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Giovanni Arpino

Azzurro tenebra

Un estratto dall'omonimo libro di Giovanni Arpino.

Pubblichiamo un estratto di “Azzurro tenebra”, di Giovanni Arpino, edito da Minimum Fax. Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui. Si parla della fallimentare spedizione italiana ai Mondiali tedeschi del 1974, dove l’Italia venne eliminata già ai gironi. Nella scena che viene raccontata, Giovanni Arpino (cioè Arp) sta parlando con Enzo Bearzot (il Vecio) mentre Giacinto Facchetti (Giacinto) si allena sullo sfondo.

 

Schiacciò un pulsante sul cronometro, batté forte le mani.

 

La sagoma al fondo del prato assunse un trotto più tranquillo, via via avvicinandosi negli ultimi segmenti luminosi. Parve, nel profilo che spezzava la solitudine dell’erba e del cielo, come il materializzarsi arcano e pudico d’una gioia sufficiente a se stessa.

 

«Venti minuti esatti», l’accolse il Vecio battendo sul vetro dell’orologio.

 

«Giacinto. Fanatico. Sei sicuro di non galoppare anche quando dormi?», tossì Arp stringendosi nel giubbotto.

Il giovane avvolse la testa nell’asciugamani. Rimase scoperto lo sguardo, limpido di celesti distanze, e quel sorriso gentile, chiuso agli angoli della bocca da due brevi rughe incise. «Come lo sai? Ogni tanto sogno d’essere un daino. Ma guai a dirlo nelle interviste. Mi domanderebbero chi è il cacciatore, come minimo», rispose dando aria ai polmoni, brevi vapori si condensarono. «Freschino, qui. Bello. Su cosa si congiura?» «Dovresti rientrare. Una mezza doccia calda veloce. Tra mezz’ora si mangia», avvertì il Vecio.

 

«Un minuto, mister», s’accucciò Giacinto abbassando la lunga figura sui talloni e strizzò una palpebra. «Ho tanti mister, io. Anche tu hai tanti direttori, Arp? La vita. Ma che posto da re, questo. Nella mia stanza debbono aver dormito diecine di principesse. Velluti, poltroncine, scene di caccia, una sciccheria. Anche se devo tenere i piedi oltre la sponda del letto. Normale: il mondo è pieno di letti per nani. Dico: ci porterà bene un simile sacrilegio? Magari c’è qualche fantasma di arciduchessa offesa dietro una tenda».

 

Strappò un filo d’erba, morse, sputò. Attendeva risposta. Con un’ultima dilatazione polmonare ridiede equilibrio al respiro. Il Vecio taceva, come colpito da una sua intima malinconia.

 

«Principesse, arciduchi, ma anche miliardari, sceicchi, fatalone in cincillà. Difficile che un posto per viziosi di sangue blu possa portar bene a voi, virtuosi tinti d’azzurro», disse Arp.

 

Si misurarono negli occhi con antico affetto. E Arp ricordò un incontro di tanti anni prima, Giacinto era un gigante che ancora oscillava nella scorza adolescente, una betulla. Vedendo passare in trattoria un carrello di antipasti colorati disse: Li mangerò anch’io quei gamberetti con la salsa, a trent’anni. E ormai aveva i famosi trent’anni, ma i gamberetti seguitavano a restar lontani, perennemente sconfitti dal professionale riso in bianco, dalle canoniche bistecche alla griglia. Lo stesso Giacinto ora sapeva reggere qualsiasi discorso. Anche in inglese, imparato per poter discutere con gli arbitri internazionali, con doganieri e reporter. Una volta, invece, per proteggere la propria gioventù dalle domande ambigue, per fronteggiare gli assalti di taccuini e microfoni negli spogliatoi, mandava a memoria detti celebri di filosofi francesi e cinesi, cardinali e ministri, Tolstoj e Einstein. Usciva dalle ortiche degli interrogatori con quell’improvvisa massima, citando l’autore. I giornalisti stupefacevano, interdetti. Arp ricordava il chiaro volto del padre ferroviere di Giacinto, le sue sorelle, gigantesse come lui, timide, sempre in bilico sull’orlo della seggiola, le dita in croce. Le amava.

 

«Non avevi lavorato abbastanza oggi?», domandò. Giacinto abbassò le palpebre.

 

«Non ci fanno faticare. Due corsette e via. Roba da teatro dell’opera. Ma forse al Bolshoj faranno di più. Va bene che siamo tutti a fine stagione, smunti. Psicologori sarebbe la parola esatta. O forse: psicotisici. Buono, Arp, non farmelo dire, d’accordo? Però un mondiale meriterebbe sforzi tripli. Chi sopravvive all’allenamento, va in squadra e stop, non dovrebbe esistere altra regola. E invece il solito minuetto, titic titoc con la palla, non capisci chi sta bene e chi no».

 

«Se vi si tira il collo, in quanti resistereste?», dubitò il Vecio rinunciando a mordersi la lingua.

 

«E va bene, mister», sospirò Giacinto. «Ma come la mettiamo con la solita gente che si lamenta: il dolorino qua, la bua là, non ho dormito dottore, avrò una contrattura dottore. Però mai che rinuncino alla maglia, mai che abbiano il coraggio di dare forfait. Lo sai anche tu, Arp. E non ripetermi adesso che sono l’unico a far l’eroe scemo».

 

«Sempre l’eroe è scemo. Partendo da Alessandro Magno, anzi Achille», fece Arp.

 

«Allora sto in buona compagnia», sorrise Giacinto.

 

Arp ridacchiò. «Ho visto lo Zio mentre allenava il Bomber, ieri. Lungo e teso, gli diceva, lungo e teso. Gli spediva palla aspettando che tornasse lunga e tesa dalla linea del corner. E lui, il Bomber, che zampava il sinistro con aria da tumistufi. Sai che mi piace il Bomber. Lo stimo. È un uomo. Però in questo momento non funziona, ha un sistema nervoso quasi al tilt, è un gladiatore dai riflessi consumati. E lo Zio che fa? È il capo, è il responsabile, potrebbe usare carta bianca all’infinito, e si aggira come un maggiordomo, orecchie basse da cocker. Dicevo prima al qui presente Vecio: fate il golpe, o andremo tutti in broda».

 

«Mamma», sospirò Giacinto.

 

«Arp, stasera morsichi come una cobra. E non accanirti sullo Zio. Lo vai spiumando da anni», mugugnò il Vecio.

 

«Mi è anche simpatico, ma con tanti però», fece Arp.

 

«E sono proprio questi però che lo crocifiggono», rise stretto il Vecio. «Ma tu immagina, guarda. Capirai tutto. A te basta guardarci in faccia. Non c’è bisogno di tante confidenze».

 

«Capirò domani. Capirò quando potrò», seppe ostinarsi Arp. «Riassumiamo: siete partiti per questi mondiali come una Invincible Armada. I tedeschi vi danno finalisti, i brasiliani masticano Itaglia Itaglia da quando Pelé ha infilato le brache lunghe e vola su un tappeto di dollari propagandando gazzose e scarpe. Tutti vi giudicano i figli privilegiati di un paese matto però temibile se difende una palla. Lo Zio spera nello stellone, il Manager lo credevo un ras e invece sembra David Niven che recita la parte dell’ambasciatore ma stremato dalle emorroidi. I cervelloni della squadra sdottorano davanti a mille telecamere però poi inciampano nei fili d’erba. I tifosi si prosternano a leccarvi i divini alluci. Provate a buscarle e gli stessi calabresi che lustrano Mercedes da queste parti vi mangeranno il cuore. Questo il chiodo che dovreste ficcarvi nell’anguria».

 

«Tutte le mattine ci assediano», esalò Giacinto. «Dormono laggiù, oltre il parco. Avrò firmato diecimila cartoline. Mi rincrescerebbe a morte solo per loro».

 

«Viva Garibaldi», rise Arp. «Siete in mezzo ai cannibali. Oggi vi inzuccherano, domani vi sbattono in pentola».

 

Il Vecio fece dondolare l’ennesima sigaretta tra gli incisivi. Giacinto lo scrutava con serenità di pupille.

 

«E dire che sarebbe un gioco», lamentò poi.

 

«Ecco dove ti sbagli», si rattristò Arp. «È guerra. È politica. Battaglia navale. Intrigo. Piantiamola con questa retorica sul gioco: diventa tale quando si perde. Quando si vince: petto in fuori, proclami, telegrammi del presidente della Repubblica, croci di cavaliere. Se si va sotto, tutti a strillare: ma è solo sport, cosa pretendevate, affratelliamoci. Be’, il gioco è altro: i ministri giocano, i re dei re, che non si feriscono tra loro. Qui siete tra Caporetto e il Piave. E scegliere non è facile».

 

«Amen», si seccò il Vecio.

 

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Giovanni Arpino è nato a Pola da una famiglia piemontese, ed è morto sessant’anni dopo a Torino. Nella sua carriera ha scritto più di trenta libri e ha lavorato a lungo come giornalista sportivo. È tra i pochissimi ad avere vinto sia il Premio Strega che il Campiello.