partenza della Libertadores 2015, era in termini di valore economico la quinta della competizione, la prima non brasiliana. Tutto questo al netto della campagna di rafforzamento monstre di giugno.
Una questione morale
Quella dei Tigres UANL (che sta per Universidad Autónoma Nuevo León) è una squadra relativamente giovane: fin dalla sua fondazione, avvenuta neppure cinquant’anni fa, e fino al ’96 è dipesa economicamente, giuridicamente e moralmente dall’Università che porta inscritta nel nome, e che ha sede a Monterrey.
Monterrey si trova a duecento kilometri scarsi dalla frontiera con gli Stati Uniti: non stupisce che i regiomontanos, tradizionalmente, abbiano dimostrato una predilezione per gli sport americani più diffusi. I Sultanes, la squadra di baseball di Monterrey, è una delle più amate (e forti) dell’intero Paese. Anche se l’affetto quasi tantrico che la afición di Monterrey ha da sempre riversato sui Tigres ha radici ben salde.
Lo stadio Universitario di San Nicolás de las Garzas, sobborgo periferico della città, è sempre completo quando giocano i Tigres: quarantamila ruggiti rendono il compito di comprendere da cosa derivi il soprannome El Volcán discretamente facile.
Se spogliassimo questo documentario di ogni riferimento alla città di Monterrey e, più in generale, al Messico, riusciremmo quasi a convincerci di essere in Argentina, tanto è calorosa la hinchada della UANL.
Le due scene che mi hanno più colpito, in questo documentario, sono quelle in cui la ragazzina quinceañera, cioè che festeggia il suo quindicesimo compleanno, un evento sociale molto sentito e coinvolgente a quelle latitudini, abbia scelto di farlo a El Volcán, senza rinunciare alla tradizione dell’abito vistoso ma anzi rendendolo più vistoso, giallo e blu con lo stemma della squadra tra i seni acerbi.
E poi l’intervista a el tigre veracruzano, il tifoso che per ogni partita casalinga dello UANL inforca il volante della sua auto pimpata e macina quelle sedici ore e rotte di autostrada che, stando a Google Maps, separano Veracruz da Monterrey.
La passione incondizionata, il coinvolgimento entusiasta della massa popolare, in Argentina è così assodato da non fare neppure notizia.
Il punto di rottura, l’elemento conturbante, è che mentre in Argentina i club calcistici sono di tipo associativo, i Tigres messicani, in realtà, sono di proprietà di una corporation schiacciasassi: i tifosi insufflano ánimo all’interno di una realtà concepita, dall’esterno, come senza anima.
Lo strano mélange che ne deriva è quello di un Anzhi coi tifosi del Boca.
Una questione economica
Intorno alla metà degli anni Novanta la UANL si è resa conto che gestire i Tigres, in un panorama come quello del calcio moderno, era una strategia lose-lose, poco (per nulla) remunerativa e destinata al fallimento.
Per questo ha deciso di cedere la gestione del club alla Sinergia Deportiva, una società di management sportivoriconducibile alla Cemex.
La Cemex è una multinazionale specializzata in materiali edili, elementi di costruzione, perlopiù cementi, con più di un piede nel mondo del calcio: è la Cemex ad aver fornito, ad esempio, i cementi per la costruzione dell’Arena Amazonia di Manáus in occasione degli ultimi mondiali brasiliani.
Nel 2014 la Cemex ha sviluppato un giro d’affari di 157 milioni di dollari: ha succursali e centri di produzione sparsi per 50 paesi nel mondo, e un corpo dipendenti di quasi 44mila impiegati. Esclusi i venti membri della rosa dei Tigres.
«Per il nostro club i soldi non sono mai stati un problema», ha detto Johnatan Llanes, membro del gruppo di tifosi Libres y Lokos, il cuore pulsante della torcida dei Tigres, in un’intervista recente a France Football. «Il fatto è che a lungo li abbiamo spesi male», ha aggiunto, riferendosi probabilmente ai primi dieci anni di gestione di Sinergia Deportiva: nel ’97, per dire, la Cemex spese due milioni di dollari per portare a Monterrey Emil Kostadinov, il bulgaro che si era rivelato letale per la Francia nelle qualificazioni a Usa ’94 e che in Messico tutto ebbe tranne che la stessa forza d’urto.
I gloriosi anni in cui giocatori al limite del pensionamento sceglievano di calcare i campi messicani: Iván Zamorano giocò con l’América, Emilio Butragueño scelse il Club Celaya, Bebeto i Toros de Neza senza dimenticare la poetica e inquietante esperienza di Pep Guardiola coi Dorados di Sinaloa, una delle capitali del narcotraffico.
Le parole del Direttore Sportivo Miguel Ángel Garza dicono molto della progettualità stesa Sinergia Deportiva - e del conseguente ritorno d’orgoglio - per fare dei Tigres una realtà vincente: «Posso dirvi (sempre a France Football, NdA) che i nostri mezzi sono all’altezza di quelli dei grandi club europei. Dal 2010 abbiamo intrapreso un cambio di direzione, abbiamo lanciato un progetto per fare dei Tigres un club competitivo a livello internazionale, un club che oggi potrebbe giocarsi i primi posti in ogni grande campionato europeo».
Dev’essere sull’onda di questa visione, entusiasta fino all’utopia, che per festeggiare il decennale della gestione di Sinergia Deportiva la Cemex ha invitato nella bocca de El Volcán nientemeno che il Barcellona campione d’Europa in carica.
L’elevato tasso di spettacolarità di Ronaldinho, la presenza di una bandiera del calcio messicano come Rafa Márquez, quella del giovane crack Gio: la Cemex non poteva scegliere uno spot migliore per autocelebrarsi e per incensare il Paese. Finì 3 a 0 per i blaugrana.
Oggi i Tigres sono una delle squadre con la media stipendio per giocatore più elevata del Messico e abbastanza in linea con buona parte del calcio europeo, che si aggira sui 150mila dollari al mese per calciatore. Un monte ingaggi pari a quello di Verona e Chievo messe insieme.
«Seguiamo il mercato europeo, perché ci sono paesi in cui la crisi impedisce alle squadre di pagare i giocatori, o di pagarli quanto li pagavano prima, e allora lì si apre una possibilità per noi». Alejandro Rodríguez, il presidente dei Tigres, ha ben chiara la direzione impressa dai vertici della Cemex per mezzo della longa mano di Sinergia Deportiva: sostenere una spesa come quella dell’ingaggio di un calciatore proveniente dall’Europa (nella fattispecie il presidente si riferisce all’acquisto, abbastanza inatteso e controtendenza, di André-Pierre Gignac) può rivelarsi un ottimo investimento nella misura in cui permette di dischiudere una nuova proiezione imprenditoriale, di captare (e cooptare) nuovi mercati, di attirare investitori e sponsorship: in una parola, di fatturare di più. Espandersi.
È innegabile che un’eventuale conquista della Libertadores apporterebbe una dose massiccia di prestigio che presto si tradurrebbe in appetibilità su nuovi mercati sia dei Tigres che della Cemex, e di conseguenza su succose offerte economiche. Vincere la Libertadores significherebbe partecipare al Mondiale per Club 2016 (paradossalmente i Tigres potrebbero addirittura regalare la qualificazione anche al River, se trionfassero nella Champions della CONCACAF), vale a dire visibilità all’ennesima potenza.
Per questo Rogelio Zambrano, attuale CEO della Cemex, ha recentemente dichiarato che il colosso non mollerà tanto facilmente il calcio, e non venderà la squadra: «L’unica cosa che vogliamo è che sia campione. Perché? Perché siamo un’impresa competitiva e vogliamo che la nostra squadra sia campione».
Rogelio ha ereditato il timone della multinazionale da suo zio, Don Lorenzo Zambrano, morto nel maggio del 2014.
Affari, calcio, Messico e nuvole
Se dire Cemex è dire Monterrey, e dire Monterrey è dire Tigres, è sillogistico che dire Cemex sia dire Tigres: in entrambi i casi, il nome che prepotentemente emerge è quello di Don Lorenzo Zambrano.
Zambrano è stato tra i primi imprenditori, in Messico, a cogliere le potenzialità della globalizzazione: dopo essersi aggiudicato quasi la metà del volume d’affari nazionali che gravitano attorno al cemento in quindici anni ha espanso la sua forza di penetrazione sul mercato statunitense, prima, su quello mondiale subito dopo.
Un bell’articolo di Ezequiel Fernández Moores su Canchallena de La Nación restituisce bene la misura di quanto imponente fosse la sua figura: economicamente, ma non solo. Quando è morto, a Madrid, il suo feretro non entrava nel jet privato: per questo la Cemex ha sborsato più di seicentomila dollari per affittare un Airbus330 cargo, per trasportare la sua salma a Monterrey in tempo per i funerali, il giorno successivo, svoltisi alla presenza del presidente della repubblica messicano Peña Nieto.
Inviso dalla sinistra messicana, che gli rimproverava di supportare le mafie e i cartelli al potere, Zambrano ha finanziato per trent’anni governi di tutti i colori. È stato inserito più volte nella lista Forbes dei dieci uomini più ricchi del mondo, ma la sua vena più celebrata è quella di filantropo visionario e innovatore: dopo aver rilevato i Tigres dalla UANL ha continuato a versare nelle casse dell’Università il 50% dell’utile prodotto dal club.
Durante la cerimonia di apertura del Clausura 2014 i Tigres hanno dedicato un tributo decisamente pomposo alla figura del patron, uno di quei tributi tutti valori positivi, fiori bianchi, canzoni alla memoria che si dedicano ai Padri Della Patria, e che non sembrano mai sinceri fino in fondo, o disinteressati.
La LigaMX, il massimo campionato messicano, è strutturata sulla falsariga della MLS: le sue squadre sono franchigie, e la proprietà delle franchigie è appannaggio delle corporation più potenti del paese. Anzi, c’è di più: le corporation possiedono anche più di un club. Se non fosse già abbastanza monopolistico, il mercato calcistico messicano, dobbiamo considerare che le stesse multinazionali sono proprietarie di importanti quote delle imprese in possesso dei diritti TV. In alcuni casi limite, più che sparuti in verità, sono imprese televisive stesse (tipo Televisa) a detenere la maggior parte delle quote societarie delle squadre (nel caso specifico di Televisa, dell’América di Città del Messico, uno dei club più titolati). Se sostituissimo Parco dei Giardini con i Chivas Guadalajara e Bastioni Gran Sasso con i Pachuca avremmo una versione calcistica e messicana di Monopoly.
Il business della LigaMX è esploso in maniera inarrestabile a partire dal 2012, ovvero dal momento in cui ha cominciato a interessarsi del fútbol nazionale il magnate delle telecomunicazioni Carlos Slim, a lungo l’uomo più ricco del mondo, uno che per intenderci produce un volume d’affari pari al 5% del PIL messicano. In America Latina, sette telefonate su dieci passano attraverso le sue reti.
Nel 2012 Slim ha acquisito una quota di minoranza, ma importante, del Pachuca e del León: contingentemente ha rivoluzionato in maniera definitiva l’assetto dei diritti TV, perché ha venduto l’esclusiva per le sue squadre a FoxSports, cioè alla diretta concorrente di Televisa e TV Azteca, cioè le società proprietarie di club rivali. Determinando così un quadrante chiaro tanto quanto la provenienza della disponibilità del Querétaro, il club di Ronaldinho, accusato di essere foraggiato dal riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga.
«Il calcio dà visibilità e prestigio, e ogni vittoria è sempre la vittoria di un gruppo economico su un altro, in Messico», dice un sociologo a un certo punto del pezzo di Fernández Moores.
Ora la LigaMX ha deciso che dal 2018 la multiproprietà non sarà più considerata legale. Nel frattempo lo scenario del campionato ha almeno altri tre anni davanti per farsi più ingarbugliato, pericoloso, colluso coi poteri oscuri e sommersi che circolano come metastasi impazzite nell’organismo-Messico.
La scadenza a orologeria dello status quo è stato deciso al termine di una riunione tra i proprietari delle franchigie della LigaMX che si è tenuta al sesto piano del palazzo sede della Federazione Calcistica Messicana. La sala che ha ospitato la riunione, significativamente, era intitolata a Joseph Blatter.
Un fallimento sportivo esemplare?
Juan Villoro è uno scrittore e giornalista messicano, che non disdegna parlare di calcio, anzi: ex calciatore lui stesso, con un passato nelle giovanili dei Pumas della UNAM, la squadra resa famosa dall’eccentrico portiere Jorge Campos, ha un approccio trasognato al calcio che mi è subito sembrato assai poetico e per questo, in qualche modo, stridente con la prosaicità dell’attuale scenario calcistico messicano. Ho letto una sua frase, nell’articolo di Fernández Moores, che mi ha dato l’impressione di essere eloquente del suo approccio: si parlava del Necaxa, la sua squadra del cuore (oltre al Barcellona), e della difficoltà a svincolarsi dalle ingerenze delle multinazionali. Il suo sentimento di resistenza era tutto racchiuso in queste parole: «L’ultima cosa a cui dobbiamo continuare a essere fedeli, nella vita, è la nostra infanzia».
Juan Villoro in tribuna allo Stadio Azteca di Città del Messico.
Ho raggiunto Juan Villoro via mail, grazie all’intermediazione di Alessandro Raveggi, per fargli alcune domande. Ero curioso di sapere se secondo lui la recente vittoria in Copa de Oro de La Tri e questo appuntamento con la Storia che aspetta i Tigres potessero in un certo senso rappresentare il Momento Culminante della storia calcistica messicana recente. «Niente affatto», mi ha risposto, «la Copa de Oro è stata vinta già altre volte, senza che si trasformasse in qualcosa di trascendente, e già altre squadre sono arrivate alla finale di Libertadores. Piuttosto sono stati più importanti i trionfi nei campionati mondiali Sub17 o la medaglia d’oro nei Giochi Olimpici. Il problema è che al momento di crescere e professionalizzarsi i calciatori messicani si scontrano con il sistema calcistico nazionale, che ha una predilezione per gli affari più che per lo sport. E così finisce che campioni del mondo adolescenti si trasformano in adulti mediocri».
Non è complicato trovare, nelle parole di Villoro, l’insoddisfazione per l’attuale conformazione del calcio messicano. «Così com’è, la LigaMX è un meraviglioso business. Anche la Nazionale: è la quarta in termini di giro d’affari. Il problema è che i profitti non hanno niente a che vedere con il rendimento sportivo, e si ripercuotono piuttosto sulla passione della gente».
Quindi il modello delle corporation, della Cemex che foraggia una squadra proprietà di un’università fino a portarla all’ultimo gradino della scalinata continentale, non è un modello vincente, gli chiedo. «No, anzi: quello dei Tigres è stato un fallimento sportivo esemplare. È una delle squadre che ha vinto meno negli ultimi vent’anni, che ha cambiato più allenatori e tesserato più giocatori. E la LigaMX è così instabile che chiunque potrebbe vincerla. Non esiste una ricetta economica per il successo».
Una questione morale, encore (o meglio: una questione di Responsabilità Sociale)
La Cemex Way, la strategia societaria di doppia velocità che porta a investire sul mercato globale e su microrealtà locali, secondo i vertici del colosso economico è applicabile anche al connubio business-cultura, se nella branca culturale aggiungessimo anche, e non avrebbe motivo di non ricevere cittadinanza, il calcio.
Don Lorenzo è stato nel tempo anche patrocinatore del Premio Nuevo Periodismo Iberoamericano della fondazione Gabriel García Márquez (che una volta lo ha definito “Lorenzo, Il Magnifico”) e massimo sostenitore del MARCO, il Museo de Arte Contemporáneo di Monterrey.
Le Academias Cemex-Tigres sono nate per dare supporto alle comunità in cui Cemex opera: «lo sport è qualcosa che aiuta a rafforzare il benessere delle comunità, a integrare famiglie, a dare un’educazione sana e a far rimanere fuori dalla strada i ragazzi», spiega nel documentario la ragazza volontaria del programma, un filo orgogliosa.
Ogni anno in Messico più di mille minori muoiono per cause direttamente connesse al narcotraffico e alla malavita organizzata, e più di cinquemila vengono internati in riformatorio.
Impegnarsi nelle scuole calcio, viaggiare a Monterrey per disputare tornei tra Academias, andarci con i genitori, vedere luoghi che le loro condizioni socioeconomiche probabilmente mai gli permetterebbero di visitare è una maniera come un’altra, nei piani di Cemex, per migliorare la vita delle comunità che vivono sulla loro pelle l’installazione di centri produttivi: è parte del loro programma di Responsabilità Sociale. Oltre che, calcisticamente, una strategia lungimirante per creare in casa i futuri prospetti di domani, senza doverli andare a cercare in Europa.
Ruggiti
Ciò che sono i Tigres oggi è frutto del contesto economico che attorno ai gialloblu gravita, ovviamente, ma anche il risultato di un progetto tecnico coerente, perseverante, per certi versi coraggioso.
Da 5 anni, cioè dal 2010, ovvero dal momento in cui Sinergia Deportiva ha deciso di fare dell’UANL una squadra vincente, l’allenatore è il brasiliano Ricardo Ferretti de Oliveira, più noto col nome di Tuca.
Tuca ha preso la squadra in mano nel Maggio del 2010: all’epoca lottavano per mantenere un posto in LigaMX, nel giro di diciotto mesi li ha portati a vincere un campionato che mancava da 29 anni.
Le squadre di Tuca (e i Tigres di Tuca non fanno eccezione) non sono belle: non hanno paura di fare le peggiori cose, se servono, come arroccarsi in difesa o giocare con veemenza sull’avversario. Ma in generale sono ben organizzate, solide, combattive. Tuca non cerca mai il dominio dell’avversario, ma un gioco che possa essere efficace. Non si allunga, non si sbilancia: i suoi uomini, se necessario, tirano molto da lontano.
Anche se l’avversario, il club peruviano Juan Aurich, non era propriamente il meglio che si potesse incontrare in questa Libertadores, i Tigres dimostrano di giocare in maniera massimamente coerente ai dettami del Tuca: 4-4-2 come da tradizione, con due centrali di centrocampo e due ali che si muovono su e giù come le carte nella Teresa. Il cuore della squadra è solido, di cemento, eppure armonico. In occasione del secondo gol Guerrón sfrutta in maniera fatale (massimizzando il risultato) un contropiede. Il terzo gol, di Dueñas, arriva con un colpo di balestra scoccato da venti metri, che era la soluzione più semplice e meno rischiosa rispetto a un passaggio in profondità verso un compagno.
Sinergia Deportiva ha piena fiducia nel Tuca: «Ha un contratto fino a quando... non decide di andarsene». Nelle ultime settimane, dopo il licenziamento del Piojo Herréra da DT de La Tri, si è molto parlato di un possibile avvicendamento con il brasiliano.
Anche se lo stesso Ferretti ha smentito in maniera colorita, classica del personaggio: «L’ho già detto anni fa: l’unico posto che proprio non mi interessa è quello di DT del Messico. Se mi offrono un posto da spazzino magari mi interessa, ma allenatore della Nazionale no, non più; sono stato candidato già quattro volte e non chiedetemi perché non ci sono andato; ma neppure se fosse l’ultimo posto del mondo da allenatore ci andrei».
«Capace? Certo che mi sento capace, se mi fosse andata l’avrei guidata io, la Tri; ma non mi interessa. Non c’ho mai pensato, anzi sì, però no, mi impigrirei. Perché devo pensare a qualcosa che non mi piace?”. Ditemi come si fa a non volergli bene, a uno come Tuca.
Costruire un’armata
I risultati della crescita dei Tigres sotto la gestione Ferretti, al di là della vittoria del campionato, si sono dimostrati in tutta la loroevidenza a cavallo tra l’Apertura 2014 e la fase a gironi della Libertadores quasi all’epilogo.
Nel 2014, per esempio, hanno inanellato 14 match da imbattuti. Tanto che a un certo punto andava di gran moda l'associazione tra le parole Tigres e “invicto”: qua per esempio l’UANL demolisce gli Alebrijes de Oaxaca e conquista la CopaMX Clausura 2014 da imbattuto.
Nella Libertadores 2015 è stata la seconda migliore squadra della fase a gironi: ha conquistato 14 punti sui 18 disponibili, con quattro vittorie e due pareggi (entrambi con il River Plate). Solo il Boca ha saputo fare di meglio, qualificandosi a punteggio pieno, sebbene i rivali del girone non fossero neanche lontanamente paragonabili almeno ai Millonarios.
Analizzare oggi il cammino della prima fase, ma anche le vittorie contro i boliviani dell’Universitarios Sucre eliminati agli ottavi o l’EMELEC di Guayaquil archiviata ai quarti, però, sembra un’operazione al Carbonio 14, un approfondimento su un’era geologica lontana. Perché quei Tigres, sebbene ne conservino l’ossatura, non possono essere considerati gli stessi Tigres che possono contare sull’apporto di giocatori di un’altra categoria come Damm, Aquino e soprattutto Gignac, tutti giunti nel Draft dello scorso giugno.
(infra) Saper comunicare
La crescita esponenziale dei Tigres è passata anche attraverso un ampliamento dei suoi piani commerciali e comunicativi: quasi di pari passo con l’arrivo di Ferretti in panchina è andata a occupare la posizione di direttore commerciale e della comunicazione Beatriz Ramos. Beatriz, secondo la rivista Expansión una delle 100 donne più influenti del Messico, è stata la prima donna a ricoprire un incarico direttivo con potere decisionale nel calcio messicano. La sua mission, oltre che risanare i bilanci, è stata - e continua ad essere - quella di «pensare a una serie di sforzi costanti per ridare ai nostri tifosi almeno una parte dell’affetto che ci dimostrano tutti i giorni», una maniera edulcorata di dire che il risultato cui punta, alla fine della fiera, è quella di costruire una base di afición che travalichi i confini nazionali e vada a creare potenziali consumatori anche al di là della frontiera con gli Stati Uniti.
E a giudicare da come è riuscita a far indossare la maglia dei Tigres ad Adam Sandler e Rob Schneider c’è da dire che lo sta facendo molto bene.
Je suis allé au marché aux footballeurs. Et j’ai acheté un footballeur. Pour toi, mon amour
Una delle migliori definizioni di perturbante è quella di HP Lovecraft, secondo il quale non è più straniante che ci sia un assassino a bussare alla tua porta di notte, ma che un’aiuola di tulipani cominci all’improvviso a cantare. Nel senso della metafora, gli assassini notturni che arrivano alla LigaMX sono i calciatori a fine carriera: il tulipano canterino, invece, è André-Pierre Gignac.
Gignac ha disputato, nel 2014-15, una stagione molto positiva nell’OM di Bielsa, laureandosi secondo miglior cannoniere della Ligue1. A trentatré anni è un calciatore bello e fatto, ma lungi dall’essere in limine al ritiro. Non mi sarei stupito se l’avessi trovato, quest’anno, nel roster di partenza di una squadra della Premier League.
Hashtag: #Gignacfastandfurious. E poi se era l’uomo perfetto per Bielsa non vedo perché non dovrebbe esserlo per Tuca Ferretti.
Gignac, invece, è finito per essere l’uomo copertina di un campionato intero (il più pagato, con uno stipendio che supera del doppio quello del suo collega Roque Santa Crúz). In Francia è stato molto criticato per la sua scelta, a detta di molti esclusivamente influenzata dall’onorario, effettivamente allettante, di tredici milioni di dollari per quattro anni.
Io, al contrario, credo che per quanto unconventional l’idea di provare a essere il primo europeo a vincere la Libertadores sia davvero affascinante; per questo non me la sento di condannare quell’entusiasmo naif con il quale scrive #SoyTigre, e poi aggiunge «Sang bleu et blanc (Marsella, no de Rayados)» nella sua descrizione profilo dell’account di twitter (i Rayados, dalle maglie a strisce bianche e blu, sono la seconda squadra di Monterrey).
Un video di giocate di Gignac contro l’Internacional de Porto Alegre, al suo debutto internazionale con i Tigres. Mi piacciono soprattutto il tiro a incrociare e lo scavino delle ultime due azioni. Ma in generale mi pare che APG abbia tutto quel che serve per spopolare in America Latina: la garra, un atteggiamento discretamente chulo, la voglia di provarci sempre, anche contro le leggi della balistica.
Un mercato faraonico
André-Pierre Gignac, tuttavia, è solo la punta dell’iceberg (vieppiù appariscente) di una campagna di rafforzamento comunque massiccia.
Nel Draft di Cancún dello scorso giugno i Tigres hanno investito diciotto milioni di dollari per portare in auriazul gli ex calciatori del Villareal Uche e Aquino e per strappare al Pachuca, e alla concorrenza di club europei, il giovanissimo e promettente Jürgen Damm, vale a dire giocatori funzionali agli schemi di Tuca.
Una serie di giocate di Javier Aquino con il Villareal, il Rayo Vallecano e La Tri. La sua caratteristica principale è quella di puntare l’uomo, andarsene in velocità sulla fascia, creare superiorità.
Anche Damm porta nel suo feretro le medesime frecce di Aquino: qualità tecnica abbinata a un’impressionante capacità di scatto, quel tipo di propulsioni che ti permette di fare cose tipo questa e lasciare sbalorditi avversari e astanti:
Bisognerebbe capire come poter tradurre in messicano “swooooosh”.
Damm e Aquino sono andati a integrare una rosa già di primo livello, che può contare sul secondo di Romero tra i pali della nazionale argentina, Nahuel Guzmán; sul roccioso mediano della nazionale uruguayana Egidio Arévalo Ríos, sull’ecuadoregno Joffre Guerrón e sul brasiliano dalla carriera non direttamente proporzionale alle premesse (e al talento) Rafael Sobis.
In totale, il valore attuale della rosa dei Tigres supera i 50 milioni di dollari. Il premio che i calciatori andranno a ripartirsi in caso di vittoria finale, secondo quanto stabilito da Sinergia Deportiva, è di 4 milioni di dollari: non siamo ai livelli del Barcellona, ma ce n’è abbastanza per un passaggio di testimone su chi sia, in ultima battuta, il club Millonario d’America.
Almeno prima che il campo decida se è davvero tempo di assistere a un cambio di gerarchie, qualcosa che, forse perché inedito, non sappiamo capire bene se ci spaventi di più o ci affascini.
A Juan Villoro ho chiesto per chi tiferà stanotte: «Non ho una grande simpatia per i Tigres, ma neppure per il River. Se vinceranno i Tigres sarò contento per il calcio messicano. Ma se poi dovesse giocare contro il Barcellona (nella Coppa del Mondo per Club, NdA), allora tiferei per il Barcellona. Anche il patriottismo ha i suoi limiti».
E se dovessero vincere per davvero, i Tigres?, è stata la mia ultima domanda. L’ho invitato a immaginare questa distopia, perché io non riesco a contenerne tutti i potenziali effetti nel cervello senza farmi venire le vesciche. Se vincono i Tigres cosa succede?
«Che si genera un’altra distopia. Vale a dire che, magari, cominciamo pure a pensare che il calcio messicano sia davvero di buona qualità».