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Avevamo bisogno di Jakub Jankto
14 feb 2023
Il coming out è stato un gesto coraggioso e necessario.
(articolo)
6 min
(copertina)
Foto di Imago / Alterphoto
(copertina) Foto di Imago / Alterphoto
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Ci sono due modi, fondamentalmente, per far star zitta una persona. Una categoria di persone. Il primo è legarle a un palo e bruciarle come si faceva con le streghe. Oppure arrestarle e metterle in campi di sterminio, concentramento, rieducazione, come preferite. Il secondo modo, più semplice e pulito, è quello di ignorarle. Fingere di non sentirle, che quello che hanno da dire, cioè, non sia veramente importante. Ah, quindi Jantko è omosessuale? E c’era bisogno di dichiararlo?

Quella di Jakub Jantko è anzitutto una scelta storica perché, anche se non è il primo calciatore professionista omosessuale a dichiararlo mentre è ancora in attività, quelli venuti prima erano molto meno conosciuti di lui, e avevano quindi meno occhi addosso.

L’americano Robbie Rogers ha parlato della propria omosessualità nel 2013, ma contemporaneamente aveva annunciato il suo ritiro dopo una carriera che lo aveva portato fino in Championship, al Leeds, e a giocare qualche partita con la Nazionale americana. Poco dopo ha cambiato idea ed è tornato a giocare in MLS, ai Los Angeles Galaxy, per altri quattro anni.

Josh Cavallo, ventiduenne australiano, lo ha fatto nell’ottobre del 2021, ricevendo il sostegno di molti calciatori di alto livello, ma diciamoci la verità: nessuno tifoso di calcio europeo saprebbe chi è Josh Cavallo se non fosse stato proprio per quell’annuncio. E molti probabilmente non lo sanno nonostante in quel momento fosse l’unico calciatore omosessuale di un campionato di primo livello.

Ispirato da Josh Cavallo, lo scorso maggio è stato il diciassettenne inglese Jake Daniels a sentire la necessità di dichiarare il proprio orientamento sessuale - al momento di firmare il primo contratto da professionista - diventando il primo calciatore gay, europeo e in attività. Ma Daniels gioca ancora nell’under 18 del Blackpool, squadra di bassa classifica in Championship (al momento, anzi, è ultima). Si spera diventi un calciatore di alto livello ma non è detto, per ora non sappiamo come reagirà il pubblico inglese quando scenderà in campo con la prima squadra ma di sicuro aveva molto da perdere, anche, nel fare il suo annuncio.

Prima di loro, per trovare un giocatore omosessuale in attività bisognava risalire a Justin Fashanu, espulso di squadra da Brian Clough, che lo chiamava davanti a tutti bloody poof, più o meno checca del cazzo, morto suicida appena otto anni dopo il suo coming out. Da Fashanu in poi i calciatori omosessuali di alto livello hanno pensato bene di aspettare. Thomas Hitzlsperger, per esempio, nazionale tedesco con un passaggio trascurabile alla Lazio (appena sei partite), si è dichiarato dopo il ritiro. Ancora pochi anni fa Philip Lahm in un’intervista, e Patrice Evra nella sua autobiografia, hanno sconsigliato i giocatori omosessuali in attività dal dichiararsi. Secondo Evra chi lo avesse fatto sarebbe “finito”.

Nel 2012 Damiano Tommasi, all'epoca presidente dell'Assocalciatori, aveva dichiarato che «Il coming out è da sconsigliare» per non rischiare di diventare una macchietta dei giornali; in quelle stesse settimane Lippi aveva detto che in quarant'anni da allenatore non aveva mai visto giocatori omosessuali, mentre Cassano era stato ancora più chiaro: «Sono froci, problemi loro, speriamo che non ci siano veramente in Nazionale. Me la cavo così, sennò sai gli attacchi da tutte le parti». Se l'è cavata così.

Hitzlsperger, commentando sul Guardian la scelta di Daniels, gli ha augurato di trovare equilibrio nel portare avanti la carriera da calciatore e al tempo stesso il suo nuovo ruolo di ambasciatore della comunità gay nel calcio. Perché nessuno vuole essere inchiodato a un singolo aspetto della propria identità. Al tempo stesso Hitzlsperger sottolineava il valore di una decisione del genere per il semplice fatto che «sono sempre gli altri a ispirarci, a darci fiducia, finché non tocca a noi».

La parte veramente difficile per Jakub Jankto comincia ora. Jankto ha passato cinque stagioni in Serie A, ci riguarda anche solo perché qualcuno lo aveva al Fantacalcio, e ha giocato anche i quarti di finale di un Europeo. Ha ventisette anni ed è in un momento delicato della propria carriera, viene da alcune stagioni con problemi muscolari e il Getafe lo ha prestato allo Sparta Praga, squadra della città in cui è cresciuto (anche se è stato formato nelle giovanili dello Slavia). Anche lui non ha davvero niente da guadagnare dicendo a tutti i suoi gusti sessuali. Anche lui, da oggi in poi, dovrà tenere equilibrio due ruoli - uno dei quali non retribuito, oltretutto.

E quindi?, scrive qualcuno. E non hanno tutti i torti. In fondo è vero che oggi non mancano le manifestazioni di sessualità diverse da quella etero cis, persino su palchi più importanti di quello garantito a un ex calciatore di Serie A. Oggi Jankto ha uno spazio dignitoso nelle prime pagine dei quotidiani sportivi, domani chissà, di sicuro invece parleremo a lungo dei baci di Sanremo. Eppure il mondo del calcio fa eccezione. Si potrebbe dare per scontato che parte dei calciatori sia omoesessuale (come sicuramente lo è) e andare avanti, senza chiedere conferme o indagare, senza aspettarsi niente da nessuno, solo se all’interno del mondo del calcio fosse effettivamente una cosa comune e non taciuta.

Se i calciatori omosessuali, cioè, come hanno scritto Jankto e i pochi che lo hanno preceduto, non dovessero “nascondersi”. Se non sentissero di dover “mentire” per non avere problemi. «Come tutti, voglio vivere la mia vita liberamente», ha detto Jankto nel suo messaggio sobrio e conciso, vagamente istituzionale perché, ehi, mica sono cose che si dicono di slancio, spontaneamente, senza rifletterci e consultarsi con la propria cerchia.

E come facciamo a sapere se i calciatori omosessuali non devono nascondersi, se avevano ragione Lahm e Evra oppure se possono vivere la loro vita “liberamente”? Be’, abbiamo bisogno che più calciatori facciano il passo di Jankto. È un passaggio inevitabile.

Abbiamo bisogno che Jankto ispiri altri giocatori, come Daniels ha ispirato Jankto, probabilmente, come Cavallo ha ispirato Daniels, e così via. «Non sopporto il pensiero che ci siano giocatori nella stessa situazione in cui ero io», aveva detto Daniels. «Spero di aver fatto il mio dovere e di aver ispirato qualcuno altro a farlo». Jankto invece ha chiuso il suo messaggio dicendo: «Non sto scherzando. Il mio scopo è incoraggiare altre persone a fare lo stesso».

C’è tutta una dimensione politica che viene negata a questo tipo di dichiarazioni, ancor di più se vengono dal mondo dello sport (il solito shut-up and dribble). Un po’ come quei parenti di qualche generazione fa che dicevano che non c’era niente di male nell’essere gay però, insomma, potevano anche fare a meno di baciarsi in pubblico. Per non parlare dei gay pride. O di Sanremo. Perché se le cose devono cambiare, almeno lo facessero lontano dai nostri occhi. All'apparenza è meglio se restano sempre uguali.

Pochi mesi fa Iker Casillas aveva twittato: “Spero di venire rispettato: sono gay”. Puyol gli era andato dietro commentando: “È arrivato il momento di raccontare la nostra storia”. Casillas poi ha cancellato dicendo di essere stato hackerato, mentre Puyol ha parlato di uno scherzo che non voleva ferire nessuno. Uno scherzo che, però, aveva confermato la normalità, almeno quella del mondo del calcio, secondo cui l’omosessualità è una presa in giro, o addirittura un insulto, come ci aveva ricordato Sarri nel 2016.

Ben venga quindi Jakub Jankto a ricordare che l’altro aspetto di questa normalità è la paura con cui vive chi gay lo è davvero e fa il calciatore. Dire oggi che non c’è niente di strano nell’essere calciatori e omosessuali, anzi che è così normale che non c’è neanche bisogno di dirlo, sembra solo un altro modo per chiedergli di fare quello che vogliono nel loro privato ma di non mostrarlo, di continuare a nascondersi.

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