Quel pomeriggio allo stadio c'era una tensione pazzesca. Il 23 maggio 1993, a tre giornate dalla fine del campionato, la Fiorentina era quartultima e affrontava una specie di spareggio-salvezza contro l'Udinese, che la affiancava in classifica a 26 punti. Il primo tempo era stato un incubo, con Dell'Anno e Branca a portare avanti i friulani per 2-0 e il tedesco Effenberg che aveva accorciato le distanze su rigore a un passo dall'intervallo. Il secondo tempo era iniziato in un clima sudamericano in cui ansia, foga, isteria ed eccitazione si mescolavano e si completavano a vicenda. In tribuna d'onore Mario Cecchi Gori metteva ancora a dura prova il vecchio cuore malandato, mentre il figliolo Vittorio scattava in piedi ogni volta che la Viola arrivava a fatica nei venti metri avversari.
Al 60' Effenberg, glorificato quel giorno della fascia di capitano da uno spogliatoio in stato d'ebollizione, ricevette palla sul vertice sinistro dell'area di rigore, sterzò a destra e infilò il portiere Di Sarno sul primo palo, per l'entusiasmo di quarantamila tifosi. Il Vittorio non si tenne più: balzò ancora su e questa volta fece di più, scalando il parapetto di marmo, rimanendoci fermo in piedi e consegnandosi trionfante al ruggito della folla come fosse Farinata degli Uberti, nel delirio degli astanti e nello sconcerto del babbo che lo guardava e dalla testa sembrava uscirgli un fumetto: «O bischero, ma icchè tu ffai?».
Non è dato sapere se nell'animo di Rocco Commisso, newyorkese adottivo e dunque uomo di spettacolo per definizione, ci sia il proposito di un remake di quella fotografia memorabile, che peraltro sulle prime non portò neanche troppo bene alla Fiorentina, retrocessa in B prima del pronto ritorno in Serie A, con Claudio Ranieri in panchina, e di cinque-sei anni ruggenti con il "Re Leone" Batistuta e “Vittorione in balaustra” come da coro della Fiesole. Però è un fatto che l'entusiasmo portato da Commisso (una volta per tutte, con l'accento sulla 'o') nella depressa Firenze rimandi direttamente ai favolosi Novanta in cui la vita era più facile, l'Europa non era così lontana, Batistuta sbancava Wembley, zittiva il Camp Nou, spaventava il Barcellona di Ronaldo e Guardiola «e si potevano mangiare anche le fragole».
I due si assomigliano proprio e non solo, Vittorione ci passi la battutaccia, per l'italiano incerto. Ma anche per l'estro, la consapevolezza di dover stupire subito e in fretta, la conoscenza dello show-biz e la fascinazione per l'american dream: solo accarezzato dal troppo ingenuo Cecchi Gori, cui un pugno di Oscar con Salvatores e Benigni non diede mai l'accesso in pianta stabile al firmamento di Hollywood, ma pienamente realizzato dallo scaltro Commisso, arrivato in Pennsylvania a 12 anni da Marina di Gioiosa Jonica, provincia di Reggio Calabria, e adesso uomo da 5 miliardi di patrimonio e 2 miliardi di dollari di ricavi annuali al comando di Mediacom, quinta compagnia tv via cavo degli Stati Uniti.
Diverso dai proprietari muscolari alla Pallotta o alla Joe Tacopina, che anche quando si mostra al pubblico non nasconde i grossi bicipiti, Commisso pare l'italo-americano da cartolina, che sorride, accomoda e manda avanti il bisinìss a colpi di “ok?” e “you know”.
Una visione superficiale dell'uomo farebbe scattare paragoni in zona Scorsese o Joe Pesci, se non fosse che i personaggi di Joe Pesci nei film di Scorsese sono solitamente esecrabili. Se proprio dobbiamo metterla sul cinema – un argomento inevitabile quando si parla di sogno americano – piuttosto viene in mente (al di là dell'aspetto fisico) Richie DiMaso, il tignoso poliziotto italo-americano interpretato da Bradley Cooper in “American Hustle”, o in alternativa qualsiasi altro personaggio di David O. Russell, uno dei registi americani più positivi e ottimisti degli ultimi anni, che non a caso va fiero delle proprie origini calabresi da parte di madre. In una scena di quel film ambientato nel 1978, Bradley Cooper andava in cerca dell'amore e di una vita migliore ballando con Amy Adams (nata a Vicenza...) sulle note di “I feel love” di Donna Summer e Giorgio Moroder (quanti italiani...). E noi proprio da lì iniziamo: dalla disco-music che per primo Rocco Commisso mise a disposizione degli immigrati italiani al numero 4415 di White Plains Road, in pieno Bronx.
New York, 1975
Nell'estate del 1975 Rocco è un giovane uomo di 25 anni molto impegnato. Orgoglioso delle sue origini, ha sempre rifiutato di americanizzare il suo nome in “Rocky”. Si sta laureando in Ingegneria Gestionale alla Columbia Business School, ha già iniziato a lavorare alla Pfizer Pharmaceutical e nel tempo libero vola a Toronto per andare a trovare la fidanzata Catherine. Studia nelle intercapedini delle sue giornate infinite, solitamente nei lunghi viaggi in metropolitana dall'ufficio a Brooklyn fino a casa nel Bronx, compiendo realmente ogni sera il percorso che Walter Hill immaginerà per i suoi “Guerrieri della Notte” (1979). Ma trova ugualmente il tempo e la voglia di imbarcarsi nell'avventura della prima discoteca italo-americana degli interi Stati Uniti con due anni d'anticipo sul mitologico Studio 54, punto di riferimento della Manhattan molto più borghese.
Si chiama Act III e nel giro di pochi mesi diventa the place to go per tutti gli italiani di New York: su Internet se ne trova una nostalgica recensione che dice «ci andavo negli anni Settanta e Ottanta e mi sentivo al sicuro con i miei amici, ma poi si trasformò in una discoteca reggae e divenne un posto molto più violento». La sera dell'inaugurazione passa a prendere parenti e amici mandandogli a casa una limousine bianca per lasciarli a bocca aperta. «All'inizio mettevamo solo discomusic piuttosto veloce, ma sapete come sono gli italiani, gli piace ballare stretti alle loro fidanzate», ha raccontato Commisso al portale WeTheItalians, «così decidemmo di alternare, quaranta minuti di disco e venti minuti di lenti. Ho fatto sposare un sacco di gente». Porta a suonare il meglio della scena melodica italiana dell'epoca, da Little Tony ai Camaleonti passando per i Cugini di Campagna, e inizia a farsi un nome.
Meet the Commisso.
L'avventura dell'Act III durerà solo fino al 1981, quando Commisso starà già guardando oltre. Si è sempre mosso con un ragguardevole anticipo rispetto al corso degli affari e della sua stessa vita. Racconta che negli anni Settanta, da neo-assunto della Chase Manhattan Bank (la banca di proprietà del miliardario David Rockefeller che nel 2000 confluirà nella colossale JP Morgan), convinse i suoi capi a finanziare il progetto di una piccola società di telecomunicazioni di nome Comcast che oggi domina il settore, è proprietaria di Sky e di cui naturalmente Rocco è buon amico. Il colpo di fulmine con quel mondo era già scoccato; il coraggio di provarci in prima persona arriva nel 1986, quando molla una poltrona alla Bank of Canada per seguire i cowboy.
“I cowboy”, da definizione dello stesso Commisso, sono gli spregiudicati imprenditori del settore TLC che, quando si presentano in banca per battere cassa, hanno un fare molto più moderno e spigliato, a cominciare dal look sgargiante in cui Rocco si riconosce perché anche a lui, all'inizio della sua avventura finanziaria, era stato rimproverato di vestirsi in modo troppo flashy, vistoso.
Uno di questi cowboy è Alan Gerry, fondatore di Cablevision che nel 1986 lo assume come direttore finanziario e lo vede condurre la sua creatura dal 25° all'8° posto della classifica delle compagnie via cavo, prima di vendere tutto a Time Warner per 3 miliardi di dollari nel 1995. È in quei nove anni che Commisso si prepara il terreno per il salto nel buio di un'impresa tutta sua, fondata a 45 anni – dice la leggenda – nell'autorimessa di casa.
Come si possa fondare una società televisiva in un garage non è dato sapere, ma Mediacom possiede idee chiare fin da subito. Commisso inizia a chiedere prestiti a tutti gli istituti amici conosciuti e frequentati nei vent'anni precedenti e a battere a tappeto i terreni più umili ed economici della Nazione, il Sud, il Midwest, Iowa Missouri Illinois Georgia Florida, comprando tutti i cavi e acquisendo tutte le compagnie medio-piccole in cui si imbatte. «Compravo qualsiasi cosa fosse in vendita, con i soldi degli altri».
Gli “altri” sono i fondi di investimento e le banche la cui fiducia è fondamentale, alimentata in anni di buoni rapporti con l'amico Rocco che nel frattempo si espande, acquisisce sempre più terreni e infrastrutture, progetta l'ingresso in Borsa e finalmente ci sbarca nel febbraio 2000, trovando un posto nel quotatissimo listino Nasdaq: Wall Street valuta Mediacom 2,5 miliardi di dollari. Ma non è un periodo fortunato: il 10 marzo 2000 il Nasdaq chiude a 5048,62, un valore più che doppio rispetto all'anno precedente, ma nelle ore successive vengono pubblicati numerosi bilanci annuali e trimestrali delle compagnie che compongono la cosiddetta “new economy”, e sono tutti meno rosei del previsto. Così molti investitori iniziano a vendere e alla riapertura delle contrattazioni, lunedì 13 marzo, inizia il tracollo, con il Nasdaq che perde il 9% nel giro di tre giorni. È lo scoppio della famosa “bolla” che crea più di un grattacapo anche a Mr. Commisso.
Commisso in cattedra, durante una lezione ai tempi del Master in Business Administration conseguito alla Columbia.
«Ero l'uomo più indebitato d'America»
Decisamente non è un periodo fortunato per giocare in Borsa. I finanziamenti continuano ad arrivare e tengono a galla Mediacom in un'economia che deve fronteggiare le terribili conseguenze dell'11 settembre e più avanti, nel 2008, la gravissima crisi dei mutui subprime. Commisso ne ha abbastanza e prende una scelta radicale: il delisting, ovvero l'uscita da Wall Street previo accordo con i maggiori shareholders (i detentori delle azioni Mediacom), tutti rimborsati con robusti buy-back.
Mediacom torna tutta di Rocco Commisso, cento per cento, e all'inizio ci sono tutte le premesse per un bagno di sangue stile impiegati con gli scatoloni: «Quando ho riacquistato le mie azioni ero l’uomo più indebitato degli Stati Uniti. Ma ha funzionato». Funziona grazie a un nuovo provvidenziale cambio di passo, l'ennesima intuizione d'anticipo: Mediacom inizia massicciamente a investire sullo streaming e sulla banda larga, portandola letteralmente ovunque, soprattutto negli Stati più rurali che soffrono il gap tecnologico con i giganteschi agglomerati urbani sulle due coste.
Nell'intervista rilasciata lo scorso 6 luglio al Sole 24 Ore Commisso fa l'esempio di Cecil, paesino di 275 anime della Georgia, profondo Sud americano, dove la connessione è superveloce come nella Silicon Valley. «In questi anni abbiamo installato oltre un milione di chilometri di cavi in fibra ottica e abbiamo portato nelle case dei nostri abbonati la banda ultralarga a un gigabyte». I numeri fanno di Mediacom la quinta compagnia americana del settore, in crescita da 89 trimestri consecutivi: 764 mila abbonati alla tv via cavo, 1.288.000 clienti di Internet e 617mila abbonati telefonici in 22 Stati diversi. In venticinque anni gli investimenti hanno superato i 9 miliardi di dollari, ma Commisso ha finalmente restituito ogni cent di debito e nell'esercizio 2018 Mediacom, che dà lavoro a 4.500 dipendenti, ha registrato un fatturato di 2,05 miliardi di dollari. E allora, a quasi 70 anni, è giunto il momento di togliersi qualche sfizio.
In poco più di tre mesi Commisso ha già messo insieme un bel numero di momenti surreali, come per esempio questo video in cui un tizio lo ferma per strada per chiedergli un messaggio di supporto per i Rossi del Calcio Fiorentino.
Vita di un Commisso calciatore
«In Italia è quasi impossibile lavorare insieme alla politica, mentre in America le cose funzionano decisamente meglio. Ma nel calcio la situazione è rovesciata: se paragonata a quella degli USA, l'organizzazione degli italiani è eccezionale». Questo pensiero, espresso in mille forme e in mille interviste diverse, spiega bene la disistima che Commisso ha verso il sistema del soccer che lui, da paisà, ritiene profondamente sbagliato. Soprattutto nell'assenza di meritocrazia che fossilizza le partecipanti alla Major League Soccer, dove non esistono retrocessioni e promozioni dalla USL Championship, la divisione sottostante dove nessuno può sognare di andare a giocare tra le stelle. È soprattutto per questo motivo che la sua esperienza da patron e salvatore dei gloriosi New York Cosmos l'ha lasciato notevolmente amareggiato.
Superata la boa dei 60 anni, come ogni buon imprenditore americano Commisso ha intensificato le sue attività da filantropo, per esempio aprendo un fondo economico per salvare dal crack la Mount Saint Michel Academy, il vecchio liceo del Bronx che nel 1963 gli aveva aperto le porte a 300 dollari all'anno di retta per meriti artistici, senza neanche fargli sostenere l'esame di ammissione: decisive erano state le sue doti da suonatore di fisarmonica, notate in una specie di talent show al Wakefield Theatre sulla 233esima strada, a pochi isolati dall'indirizzo in cui dieci anni dopo avrebbe aperto la discoteca di cui sopra. «Da bambino ho preso l'abitudine di alzarmi alle 5:30, per andare alle 6 ad aiutare mio fratello che gestiva una tavola calda a preparare e servire le colazioni. Poi mio fratello ha aperto la prima pizzeria a domicilio del Bronx, “Pizza Time” si chiamava, e io alle 8 andavo a scuola e nel pomeriggio tornavo in pizzeria» (diamine, se non è un film di Scorsese questo – immaginatevi questo monologo con sotto “Papa loves mambo” di Perry Como).
Allo stesso modo, senza sborsare un solo cent, era riuscito a entrare alla Columbia University. «Il mio liceo non aveva una squadra di calcio, ma il mio professore di ginnastica mi segnalò alla New York University, dove fui inserito in una squadra mista di americani e cecoslovacchi. Dopo cinque o sei partite videro che ero bravino e mi offrirono una borsa di studio che mi abbuonava il 50% delle spese universitarie. Ma per me era ancora poco! Così mi feci raccomandare per la squadra di soccer della Columbia, il cui allenatore non mi aveva mai visto giocare neanche un minuto. Ma pensò che, se ero bravo abbastanza per giocare per la NYU, lo sarei stato anche per la Columbia». Così, da centrocampista e poi da stopper, mise entrambi i piedi in uno degli atenei più prestigiosi d'America, forte di una borsa di studio che copriva interamente le spese, per una cifra che oggi equivarrebbe a 75 mila dollari.
Commisso – quello più a sinistra – in azione nella squadra della Columbia.
Sul suo passato da calciatore, Commisso non è un ciarlatano. Nell'intervista concessa a Matteo Marani e trasmessa da Sky Sport alcuni giorni fa si vede un ritaglio di giornale in cui il suo nome spicca tra i selezionati per i Trials della Nazionale americana di calcio per le Olimpiadi di Monaco 1972. Nella stessa riga appare il nome del compagno di squadra Len Renery: sono i due capitani della squadra della Columbia University ma per una volta niente lieto fine, Commisso alle Olimpiadi non ci andrà, giudicato non all'altezza di un Team USA comunque di livello rasoterra, che a quei Giochi finirà ultimo nel girone dietro Germania Ovest, Marocco e Malesia, senza riuscire a segnare un solo gol. Ma la Columbia sarà sempre grata a uno dei suoi studenti più brillanti, inserito nel 2004 tra i suoi 250 migliori allievi di sempre, intitolandogli nel 2013 lo stadio che ha contribuito a tenere in piedi donando regolarmente centinaia di migliaia di dollari in sostegno alle squadre maschile e femminile.
Rocco Commisso insieme a Len Renery, suo ex compagno di squadra e di università ai tempi della Columbia,
Ma cos'è questo soccer
Ma con i Cosmos è andata male. Nostalgico dell'epoca d'oro della North American Soccer League anni Settanta e Ottanta, quando a New York erano sbarcati campioni del calibro di Pelé, Beckenbauer e Giorgio Chinaglia, Commisso voleva ridare lustro a un marchio appannato, sbiadito nei dedali delle divisioni minori. Nei primi mesi del 2017 l'aveva salvato dal fallimento, vincolando il suo impegno economico alla garanzia da parte della Federazione che ci sarebbe stato un futuro per tutta la vecchia e pericolante NASL, ormai confinata a un ruolo ornamentale e folkloristico dopo l'ascesa della MLS, che Commisso detesta cordialmente («Non ne ho mai guardato neanche una partita»).
Aveva abbandonato il vecchio stadio, troppo scomodo e difficile da raggiungere, per un nuovo impianto a Brooklyn, in zona Coney Island. Aveva sacrificato per mesi le faccende di Mediacom per dedicarsi al soccer, aveva portato giocatori di un certo prestigio come Amauri e scelto un allenatore che desse alla squadra un gioco al passo coi tempi, basato sui passaggi corti e sul possesso di palla. Ma la NASL è definitivamente naufragata a fine 2017 e adesso i Cosmos brancolano nei sottoscala del calcio americano, malinconicamente in testa alla classifica del girone nord-atlantico della quarta divisione statunitense. Per una volta Commisso ha perso la sua battaglia e da allora non manca occasione per spargere fiele sui vertici del calcio made in USA sul quale, osserva anche con una certa dose di ragione, «bisognerebbe chiedersi come mai non ha mai sfornato un solo giocatore di livello internazionale e in novant'anni di Mondiali ha vinto solo sei partite, una ogni quindici anni».
L'Italia, allora. Nei picareschi resoconti dell'infanzia a Gioiosa, Commisso non manca mai di infilarci un pallone “di stracci e vecchie mutande”, bloccato in presa plastica da portiere tuffandosi sull'asfalto del campetto di fronte alla stazione. Si era innamorato della Juventus apprendendo sulla Gazzetta dello Sport che leggeva dal barbiere le imprese di Sivori, Charles, Boniperti, Stacchini e Nicolè, in un'epoca in cui comunque anche la Fiorentina aveva il suo bel perché: prima squadra italiana a raggiungere nel 1957 una finale di Coppa Campioni, poi persa al Bernabéu contro il grande Real Madrid, con Fulvio Bernardini in panchina e i fuoriclasse Montuori e Julinho a danzare calcio.
Rocco Commisso, anni 11, ai tempi della quinta elementare a Marina di Gioiosa Jonica, anno scolastico 1960-1961 – la stagione in cui la Fiorentina ha vinto il suo unico trofeo internazionale, la Coppa delle Coppe.
Per la sua fede juventina, dice, nel 2010 aveva rinunciato a entrare nella cordata di Thomas DiBenedetto per comprare la Roma, di cui comunque non avrebbe potuto pretendere il controllo totale. Sarà stata la delusione dei Cosmos a fargli spingere l'acceleratore: una prima offerta ai Della Valle nel 2016, respinta; una seconda nel 2017, respinta; poi il tentativo con il misterioso Milan cinese, puntando forse sul cavallo sbagliato perché lui pensava di dover trattare con Yonghong Li, ma con Yonghong Li non si è mai visto e neppure parlato e ancora oggi «non so dove sia finito».
Terzo giro dai Della Valle a fine 2018, ancora niente. Quarto giro nel maggio 2019, quello buono, con i due fratelli ormai esasperati dal clima che si respira a Firenze: si chiude per circa 160 milioni nel giro di venti giorni, con annuncio ufficiale il 6 giugno. La sua prima estate è stata assai movimentata, all'insegna di tre parole d'ordine: fast, fast, fast. Ha dovuto disinnescare la bomba a orologeria Chiesa, ha fatto i conti con un mercato bloccato fino ad agosto e poi si è scatenato nelle ultime settimane, con i colpi mediatici Ribery e Boateng che hanno coperto una discreta lista di affari mancati per mancanza di tempo o di risorse: De Rossi, Nainggolan, Suso, De Paul, Raphinha... Così in attacco l'acquisto più costoso è stato il brasiliano Pedro, pagato circa 20 milioni dal Fluminense e annunciato l'ultimo giorno di mercato.
Le prime parole di Commisso da presidente della Fiorentina, ancora a Milano dopo aver chiuso definitivamente l'affare. Con la piccola gaffe dell'obiettivo stagionale che sarebbe “restare in serie A”, forse proprio per questo seguito da una risata un po' imbarazzata.
Il suo uomo a Firenze si chiama Joe Barone, braccio destro da quasi vent'anni in tutte le attività, Cosmos compresi. Anche lui ha dovuto attraversare l'Oceano in tenera età, a otto anni, arrivato a Brooklyn da Pozzallo (Ragusa), curiosamente lo stesso paesino da cui proveniva il primo cittadino più amato della storia di Firenze, il “sindaco santo” Giorgio La Pira. In un certo senso Barone, aiutato da una corporatura da runningback, funge anche da guardia del corpo di Commisso. A giugno il Corriere dello Sport ha raccontato un episodio a metà tra Little Italy e la commedia dell'arte. Durante una delle tante conferenze stampa il nuovo presidente aveva rassicurato i tifosi sul destino di Federico Chiesa («Non sarà un nuovo Roberto Baggio») e un signore aveva manifestato ad alta voce la sua indignazione: «Avete insultato la nostra famiglia!». A quanto pare quel signore era un discendente della famiglia Pontello, proprietaria della Viola ai tempi dell'affaire-Baggio, e doveva essersi sentito punto sul vivo. Barone l'aveva affrontato fisicamente chiedendo spiegazioni, e alle rimostranze del tipo («Siamo i Pontello, i nobili di Firenze!») aveva risposto: «E io sono il nobile di Pozzallo».
Qui finisce il racconto dell'avventura americana di Mr. Commisso da Marina di Gioiosa Jonica, tutta vissuta all'insegna di quella definizione, land of opportunities, che il nostro uomo ripete ogni volta che ne ha la possibilità. Perché è realmente la storia della sua vita di formidabile cacciatore di circostanze favorevoli, lato ereditato dal padre che aveva sfruttato il dramma di essere stato prigioniero di guerra in Africa per ottenere una corsia preferenziale nel procurarsi un lavoro da falegname a Baden, Pennsylvania. Nel 1956 Giuseppe Commisso era partito per l'America «da perdente a capo di una famiglia di perdenti», proprio come la Fiorentina che non vince una partita da febbraio e dopo quattro giornate è ultima con due punti. A novembre Rocco compirà 70 anni e al Franchi nessuno gli chiederà di scalare la balaustra; ma riuscire a trovare delle opportunità persino nel paludatissimo calcio italiano del 2019, allegramente al galoppo verso la stagnazione e l'immobilismo, sarà forse la sua scommessa più difficile.