Parte I
Quando nel settembre del 2004 la troupe di Trans World Sport è volata a Buenos Aires, probabilmente aveva solo una vaga idea di chi fosse il protagonista del reportage che aveva il compito di girare, tagliare, montare. Sapevano che si trattava di un calciatore sulla bocca di tutti, e poi - fatto che rendeva la sua fama surreale - che aveva solo dodici anni. Per questo deve essergli sembrata una buona idea partire dai potreros, i campetti improvvisati sul cemento de La Republica de la Boca, dove gli umori hanno il sapore della coca-cola quando si mescola con il fernet nel Fernando (il più famoso dei cocktail argentini, che viene venduto anche già pronto), e i pali delle porte sono fatti di giacche avvoltolate e impilate.
Il bambino prodigio ha le gambe secche, i capelli biondi lunghi, raccolti in una coda, sul lobo sinistro un orecchino. Sembra quasi una ragazzina. Lo fanno palleggiare di fronte alla bottega di un parrucchiere: sulla serranda c’è una scritta sghemba, uno spruzzo di vernice bianca: “Diego (10) capo”.
Nel servizio, qualche secondo dopo, Erik è sdraiato sul parquet di una mansarda dai colori più consoni a un rifugio di montagna della stazione sciistica di Bariloche che a un appartamento al centro della capitale portegna. È circondato dai trofei che ha già conquistato, alti la sua metà, trionfi di silver plate. Indossa una maglia coi colori albiceleste dell’Argentina: in cameretta ha una collezione di divise prestigiose, su tutte quelle del River Plate e del Barcellona, la squadra in cui vorrebbe giocare perché «sarebbe più facile, per via della lingua».
Poi lo riprendono mentre gioca alla playstation, coi fratelli, una partita a ISS Pro, dove sfida i blaugrana con una Lazio già allora vintage, con Nesta e Mihajilovic coppia difensiva. Le opinioni dei genitori non minano nessuna prevedibilità: «Ho capito che aveva talento fin da piccolissimo», afferma orgoglioso il padre, José; «A questa età il calcio non dovrebbe essere una responsabilità, ma un divertimento», rimbalza la madre Miriam richiamandosi al buon senso, il fratello più piccolo Brian in braccio.
Quando nel settembre del 2004 la troupe di Trans World Sport ha girato questo servizio a Buenos Aires non poteva sapere chi fosse Erik Lamela, non avevano potuto vederlo all’opera su YouTube (che sarebbe nato solo sei mesi più tardi, nell’aprile del 2005), né tantomeno potevano immaginare chi sarebbe diventato, che carriera avrebbe fatto.
Ma soprattutto ignoravano che negli stessi giorni, da qualche parte nel mondo, stavano nascendo altri ragazzini (e tecnologie) che, a dieci anni di distanza, avrebbero reso la loro esperienza (viaggia, gira, taglia, monta) anacronistica, fuori dal tempo; i loro sforzi, per certi versi, inutili, superati.
«Ognuno nasce per fare qualcosa nella vita: io sono nato per giocare al calcio», dice Erik, dodici anni, con occhi che non conoscono vergogna né compromessi.
Il “caso Lamela” è esploso in tutta la sua dirompenza mediatica nell’ottobre del 2004. Erik, che giocava nelle giovanili del River Plate, grazie ad alcuni show televisivi era entrato nel mirino del Barcellona, che si apprestava a lanciare in prima squadra un altro giovanissimo arrivato anni prima e cresciuto ne La Masia: il rosarino Lionel Messi. Sui giornali argentini si era cominciato a parlare di una fantomatica offerta di centoventimila euro da parte della società catalana e di un’altra di ottomila da parte della Nike, a titolo di sponsorship (nei filmati di Lamela ragazzino i capelli biondi sono raccolti da una fascia da tennista della Nike, ma ci vuole molta malizia per fare congetture o trarre conclusioni).
Erik è lontano dall’essere un calciatore: è alto poco più di un metro e mezzo, pesa quaranta chili. Certo, è molto più bravo degli altri bambini, con la sfera tra i piedi. Lui se ne rende conto: «Devo abituarmi al fatto di avere tutti gli occhi puntati addosso: sono un ragazzino diverso da tutti gli altri». Con la maglia verde del Santa Rita, la sua prima scuola calcio, palleggia circondato da coetanei che lo guardano stupefatti, ammirati, ma non invidiosi: se l’invidia c’è, a quell’età, è mescolata alla terra sotto le unghie, e non si vede. Erik si sente, perché è, diverso tra gli altri: è consapevole d’avere un dono, uno shining. Però non sa spiegarlo. Un intervistatore catalano gli chiede di provare a spiegare il suo tipo di gioco. Lui porta le ginocchia al petto, ci prova, però si vergogna, non lo sa molto spiegare. Dice “punto la porta... cerco il gol... così”.
Il “caso” del bambino prodigio prende presto a sferragliare sui binari della moralità, come spesso accade quando si parla di minorenni e soldi. Ci si appella all’orgoglio nazionalista, certo («Que no roben a esta joyita», titola il quotidiano sportivo bonaerense Olé, «non lasciate che ci rubino questo gioiellino»); ma c’è anche chi, come Cruyff sulle colonne de La Vanguardia, si limita a esprimere un giudizio tranciante sull’intera faccenda: «uno schifo».
«Ora firmo autografi». Lamela è con Ronaldinho, incontrato al Camp Nou durante una visita preliminare nel mese di novembre del 2003.
La prodigiosità di Lamela si dipana non solo nel campo delle qualità calcistiche. La sua è una storia che trascende l’ordine naturale delle cose anche nella misura in cui rompe i cliché imperanti. Negli anni ’20 il giornalista Borocotó aveva descritto il prototipo del calciatore argentino che si è formato per la strada, il pibe de cara sucia, il ragazzino dalla faccia sporca, tutto talento e poca disciplina: per più di settant’anni il profilo di ogni giocatore argentino di talento è stato in qualche modo sovrapposto a quella figura mitica per valutarne la rispondenza, i punti in comune.
In Lamela niente parla di povertà, faccia sporca, fango sulle scarpe rotte.
Il padre José, ex calciatore a livello semi-pro, soprannominato El Panadero, il panettiere, gestisce un impianto sportivo di successo; la madre Miriam tira avanti una panetteria, appunto. Sono una famiglia dai valori saldi: «Nessuno può assicurarmi che mio figlio diventi un calciatore professionista. Lui e i suoi fratelli sanno che prima di tutto devono pensare alla scuola».
Avere il gift non significa necessariamente, né per forza, avere una carriera assicurata.
E se con gli anni quel talento scemasse?
Se nella testa del ragazzo insorgessero altri interessi?
Se, prestando credito ai rumors su trasferimenti milionari, a qualche malintenzionato saltasse in mente di rapire uno dei suoi fratelli e chiedere un riscatto?
In quegli anni i tempi erano già maturi affinché il canone Messi potesse farsi paradigma. Ma quella del rosarino è una milonga molto più complessa e profonda dell’essere estremamente bravo nelle apiladas, nelle fughe solitarie in dribbling. L’etichetta “Nuovo Messi” travalica il mero concetto di skills. La messità si manifesta come esperienza: quella del ragazzino che si trasferisce nella grande società europea, una società che sappia prendersi cura di lui dentro e fuori dal campo, per crescere, maturare, esordire, esplodere. Alla fine, Lamela, è rimasto al River. Il presidente Aguilar ha offerto un lavoro ai suoi genitori, uno più lautamente retribuito di quelli che già avessero, e una borsa di studio per i fratelli Brian ed Axel.
Nell’ultima giornata del campionato della serie minore “7a” Lamela, con una treza à la Palacio, conduce il River Plate alla vittoria finale. C’è tutto il repertorio delle sue giocate, dalla “pettinata” (che in spagnolo si chiama pisadita) alla “rabona” con cui segna che, sedicenne contro i sedicenni, misura lo scarto qualitativo tra un baby prodigio irrisolto e un calciatore quasi fatto e finito.
In uno dei suoi editoriali su El País lo scrittore argentino Martín Caparrós si è schierato contro quello che ha scelto di chiamare “il calcio Nike”. Il Calcio Nike, secondo Caparrós, è un modello diseducativo, che appesta il gioco del pallone come una secrezione purulenta, ne mina le fondamenta stesse. I bambini, nella visione di Caparrós, mossi dalla fame di sensazionalismo che i grandi brand sportivi fomentano attraverso i loro spot, oggi si vedono spinti a diventare più individualisti, perdono il senso della comunione, dell’unità nel gioco. L’obiettivo in campo, quindi, diventa per loro la persecuzione de l’art pour l’art. E poi, continua Caparrós, gli viene il cuore scuro, con tutta quella brama di competitività che il confronto con modelli lontanissimi, quasi irraggiungibili, instilla in loro.
Forse Caparrós in quell’editoriale ha peccato un po’ di passatismo, si è fatto pervadere dal fascino dei Bei Tempi Andati™. Il fatto è che i bambini sono da sempre massimamente egoisti e individualisti, di quel tipo di egoismo e individualismo che si cela dietro la frase «è mio» gridata al coetaneo che cerca di approfittare dei suoi giocattoli. Mi verrebbe quasi da azzardare che l’egoismo, e il rapportarsi a un modello top (il padre o un calciatore famoso), siano proprio i motori che muovono la fanciullezza, e che danno a un individuo coscienza del proprio posto al mondo.
Parte II
«Enzino, puoi venire un momento?».
Siamo nello studio di Porta a Porta, a pronunciare quella frase è Bruno Vespa. È il 1999, Porta a Porta - insieme a Domenica In - è probabilmente la cassa di risonanza più ampia cui si possa ambire in Italia in termini di pubblico. Vincenzo Sarno si avvicina con il passo incerto verso il proscenio, indossa una tuta del Torino, ha soltanto 11 anni.
Coscienza del proprio posto al mondo, probabilmente, accecato dai riflettori puntati su di lui, ne ha poca. (Poi sarebbe andato ospite anche a Domenica In, ovviamente).
Nell’intervallo di Torino-Cremonese Vincenzino Sarno fece un giro di campo al Delle Alpi, salutando i tifosi. In un’intervista apparsa qualche giorno prima aveva dichiarato “Il mio lavoro è diventare un campione”.
Tempo fa, a una festa per la quale probabilmente Caparrós mi avrebbe tolto il saluto, la presentazione del nuovo scarpino Elastico della Nike, a Roma, ho parlato di Vincenzo Sarno con Francesco Pacifico, che lo ha intervistato. Tornato a casa ho letto il suo pezzo (che, se volete, è qui): l'ho trovato interessante perché rifiuta la retorica del rise and fall, nonostante la storia di Sarno ci si sarebbe prestata.
Le tappe fondamentali della parabola di Sarno sono decisamente ascrivibili al genere: cresciuto nella scuola calcio “G. Scirea” di Secondigliano, nell’hinterland napoletano, famiglia che arranca per arrivare a fine mese, nel ’99 viene acquistato (per centoventi milioni di lire) dal Torino. Su di lui si avventa con le zanne affilate il cosiddetto circo mediatico: i giornali prendono a chiamarlo “Maradonino”, il papà Ernesto definisce il trasferimento del figlio «un regalo della Provvidenza». C’è una conturbante mescidanza di tratti sacri e profani: ci sono i soldi e c’è la Provvidenza, c’è la sovraesposizione di un ragazzino e le meccaniche celesti dell’onnipotenza del talento.
Lo spettatore televisivo ha potuto vedere Vincenzino sul campo d’allenamento di Secondigliano, palleggiare e inscenare una rovesciata, il cappellino con la visiera fisso in testa; in quei filmati gli altri bambini lo guardano con gli occhi di Santa Teresa de Avila trafitta nel cuore.
Nella famiglia che lo ospita a Torino, però, per i tre mesi in cui rimane, Vincenzo non si trova bene, piange tutte le sere, vuole tornare a Napoli. Palleggia con Gabriel Batistuta e Roberto Mancini; è fortunato, certo, ma è pur sempre un ragazzino che alle interviste risponde a monosillabi, perché la sua lingua, dicono tutti, ne è convinto anche lui, è il pallone.
Il pezzo di Pacifico mi ha messo di fronte al tema centrale della questione: che il processo di selezione a cui partecipano i calciatori (ma è lo stesso per i cantanti, i CEO delle multinazionali e gli attori) produce scarti. Non c’è possibilità di poesia, né gloria della ribalta, per tutti. È matematicamente impossibile.
L’esercito di gente (i figli, e pure i genitori) che investe la propria vita, che decide di fare all-in e puntare tutte le fiches nella rincorsa di una svolta economica, un percorso irto di adulazioni, promesse e spesso delusioni, sa di impegnarsi in una lotta al massacro: i giovani calciatori sono gli spermatozoi che si dimenano nella gara per la colonizzazione di un sogno-ovulo. Che forse, poi, si svilupperà in successo. O forse no. Si può diventare campioni, o rovinarsi per sempre: ogni sfumatura che si trova nel mezzo è di un grigio dalle tonalità più spesso scure che non chiare.
Se a tutto questo aggiungiamo che il meccanismo (spesso no-win) della salvazione attraverso la fama è solleticato dalle velleità dei genitori, non sarà complicato comprendere quanto sia drammatica e patetica la faccenda. E se quel ragazzo prodigio, alla fine, non è poi così prodigioso?
Leandro Depetris, un’altra di queste meteore troppo piccole per resistere all’impatto con la ionosfera, arrivato al Milan dall’Argentina che aveva solo 11 anni, ha detto a Olé (in un’intervista ripresa da un forum) «Se Dio vuole giocherò al calcio. Altrimenti dovrò andare a lavorare come una persona normale».
Sarno, intervistato da Alberto Prandi per un servizio su Reality di La7, non riesce a spiegare (forse in primis a sé stesso) cos’è che sia andato storto. Il servizio si intitola: “Chi ha ucciso il sogno di Vincenzino?”.
PARTE III
L’avvento dell’era di YouTube non ha fatto che amplificare l’alone di potenziale pateticità e drammaticità. Cosa succede se di quei ragazzini non rimane che la traccia di un video, con visualizzazioni che vanno da poche decine a centinaia di migliaia? Intendo dire, quei video e basta?
Nelson Lorca Bustamante oggi ha ventidue anni. Quando ne aveva otto palleggiava con una maglia del Milan di fronte ai semafori rossi di San Bernardo, quartiere estremamente povero di Santiago del Cile, elemosinando qualche moneta con cui togliersi soddisfazioni spicciole come comprarsi un paio di scarpe nuove o fare un regalo al padre o alla nonna. Un procuratore lo nota e lo segue per una giornata intera mentre cambia postazione, mentre aspetta che le macchine formino una coda, prima di entrare in scena, fare il suo spettacolo, passare a riscuotere.
Se lo prende a cuore come un procuratore che sfreccia sulle strade diroccate della periferia di una metropoli sudamericana può prendersi a cuore un calciatore promettente, con aura di fenomeno: non proprio spinto da afflati caritatevoli, insomma.
Pensa che Bustamante potrebbe essere il Nuovo Messi: un altro, l’ennesimo. Prova a farlo entrare nelle giovanili del Colo Colo, una delle squadre più gloriose del paese andino, che però lo scarta per via dell’altezza: Nelson è minuto, ma non è una questione di scompensi ormonali, come nel caso di Lionel. La sua difficoltà a crescere è dovuta all’alimentazione, irregolare e carente. Vive con il padre, perché la madre se ne è andata quando era ancora in fasce, la nonna e una pletora di cugini. Ha un fratello più piccolo che cammina con le stampelle. Si allena con le giovanili della Universidad Catolica, ma avrebbe bisogno di una società che seguisse il suo percorso in maniera più massiva.
Curaz, il mediatore che l’ha preso sotto la sua ala, si scontra presto contro l’evidenza che non c’è poi così spazio per altri Messi.
Alla fine Bustamante viene ingaggiato dal Brescia, in Italia. In Cile decidono di girare un docu-reality sulla vita del giovane talento: lo seguono mentre saluta i parenti, e soprattutto al suo ritorno dopo la prima parentesi italiana. C’è una scena del documentario in cui prima del volo intercontinentale tutta la famiglia partecipa a una sorta di festa d’addio: ci sono dolci e festoni. Nelson viene ripreso mentre indossa una maglia del Colo Colo palleggiando, senza mai fermarsi. La nonna gli fa una specie di discorso di commiato, gli dice: “Devi lavorare sempre, puoi diventare qualcuno, pensa sempre a tuo fratello, impegnati così potrai guadagnare dei soldi con cui comprare una casa, potrai essere meglio di tutti noi”.
Il Nelson che sei mesi più tardi torna in Cile e viene accolto dal quartiere come la stella del cinema che non ha dimenticato le sue origini umili, che scende dall’auto con la tuta del Brescia e dispensa abbracci e strette di mano, ha gli occhi cupi e duri dei bambini che hanno visto la guerra. “Ci sono miei compagni che si comportano come ventenni, ma abbiamo solo 15 anni e io gli dico dobbiamo comportarci come ragazzini, divertirci, abbiamo quindici anni, siamo ragazzini” confessa all’intervistatore; sullo sfondo il sole tramonta dietro la linea laterale di un campo di calcio. “Il mio sogno è ancora fare il calciatore. Non voglio essere, però, il più grande, il migliore; neppure giocare in una grande squadra. Mi importa non dimenticare come ci si diverte”.
Nell’ultima parte del reportage che Canal13 ha dedicato a Bustamante, Nelson incontra Hugo Arias, della cantera della Universidad Catolica, che ha appena appreso di essere stato incluso nella rosa. Dispensa, in uno strano melange ispano-italiano, consigli da calciatore navigato: «Tu vuoi ser futbolista? Porque si vuoi ser futbolista devi metterci impegno».
Da quando è sbarcato in Italia, nel 2007, sono passati sette anni. Oggi Bustamante, dopo esser passato dal Brescia al Bologna Primavera e infine al Lecce, in Lega Pro, dopo sei mesi da svincolato ha firmato un contratto con il Matera. In un’intervista al Corriere della Sera durante il periodo di inattività ha spiegato: «Quando una persona vale ci sono tanti che se ne approfittano, fanno promesse e chiacchiere. Qui in Italia ho conosciuto tanti ragazzi nella mia stessa situazione, ma quelli che poi arrivano sono pochi. Io ho fatto moltissimi sacrifici e non ho alcuna intenzione di mollare. Forse adesso vado in Spagna».
PARTE IV
Niall Mason ha gli occhi chiari, l’incarnato meticcio, un taglio di capelli da ragazzo più popolare del college. Sua madre è indiana, suo padre americano. È nato a Londra e a sette anni, nel 2004, è finito al pari di Lamela sulle pagine dei giornali, nei titoli dei notiziari, per essere stato tesserato dal Real Madrid. Ma quella di Niall è il prototipo di un altro tipo di storie, nelle quali il calcio non è l’ultimo appiglio che affiora tra i disastri di un naufragio.
Il padre di Niall è un consulente per l’organizzazione della logistica di grandi eventi, e lavora a stretto contatto con le grandi multinazionali. Durante un soggiorno di lavoro a Madrid viene a conoscenza del fatto che il Real sta organizzando dei campus: ci iscrive il figlio. Niall rimarrà con le merengues per tre anni, dai 7 ai 10; giocherà insieme ai due figli di Zidane. Poi, quando il padre per lavoro dovrà trasferirsi in Qatar, a Doha, Niall lo seguirà per giocare nelle file dell’Al Sadd, prima di tornare in Inghilterra dove oggi è una delle promesse dell’U-18 del Southampton, la squadra che ha lanciato Lallana e Oxlade-Chamberlain.
Quando parla della sua esperienza al Real non lo fa con l’aria di chi ha visto passare il treno più importante della sua vita e non l’ha potuto (o saputo) cogliere. Ne parla più come chi, a sei anni, fa un viaggio esclusivo e prestigioso. Giocare a calcio al Real non è diverso da soggiornare in un resort extra lusso di Bora Bora; la Grande Società Calcistica Europea è il brand di successo che viene scelto da persone di successo per regalarsi una experience.È un po’ come partecipare a un talent show, ma solo per gioco, finendo poi per prenderci gusto.
Anche Takuhiro Nakai è stato notato che aveva soltanto sette anni. Frequentava una scuola calcio del Barcellona in Giappone. Con indosso la maglia blaugrana ha fatto la sua comparsa su Yabecchi FC, un programma televisivo di discreto successo tra i giovani sportivi giapponesi, in cui si intervistano calciatori famosi e ci si sfida a colpi di skills.
Takuhiro, soprannominato Pipi, in un video pieno di grafiche manga cercava di insegnare al conduttore Hiroyuki Yabe, in una specie di tutorial, com’è che si fa l’orologio, cioè quel movimento di far girare la gamba, rapidamente e in senso orario, attorno al pallone prima che ricada sul piede e continui ad essere palleggiato.
A decretare il suo successo, in primis, è stato il pubblico. Solo successivamente sono arrivati gli osservatori del Real Madrid, che dopo averlo visto in quel video hanno deciso di metterlo sotto contratto.
“Pipi” indossa la maglia numero 9, come gli anni che aveva quando è stata scattata questa foto.
Un altro giapponese, Takefusa Kubo, è stato reclutato dal Barcellona durante un campus a Yokohama. Qualche tempo dopo, la madre si è dovuta trasferire per lavoro in Costa Brava e quindi oggi Takefusa studia calcio a La Masía.
Nei video che circolano su YouTube sembra più il personaggio di un karate movie che un calciatore in erba: i capelli raccolti in un ciuffo che svetta sulla testa, è perennemente impegnato in un uno contro tutti che è una via di mezzo tra Bruce Lee e Cristiano Ronaldo.
Non sono capace di scegliere cosa mi piace di più di questo video, i palleggi sul muretto nel giardino zen o la musica del glorioso gioco dell’Atari “Wonderboy” montata in sottofondo alle sue giocate.
Chi è che carica i video di questi funambolici ragazzini su YouTube?
E poi: perché?
Chi è il consumatore finale?
La dinamica della vetrina informatica, che va da YouTube alle app specializzate, rende possibile una democrazia orizzontale della scoperta del talento: se prima gli osservatori venivano spediti sulle gradinate di brutti campi di provincia, oggi anche noi possiamo sentirci osservatori, nel senso che possiamo osservare i baby prodigio giocare su brutti campi di provincia direttamente da casa. Non ci trovo nessun impoverimento della poesia, nell’adeguarsi al passo dei tempi.
PARTE V
Piero Lenti è nato in Germania, il paese di sua madre: a due anni è tornato in Italia, a Taranto, più precisamente a Corosino, paese nella cui scuola calcio, la Dellisanti, si è formato. In alcune foto che circolano su Internet porta i capelli come Pieenar, con le treccine che partono dalla fronte per chiudersi dietro la nuca. Sul capo gli disegnano dei solchi che accrescono la sua street cred e lo fanno sembrare più grande.
L’agente di Piero è il padre, Francesco. Che credo sia anche l’amministratore delle pagine Facebook e Google+, dove al campo “lavora” c’è scritto: Osservatore Sportivo.
Le scene di Ferguson che bussa alla porta di casa Wilson e convince un’impacciata signora Giggs a tesserare il figlio Ryan mentre viene servito il tè appartiene al passato. I genitori, oggi, con gli strumenti che hanno a disposizione, sono fautori della carriera dei figli: «Grazie ai video sono stato avvicinato da nove squadre italiane di primo livello e tre straniere dalla Spagna e dall’Inghilterra... Se potessi scegliere andrei all’estero».
Non dico che gli osservatori dei dodici top team interessati a Lenti non sarebbero potuti passare per Corosino; poterlo visionare in video montati ad arte ha certamente reso tutto più semplice, immediato, in un certo senso vorticoso.
I ragazzini oggi leggono i blog e il mondo che gli gira intorno è un mondo in cui ognuno può dire la sua; la vergogna è un inutile orpello del Novecento, l’esposizione mediatica e multimediale inevitabile nei casi migliori, quando non perseguita con tenacia e ingenuità. Da una parte sono abituati ad essere al centro del mondo, dall'altra è un mondo che offre a tutti la possibilità di attingere a qualsiasi fonte informativa, che aiuta la crescita intellettuale individuale, anche dei bambini.
Piero, tredici anni, parla del suo approccio al calcio tirando in ballo non la spensieratezza, ma temi tattici letti chissà dove: «Nella nostra squadra alterniamo il 4-2-3-1 al 4-4-2, mi trovo meglio nel ruolo con i tre trequartisti a supporto della punta perché credo sia la disposizione tattica dove riesco a esprimere al meglio le mie qualità. [...] Tuttavia nel corso degli anni ho giocato anche come centrocampista, prima punta ed esterno destro. Nel 4-2-3-1 mi abbasso spesso per ricevere palla e parto subito in progressione verso l’area avversaria. È il ruolo dove mi trovo meglio e che mi ha permesso di siglare diverse marcature da inizio stagione».
Non risponde alle domande con le parole intrise di vergogna, come Lamela o Bustamante, né con i monosillabi di Vincenzino Sarno. Dice: «Sono un ragazzo umile, che non si monta la testa». E lo dice risultando credibile.
Al netto di qualche fuga in solitaria, di Piero Lenti trovo affascinante la lucidità e la visione di gioco nell’ultimo passaggio per i compagni.
L’ultima “YouTube sensation” è Pietro Tomaselli, figlio di immigrati italiani di seconda generazione in Belgio (i nonni paterni sono originari di Trapani, i suoi genitori hanno sempre vissuto a Courcelles).
Pietro ha cominciato a giocare a calcio a 5, prima di subire il fascino del campo più grande. Dopo una parentesi nei pulcini del RAEC Mons è stato tesserato dall’Anderlecht, la società con più storia e titoli del calcio belga.
«Quando la squadra andava a giocare un torneo internazionale importante, però, Pietro veniva escluso dai convocati. Io continuavo a chiedermi quale potesse essere il motivo», spiega il padre, «poi ho capito che non volevano metterlo in mostra per paura che qualche top club lo notasse. Non mi era sembrato un comportamento corretto [...] quindi ho messo online i video di Pietro e una settimana dopo in tanti si sono interessati a lui».
L’interesse nei confronti di Pietro non è soltanto degli utenti di YouTube, su cui il padre Pino ha creato un canale apposta (che si chiama PietroFootball10, una griffe come quella dei calciatori affermati), ma anche e soprattutto degli specialisti del settore.
Pino carica i primi filmati nel luglio del 2013; contestualmente apre un “profilo” facebook. In entrambe le pagine compare in bella vista un indirizzo email per i contatti. Tre mesi dopo, a ottobre, Pietro, Pino e suo zio Davide volano a Madrid, dove incontrano Zinedine Zidane.
I più emozionati sembrano gli adulti, lui se ne sta fermo, come se il loro fosse un rapporto tra pari; ma forse è solo molto inibito. Si lascia autografare la maglia del Real senza troppo entusiasmo. Un mese più tardi sono a Barcellona, dove Pietro si fa fotografare abbracciato a Neymar.
Sulla cronaca locale il piccolo diventa una celebrità. La fama gli procura: comparsate televisive, esibizioni dal vivo negli intervalli o nell’attesa di eventi pubblici, meglio se sportivi, ma non necessariamente. Come nel novembre del 2013, quando scende sul campo dello Sporting Charleroi durante l’intervallo per fare ciò che gli riesce meglio: orologi, palleggi, giochini d’abilità.
La vita di Pietro è una specie di Truman Show che io avrei trovato opprimente: ovunque venga invitato c’è un pallone da far rimbalzare senza che cada a terra, della musica techno, qualcuno da sfidare nel più emozionante dei casi, tipo il campione belga di freestyle Ismael Azzahafi.
Tra le tante squadre che lo hanno cercato nell’ultimo anno, Pietro Tomaselli ha scelto la Roma: «Non è una questione di soldi», precisa il padre (in tutte le interviste che si trovano online). «Là tutti si conoscono e si salutano. I dirigenti parlano con i bambini, conoscono i loro nomi. Si vede che è come una grande famiglia». E poi «non volevo fargli fare il giro delle sette chiese prima di prendere una decisione».
Secondo Renzo Castagnini, ex talent scout della Juventus attualmente collaboratore dei londinesi del Tottenham, Pietro ha «il 90% di possibilità di sfondare, addirittura il 70% di diventare più forte di Messi», racconta con entusiasmo Pino.
CONCLUSIONI
Capire oggi cosa diventerà Pietro, al di là delle percentuali, è impossibile. Un grande calciatore? Un fenomeno del freestyle? O magari soltanto un dirigente con la passione per il football e una storia divertente sulla sua adolescenza da raccontare all’aperitivo?
Per il momento è un ragazzino coperto di mille attenzioni e altrettante pressioni, destinato a palleggiare qualsiasi pallone gli passi tra i piedi, sia nel mezzo di un campo d’erba che a una festa in famiglia, tra tavolate di parenti, annunciato dal musicista di piano bar improvvisatosi speaker da stadio.
Lo stesso, ovviamente, vale per tutti gli altri enfant prodige citati fin qui.
Povero Michel Sablon, tanta fatica per nulla.
Nel mese di Aprile scorso la FIFA ha annunciato di voler prendere provvedimenti contro il Barcellona per aver violato più volte, nel corso degli anni passati, l’articolo 19 del “Regolamento Status e Trasferimenti dei calciatori”, un regolamento stilato soltanto nel 2010 che vieta il tesseramento di minori provenienti da “altri continenti”.
Secondo l’articolo 19 solo i calciatori in possesso dell’ITC (International Transfer Certificate, un documento che certifica che il trasferimento non violi in alcun modo i diritti dei minori) possono entrare a far parte dei vivai delle squadre europee.
Il calcio è un’industria miliardaria, forse l’unica davvero in grado di garantire prosperità vera: ognuno vuole la sua parte di denaro, potere, onore. Secondo Michel Platini «pagare un ragazzo per prendere a calci un pallone non è diverso da pagarne uno per farlo lavorare in fabbrica. In entrambi i casi si tratta di sfruttamento minorile».
Eppure per molte famiglie la realizzazione professionale dei figli nel mondo del pallone è l'unico viatico per uscire dalla povertà. Se potessero li manderebbero in fabbrica, non è questo il punto.
Resistere alla tentazione di scovare la next big thing è sempre molto difficile. Le nuove tecnologie, e le tendenze di un mercato proiettato verso l’abbattimento della filiera “produttiva”, hanno reso possibile istituire nuove piattaforme aggregative, come Tascout, un social network dedicato alla condivisione di filmati tra bambini-calciatori (ci si può iscrivere solo se si hanno tra i 7 e i 17 anni). “L’assist alla tua crescita calcistica”, come recita il claim in homepage.
Per chi rimane fuori, per noialtri, c’è sempre il luogo dove in assoluto circolano più Nuovi Messi, YouTube: una vetrina dalla quale i baby prodigio, come tante Lolita, continueranno ad ammiccare a ogni Humbert Humbert deciso ad ammirarli, siano questi osservatori pronti a scommettere sulla stella del futuro, semplici appassionati proni alla fascinazione delle evoluzioni, o anche, semplicemente, navigatori compulsivi e annoiati.