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Viaggio a Guayaquil, casa del Barcelona
31 ott 2023
Un reportage per scoprire la storia del Barcelona di Guayaquil, in Ecuador.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / Fotoarena
(copertina) IMAGO / Fotoarena
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«Che ci faccio qui?», si chiedeva nel suo ultimo libro, poco prima di morire, Bruce Chatwin, uno dei reporter di viaggio più famosi e celebrati al mondo, ripercorrendo alcune tappe - geografiche e spirituali - della sua vita. È quello che mi chiedo anch’io mentre improvviso una goffa marcia a velocità sostenuta, in un buio intervallato dai fanali delle auto e delle moto che mi sfrecciano a un metro, nella periferia di quella che secondo alcune classifiche è la 24esima città più pericolosa al mondo: Guayaquil, Ecuador.

Sto tornando dalla partita di Coppa Libertadores tra Barcelona e Palmeiras, iniziata di sera e finita che è quasi notte in una città in cui la notte è stata cancellata per decreto dal coprifuoco: troppa violenza, troppe gang che agiscono nel buio per contendersi strade, denaro e potere, troppi morti ammazzati per stare in giro, per non essere il prossimo a finire sul giornale e al cimitero.

Il coprifuoco inizia all’una, io - una volta terminata una partita tutto sommato dimenticabile, vinta 2-0 dal Palmeiras - ho pensato bene di perdere tempo e approfittare di un pass stampa ottenuto in modo rocambolesco. Il mio vicino di posto in aereo, un medico boliviano e chiacchierone, quando è venuto a sapere che andavo a Guayaquil, mi ha dato il numero di un suo amico che sentirò solo al telefono senza mai vederlo in faccia, ma che mi fa venire a prendere da un suo dipendente con un Fiorino all’aeroporto e mi procura anche il numero di un giornalista di ESPN che poi mi gira il contatto del capo ufficio stampa del Barcelona. In ogni caso, mi fermo a gironzolare per lo stadio, per gli spogliatoi, in conferenza stampa e perfino a centrocampo.

Quel pezzo di carta plastificato che ho al collo è una specie di passe-partout che dentro il mondo del Barcelona Sporting Club mi consente di entrare quasi ovunque, uffici del club compresi. Ma fuori, ovviamente, non vale niente. E fuori iniziano i guai. Scoprirò, in quei giorni, e anche in quelli successivi - passando dalle montagne di Quito alle spiagge di Olon, dalle Galapagos all’Amazzonia - che tutto l’Ecuador è così, fatto di infiniti pass reali e invisibili che ti permettono tutto o quasi entro una certa strada, un certo quartiere, un certo perimetro - o in compagnia di una certa persona - e poi, un metro più in là o con la persona sbagliata non ti permettono più niente. Anzi.

E quindi, eccomi, su un largo marciapiede in mezzo a due strade ad alto scorrimento - e con un pass in tasca che ha perso i suoi superpoteri - mentre cerco di tornare da Juan, il simpatico tassista (chiamato dall’hotel, la raccomandazione è di non prendere mai taxi al volo in strada, perché, in caso di guai, non si può risalire a chi è il conducente) che all’andata mi ha lasciato a un chilometro e duecentocinquanta metri esatti dal stadio - di fronte a una stazione di polizia - dicendo che non poteva andare oltre (nonostante altri taxi lo facessero). Mi sta aspettando sempre lì. Solo che prima, all’andata, c’erano migliaia di persone attorno a me e adesso - che sono passate ore - non c’è praticamente nessuno. Anzi, qualcuno sì, ed è anche peggio.

Per l’andatura - forse esagerando - mi ispiro a quel che veniva consigliato ai sarajevesi agli incroci quando erano sotto il tiro dei cecchini durante l’assedio della città da parte dei serbi. «Se cammini troppo lento sembra che li sfidi e ti sparano, se corri capiscono che hai paura e ti sparano, quindi mantieni un’andatura veloce, ma non troppo».

So che non sono nei Balcani e che non ci sono cecchini appostati, ma armi in giro ce ne sono fin troppe e così applico questa tattica con la faccia - o almeno così mi illudo - di uno che sa dove sta andando, che sta girando per un quartiere che conosce come le sue tasche. Per fortuna la strada è tutta dritta e non posso sbagliare. In fondo c’è Juan, con la sua parlantina e la sua commovente e pericolosa storia di tassista e aspirante avvocato che di giorno si collega online, mentre lavora (e quindi mentre guida), per seguire le videolezioni dell’università nella speranza di cambiare vita. Tra le tante cose che mi dice c’è questa: «Per statistica, una persona ogni 20 che sale a bordo di un taxi ha ucciso, ucciderà, verrà uccisa o vedrà uccidere qualcuno». Non so da dove abbia preso quella statistica, ma io avrò la fortuna di essere uno degli altri diciannove.

Quando torno in hotel, sano e salvo, con una birra ghiacciata Bajamar tra le mani, penso che dovrei scrivere della partita, ma non c’è molto da dire, se non che il Palmeiras è nettamente più forte e che il numero 23 dei brasiliani, Raphael Veiga si è dimostrato di un livello tale - rispetto agli altri - da vincere la partita praticamente da solo. Il Barcelona ha tenuto botta per quasi un tempo, anche se sembrava sempre sempre lì lì per capitolare: quando pareva averla sfangata, rientrando negli spogliatoi a fine primo tempo con un pareggio, è arrivato il rigore (trasformato da Veiga) che ha reso giustizia ai valori in campo. Tempo di ripartire ed è già arrivato il 2-0, che spegne la partita. Tant’è che nel secondo tempo è più divertente guardare gli spalti, dove c’è un tizio con la maglia del Barcelona con sulla schiena il numero 94 e il nome di Pirlo, e dove i tifosi più giovani della curva del Barcelona - rigorosamente a torso nudo - si alternano in una specie di discesa libera senza sci e senza neve in mezzo a seggiolini e gradoni. Come se già non ci fossero abbastanza modi per ammazzarsi a Guayaquil.

Anche i commentatori della radio locale seduti accanto a me si disinteressano di quel che accade in campo e si proiettano alla prossima sfida di campionato, che il Barcelona giocherà da lì a quattro giorni con i campioni in carica dell’Aucas, piccolo club della capitale con tanta storia e poca gloria (ma con un fierissimo auca, ovvero un indigeno araucano, nello stemma) che nel 2022 ha vinto il suo primo titolo, una squadra totalmente fuori moda da essere chiamata a Quito e dintorni “el equipo de los viejitos” (“la squadra dei vecchietti”), per l’età media dei suoi tifosi. Il Barcellona spazzerà poi l’Aucas con un 5-1.

Senza voler passare per quello che vuol dare l’impressione di aver attraversato nel mondo reale una partita di GTA, ecco qui alcuni titoli dei giornali di quei giorni: Venganza se escribe con plomo, ovvero La vendetta si scrive con il piombo. E poi: "Uccisi due poliziotti che avevano fatto saltare un colpo in banca”. Ancora: Pan con cola y puñaladas, cioè Pane con Coca-Cola e pugnalate. Nei quattro giorni passati a Guayaquil oltre a una manciata di rapinatori uccisi in mezzo alla gente, è stato trovato un cadavere a pezzi in una valigia abbandonata in un canale di scolo; è stato freddato un membro di una gang durante una partita di calcetto in cui tra i compagni di squadra c’era un poliziotto; un commando ha cercato di uccidere il neo-eletto sindaco di Duran, la città gemella di Guayaquil, dall’altro lato del fiume Guayas: il sindaco si è salvato, ma sono morti due agenti della scorta e un uomo, colpito da un proiettile vagante, mentre stava consegnando il latte alla guida di un furgone.

In questo contesto si vive e in questo contesto giocano i tre club della città, il Barcelona, la squadra più titolata del Paese, fondata il primo maggio del 1925 dagli spagnoli, tifosi ovviamente del Barcellona (anche lo stemma è praticamente uguale), i rivali storici dell’Emelec, nati un anno dopo (e con cui giocano la partita più sentita nel Paese, chiamata El Clásico del Astillero) e un terzo club spuntato dal nulla nel 2007 come costola ecuadoriana del River Plate (e chiamato appunto Club Deportivo River Plate Ecuador) infine rinominato Guayaquil City nel 2017.

Il Barcelona non è l’unica storia calcistica ecuadoriana che ha un nome preso di peso da un’altra parte. A Guayaquil, infatti, a inizio Novecento, il calcio lo portarono due uomini noti in città come “I fratelli Wright”, che non sono però “quei” fratelli Wright (quelli del primo aereo). A raccontarmi queste e altre stranezze di Guayaquil e del Barcelona è un ragazzo di nome Javeth, tifoso sfegatato del club: fa la guida turistica e di solito non parla di calcio durante i suoi tour, ma di storia. E io di solito in viaggio non frequento guide turistiche. Il nostro incrocio è dovuto al fatto che in hotel, appena arrivato, mi terrorizzano dicendo che non posso muovermi a più di un isolato in nessuna direzione, perché “è troppo pericoloso”. Affidarmi a qualcuno del posto, camminare per la città con uno che sa dove mettere i piedi mi sembra un buon modo per tastare il terreno e ampliare - eventualmente - il mio raggio d’azione.

Javeth, che incontro al Parco delle Iguane (un esotico spazio verde con un centinaio di esemplari, cuccioli compresi, di una mite razza autoctona che vive solo lì), non solo mi fa capire che potrei spingermi qualche isolato più in là anche da solo, ma si illumina quando gli dico che sono italiano e tifoso della Roma. Dice «Totti è il mio calciatore preferito. Un artista. Quando giocava cercavo di non perdermi una partita, nonostante il fuso orario». Poi tira fuori un altro nome: “Byron Moreno”. In Italia lo conosciamo bene per via della sciagurata partita dei Mondiali 2002 con la Corea del Sud, ma anche a Guayaquil ha lasciato ricordi altrettanto amari. A tal punto che per loro il vero “robo” è quello ai danni dal Barcelona contro i rivali capitolini della Ldu di Quito, sempre nell’anno di (dis)grazia 2002, quando con il Barcelona in vantaggio, Byron Moreno si inventò prima un rigore per i padroni di casa e poi allungò - senza motivo apparente - il recupero da 6 a 14 minuti, giusto in tempo per far segnare il gol della vittoria alla squadra di Quito, città in cui l’arbitro si stava candidando alle imminenti elezioni (e dove comunque le perse).

Javeth mi spiegherà che il lungofiume, chiamato Malecon 2000, non è pericoloso finché c’è luce e che da lì si può arrivare, con una passeggiata, fino al quartiere più protetto di Puerto Santa Ana (pieno di grattacieli, guardie private e locali per turisti ed ecuadoriani con i soldi) e al faro di Las Peñas, il classico dedalo di stradine e scalette che sembra fatto apposta per farti perdere, rapinare o entrambe le cose.

Durante il tragitto, oltre a parlarmi della città, Javeth mi fa il nome del «sacerdote Juan Manuel Bazurko, centravanti del Barcelona negli anni Settanta». Gli chiedo se ho capito male, ma avevo capito bene. Bazurko, nato nei Paesi Baschi, era diventato prete a metà degli anni Sessanta e nel 1969 fu inviato in una chiesa della provincia ecuadoriana di Los Ríos. Durante la settimana faceva il prete, al sabato indossava maglietta e pantaloncini e giocava nel campionato regionale, la domenica rimetteva la tonaca e celebrava la messa. Due anni dopo Bazurko era - con il permesso del vescovo e con il vincolo di donare il proprio stipendio alla parrocchia - il centravanti del Barcelona campione in carica. Il sacerdote giocò da titolare, in casa dall’Estudiantes campione del Sudamerica in carica, una delle partite del girone di semifinale. Gli argentini, che in coppa erano imbattuti da 11 partite, caddero proprio per un gol di Bazurko. Poi il Barcelona si autosabotò perdendo la gara decisiva contro i cileni dell’Unión Española Santiago.

Fu la prima ma non l’ultima grande delusione in Coppa Libertadores, torneo che per il Barcelona ha un che di maledetto: due finali perse (1990 e 1998), sette semifinali e mai un trionfo.

Visto che l’aneddoto del sacerdote mi sembrava strano, per non dire inventato, sono poi andato a controllare in una libreria del centro: c’era tutta la storia, scritta più o meno come me l’ha raccontata Javeth. E ce n’erano altre, una che sembra uscita da quei libri di Soriano che non sai mai quanto c’è di vero: è della Libertadores del 1972, in cui il Barcelona si qualifica ancora per il girone a tre di semifinale, questa volta sorteggiato con Independiente e San Paolo. Dopo due pareggi nelle prime due partite, giocate entrambe in casa, il Barcelona deve andare a vincere in Argentina. L’arbitro è tal Ramón Barreto, un uruguaiano che due anni più tardi, al Mondiale del 1974, dirigerà la mitica Germania Ovest-Germania Est 0-1. In quel momento, però, Barreto è l’arbitro che - stando ai giocatori del Barcelona - ha fischiato a senso unico nella partita contro il San Paolo finita 0-0. Prima ancora che inizi la gara con l’Independiente, Barreto ha già ammonito Pedro León, reo di avergli chiesto di arbitrare in modo imparziale nel tunnel che porta agli spogliatoi. Il giocatore, entrato in campo già nervoso, viene espulso subito dopo il gol dell’1-0 degli argentini, al 34esimo. Convinto del sopruso subito non lascia il terreno di gioco e viene allontanato a spintoni dalla polizia. Il trattamento riservato al compagno fa imbufalire gli altri giocatori che inscenano uno sciopero per venti minuti, interrompendo l’incontro. Alla ripresa del gioco l’idolo locale, l’attaccante Alberto Spencer, si rifiuta di calciare il pallone e Barreto tira fuori un altro rosso. Quando Spencer si dirige verso gli spogliatoi i nove compagni lo seguono lasciando vuota metà del campo. A quel punto l’arbitro va a dire all’allenatore che i giocatori sono da ritenersi tutti espulsi. La partita fu poi omologata con il risultato di 1-0 e quei due punti furono decisivi per far vincere il girone e poi la coppa agli argentini.

Nonostante il coprifuoco e i giornali che ogni giorno hanno un delitto nuovo e sempre più atroce, da mettere in prima pagina, finisco con l’empatizzare con Guayaquil, o Guayakill, come hanno con lo spray nero sulle colonne di ingresso di una banca. Faccio in tempo a vedere anche una manifestazione contro la violenza piena di facce talmente stanche da non essere nemmeno più arrabbiate. Mentre vado verso l’aeroporto ripenso alla prima tappa del giro fatto con Javeth, davanti a una di quelle statue un po’ tutte uguali che ogni città mette in piedi per celebrare se stessa, piazzata su un lato del Municipio. Ma la storia (o forse sarebbe meglio dire la leggenda) è un po’ più interessante del solito ed è quella di come Guayaquil ha raggiunto l’indipendenza il 9 ottobre 1820.

Troppo pochi, troppo poco armati e troppo deboli per sconfiggere l’esercito spagnolo, gli ecuadoriani (aiutati da un manipolo di soldati peruviani) s'inventarono un sotterfugio che sembra preso in prestito da una pagina di Gabriel García Marquez, anche se allora i suoi libri non c’erano, visto che nacque 107 anni più tardi. Usando come pretesto le nozze della figlia quindicenne di un potente del posto, i rivoltosi convinsero gli spagnoli a partecipare ai festeggiamenti, li fecero ubriacare tutti con una birra ad alta gradazione alcolica, sottrassero loro le armi e poi li circondarono, costringendoli ad arrendersi. Meno di due anni dopo tutto l’Ecuador era un Paese libero.

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