Dalla scorsa domenica Mario Balotelli è ufficialmente una vittima del razzismo. Finalmente. Anche se arrivata un po’ in ritardo è comunque un’onorificenza che fa piacere ricevere e immagino che Balotelli per una volta si senta in pace con la società italiana. Voglio dire, con quella che non imita i versi delle scimmie mentre lui prova a giocare a calcio.
Non è stato l’unico, di episodi del genere in questa stagione ce ne sono stati quasi uno a settimana, ma è una notizia perché per la prima volta siamo praticamente tutti d’accordo che la palla scagliata contro la curva del Verona non fosse una delle sue solite provocazioni. Insomma non è come quella volta che ha pagato un tipo per buttarsi con il motorino nell’acqua del porto di Napoli. Non è solo un’altra manifestazione della sua odiosità, che lo rende inviso anche a persone che non pensano di nutrire pregiudizi razziali.
Il fatto è che se oggi c’è solo qualche voce fuori dal coro che minimizza, nega, e denuncia Balotelli per diffamazione - ok, tutto normale - non è stato così negli anni passati, quando si parlava di lui. Non è stato quasi mai così per lui, anzi, a pensarci bene. Nessuno ha provato a considerare Balotelli come una vittima del razzismo prima, anche se, insomma, lo era.
Balotelli è una vittima del razzismo da sempre, per quel che ci compete. Da molto prima, anzi, che noi fossimo a conoscenza che c’era un certo Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi, adottato da una famiglia di Brescia, che giocava a calcio piuttosto bene. Lo ha raccontato lui - «A scuola capitava che sparisse qualche merendina dai banchi e pensavano subito fossi stato io, senza indagare» - e non è difficile per nessuno di noi immaginare che anche lui abbia subìto insulti fin da piccolo giocando a calcio.
Ma non lo abbiamo mai trattato come tale.
Anzi, una parte dell’opinione pubblica italiana, del tutto in buona fede, ci ha tenuto a distinguere tra la sua stronzaggine e il razzismo di alcuni tra quelli che lo trovavano odioso. Cioè, mentre durante una partita della Nazionale italiana (giocata però in Svizzera) compariva lo striscione “Il mio capitano è di sangue italiano", per qualcuno era importante difendere la propria libertà di trovare odioso Balotelli al di là del colore della sua pelle e delle sue origini.
Immagino che quel qualcuno non trovi che ci sia nessun legame tra questa distinzione che viene fatta ormai da dieci anni quando si parla di Balotelli e il fatto che oggi si dica ancora che “non è del tutto italiano” e non sono neanche tutti d’accordo che fare il verso della scimmia a una persona di colore è un atto razzista, al di là di quale sia la motivazione alla base (o il pensiero politico di chi lo compie quell’atto).
Foto di Claudio Martinelli / LaPresse.
Chi fa il verso gutturale delle scimmie a un calciatore gli vuole ricordare che nonostante il successo sportivo ed economico che ha ottenuto, per lui resta comunque un animale esotico. Certo, vuole distrarlo, fargli sbagliare un gol, farlo giocare male e tutto il resto, ma il modo in cui lo fa è dirgli che lui e quelli come lui somigliano a quegli animali che vivono sugli alberi e fanno quel verso. Anzi sono come quegli animali.
Che poi non tutti siano consapevoli del significato delle loro azioni è un altro discorso. I primi tempi in cui ho vissuto in Francia un amico per scherzo mi aveva insegnato a chiedere a una ragazza di uscire insieme chiedendole, traduco letteralmente: Ti scopo a casa mia o a casa tua?. La sola ragazza a cui ho ripetuto a pappagallo quella frase si è offesa e quando mi ha spiegato cosa le avevo detto mi sono guardato bene dal ripeterlo.
Ed era una frase meno grave di quella con cui un nero potrebbe tradurre la sua interpretazione dei versi da scimmia, che di fatto lo spogliano della propria umanità. Se una persona non condivide quel messaggio, be’, non può - neanche per goliardia, neanche per spirito di gruppo - fare il verso della scimmia a una persona di colore.
È una storia vecchia di cui ho già scritto e a chi rivendica il proprio diritto di offendere in questo modo all’interno della cornice dello stadio in fin dei conti non interessa cosa pensa il calciatore nero che offende.
L’ex giocatore dei Lakers Elgyn Baylor ricorda che negli anni ‘60, dopo che insieme ad alcuni compagni di squadra (neri) gli era stato rifiutato un posto in albergo, decise di protestare nella partita successiva perché «non ero un animale in gabbia che veniva liberato solo per quello spettacolo». Quello che gli risponderebbero i tifosi italiani che negano il razzismo è proprio che, invece, i calciatori sono tutti come degli animali che devono dare spettacolo e stare zitti.
Perché guadagnano molti soldi, ovviamente, e di fondo c’è anche il problema dello scollamento tra il mondo del calcio e dei suoi appassionati. Ma il razzismo che subisce - che ha subìto da sempre - Balotelli è lo stesso che subiscono i neri in molti parte del mondo senza la consolazione e la protezione dei soldi.
E dov’erano quelli che oggi definiscono “intollerabile” che una curva, parte di essa, faccia il verso della scimmia in uno stadio, quelli che vogliono giustizia - sempre sotto forma di repressione - in tutti questi anni? Non è che si stavano preoccupando di quanto fosse stronzo Balotelli?
D’altra parte è stata la stessa curva della Roma, una parte della curva della Roma che si dichiara non razzista, a dedicare a Balotelli il celebre striscione “Non ti insultiamo perché sei di colore ma perché sei no stronzo senza onore” (senza specificare come lo insultavano, né cosa si intendesse per onore). È una prerogativa di chi "discrimina" quella di distinguere, di scegliere, tra chi merita di essere discriminato e chi no. È il senso stesso della parola. E se quello nei confronti di un nero stronzo non è razzismo intollerabile, allora perché lo sarebbe quello per far giocare peggio un avversario, per distrarlo?
Il punto è che per capire il significato di quei cori bisogna ascoltare chi li subisce. E la cosa secondo me in comune tra chi non ci vede “niente di razzista” nell’imitare una scimmia quando un giocatore di colore prende palla e chi fino a pochissimo tempo fa ci teneva a distinguere tra il razzismo contro Balotelli e l’odiosità di Balotelli è che a nessuno dei due gruppi in questione interessa in realtà cosa pensa Mario Balotelli. Cosa pensa, cioè, uno che è vittima del razzismo praticamente da sempre.
Foto di Claudio Grassi / LaPresse.
È troppo facile, e forse poco utile, chiedere oggi telecamere in grado di individuare i razzisti e sbatterli in celle direttamente sotto allo stadio, se possibile per sempre, se non si è disposti ad ascoltare quello che ha da dire Mario Balotelli su cosa significa crescere in Italia per una persona di origini africane. Se non si vuole ammettere che se Balotelli è così stronzo come sembra che sia per alcuni, probabilmente è anche perché è cresciuto in un contesto ostile e razzista.
Molti hanno fatto finta di potersi comportare come se il razzismo non esistesse, o come se loro non avessero responsabilità per come era cresciuto Balotelli. Se era odioso, per loro, non era perché aveva la pelle nera. Ma se in tutto questo tempo non è cambiato niente anche perché anziché ascoltare e capire Balotelli gli è stato fatto un processo sulla base di gossip e stories su Instagram. Anziché guardare a come veniva trattato Balotelli si cercavano giustificazioni alla propria indifferenza.
In questi dieci anni, anche fuori dagli stadi, Balotelli è stato trasformato in una caricatura di sé stesso, in un certo senso disumanizzato. Nel frattempo, da quando si è presentato facendo le linguacce e gettando a terra la maglia del club che lo aveva formato, Balotelli è diventato un uomo, un padre, ha avuto una carriera calcistica che magari non sarà stata all’altezza di quello che avevamo fantasticato ma che comunque lo ha portato a giocare in alcune delle squadre più importanti d’Europa. Ha detto che il razzismo, come il suo carattere, hanno probabilmente influito nella sua carriera e che un insulto razzista è «come una coltellata». Senza dubbio è stato anche autodistruttivo, si è isolato, si è accontentato, ma nel tempo sembra essere venuto a patti anche con la portata simbolica della sua storia: «È importante che chi si può far ascoltare come me prenda posizione anche per dar voce a chi subisce discriminazioni nella vita normale. Quel che non capisco è come non ci si rivolti contro ogni discriminazione».
In definitiva il razzismo della società in cui viviamo si è dimostrato anche nel modo in cui a Mario Balotelli è stato detto e ripetuto come avrebbe dovuto comportarsi per essere accettato. Una società che non accetta e non rispetta in partenza chi è diverso, figuriamoci quando chi è diverso sbaglia qualcosa.
Chi è cresciuto in Italia da bianco non ha nessun diritto di giudicare un italiano cresciuto da nero senza prima chiedergli: “Come si vive nella tua pelle?”.