In un altro universo il Barcellona è fallito. La squadra che dieci anni fa era riconosciuta come la migliore al mondo, quella di Messi, Xavi e Iniesta, quella di Guardiola, la squadra che aveva cambiato la forma del calcio per sempre, è fallita, schiacciata dai debiti, dalla cattiva gestione, dalle contingenze sfortunate. È fallita ed è dovuta ripartire dalle divisioni inferiori catalane nella stagione 2022/23.
In questo stesso universo, invece, la stessa squadra è viva e vegeta, ma per sopravvivere ha pagato un prezzo esagerato, non solo economico ma anche di reputazione. Nel giro di un’estate il Barcellona si è trasformato nella squadra più odiata d’Europa. Certo, anche la sua versione splendente di dieci anni fa poteva risultare antipatica, come possono esserlo tutte le grandi squadre. Un anno fa, però, il Barcellona faceva soprattutto pena. Un anno fa il mondo ha visto le lacrime di Messi, durante la sua conferenza stampa d’addio. Il Barcellona stava subendo un ridimensionamento tecnico per espiare la sua pessima gestione economica, e il sacrificio massimo era il suo agnello dorato, Lionel Messi.
In quel momento tutto era chiaro e lineare. Il club era stato gestito malamente da anni dal presidente Bartomeu, per giunta era arrivata la pandemia, che aveva dato il colpo di grazia alle casse del Barcellona. L’assenza di calcio giocato, e quindi di introiti durante i mesi del lockdown, hanno prosciugato le casse e fatto schizzare i debiti. Le punizioni del FFP della Liga sono scattate. Il Barcellona non riusciva a iscrivere i suoi giocatori, ha rischiato il fallimento. «Quando siamo subentrati non riuscivamo nemmeno a pagare gli stipendi e avevamo una spada di Damocle che pendeva su di noi; la società non aveva pagato i creditori per tre semestri. Eravamo clinicamente morti nel caso in cui i debitori avessero fatto valere il loro debito». Sono parole del presidente Laporta a inizio giugno, mentre ricordava come dal suo insediamento a inizio 2021, nel mezzo della più grossa crisi economica della storia del club, ha passato i primi mesi a trovare un modo per salvare l’esistenza stessa della squadra. Ha dovuto trovare un prestito da 125 milioni per far fronte alle spese correnti. Nel mezzo ha dovuto fare scelte dolorose, la più crudele è stata lasciar andare Messi.
Per capire meglio la situazione, però, vale la pena ricostruire il peculiare funzionamento del Barcellona come club.
Il Barcellona fa parte di quel ristretto gruppo di squadre della Liga che è ancora, tecnicamente, dei soci-tifosi che si suddividono le quote della squadra in forma uguale. Laporta non è il proprietario, ma un funzionario dell’entità e al termine del mandato torna a essere semplicemente uno dei soci. Il Barcellona quindi funziona come un piccolo stato di 150 mila abitanti che ha scelto per statuto (la sua costituzione) di essere una democrazia rappresentativa di stampo presidenziale, in cui vengono convocate elezioni tra i soci per eleggere il presidente, che porta con sé la giunta che gestirà per i successivi 5 anni l’istituzione. Sebbene in forma molto abbozzata, ci sono le varie correnti politiche (non sarebbe corretto chiamarli partiti) che si suddividono per ideologia e che portano avanti una campagna elettorale. Hanno un programma, affrontano dibattiti. Il dibattito delle elezioni del marzo 2021 era centrato su come salvare il club dal fallimento, ma Laporta non si era sbilanciato, era rimasto vago. Nella sua campagna elettorale ha spinto soprattutto su ciò che lui avrebbe rappresentato, ovvero il ritorno della corrente cryffista, scacciata dai due precedenti presidenti, dopo aver allontanato Cruyff in persona. Secondo Laporta era questo il peccato alla base della gestione disastrosa.
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Laporta è un figlio dell'alta borghesia catalana indipendentista, quella frangia liberista che tiene in mano l'economia della regione da fine ottocento, e da cui di fatto nasce il Barcellona prima di diventare più che un club. Laporta ne è la personificazione più moderna e progressista: per lui il Barcellona è ambasciatore e promotore del sentimento catalano nel mondo, una Catalogna indipendente dalla Spagna e all’interno dell’Unione Europea. Ha vissuto da giovane tifoso l’epoca di Cruyff ed è stato lui, grande ammiratore, a volerlo far tornare come consigliere del suo primo mandato. È un politico navigato, ma i suoi discorsi sull’identità del club suonano così autentici che nel tempo hanno convinto uno zoccolo duro di fedelissimi tra i tifosi della squadra. Laporta ha soprattutto un grande merito, che lo rende ancora popolarissimo: è stato presidente durante l’inizio dell’epoca d’oro della squadra, quella che nasce con l’arrivo di Ronaldinho (suo primo grande acquisto) e raggiunge l’empireo con Guardiola allenatore (sua grande scommessa). Non poteva che stravincere le elezioni; era difficile immaginare una figura più credibile per gestire il momento più delicato della storia del club.
Carismatico, accentratore, pragmatico, un po’ Napoleone e un po’ Keynes, Laporta ha sempre mostrato un certo spirito d’azione. La sua strategia è decisamente rischiosa e interventista. Pensa che per il Barcellona sia meglio agire che restare fermi: investire per attivare un moltiplicatore virtuoso. E il lungo periodo? Meglio non preoccuparsi.
Laporta si è mosso subito con frenesia. Ha firmato un contratto di sponsorizzazione con Spotify, che per la prima volta ha brandizzato il Camp Nou; ha ristrutturato il debito attraverso un ulteriore prestito (questa volta di 600 milioni) che ha evitato il fallimento della squadra. Finanziariamente, il Barcellona è entrato, con lui, in una nuova fase: «Eravamo clinicamente morti, e ora siamo in terapia intensiva». La terapia intensiva che intende è una fase di transizione in cui bisogna abbassare il tetto degli stipendi, vendere i giocatori, rinegoziare i contratti. Operazioni di buon senso che possono permettere a una squadra ricca di giovani di talento di gettare le fondamenta per una rinascita graduale e più sostenibile.
La seconda parte della scorsa stagione, con Xavi in panchina, aveva l’aria della premessa perfetta del piano di Laporta. Il Barcellona, guidato da Pedri e Gavi, aveva ricominciato a vincere, e a non farlo in modo stilisticamente neutro, ma anzi sfoggiando il DNA cruyffiano del club. L’apice è stato il 4-0 inflitto al Real Madrid nel Clasìco a marzo. Il Barcellona quindi è stretto in una situazione paradossale, tra futuro luminoso e fallimento. Un debito da 1,3 miliardi ma il nucleo di una squadra promettente e spettacolare. Il piano, secondo Jonathan Wilson sul Guardian, sarebbe dovuto essere un piano triennale in cui Laporta sistema i pasticci della gestione precedente e nel frattempo cresce con calma una squadra di giovani della Masia, che incarnano i valori del club.
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È un piano che certamente avrebbe accontentato gli osservatori neutrali. In fondo è così che si gestisce una squadra, o un’azienda: nei momenti di scarsa disponibilità economica si passa all’austerità, si tagliano i costi e si usano i giovani per ripartire. Il Barcellona aveva tutti gli ingredienti per avviare così un nuovo ciclo e tornare pazientemente ad alti livello. Il club, però, aveva idee diverse.
La metafora ospedaliera della terapia intensiva è il pezzo di discorso di Laporta rilanciato da tutti i media. La parte più importante, in realtà, arriva dopo: «Se ci viene permesso di attivare le leve, passeremo dalla terapia intensiva al reparto e vivremo una vita normale. Competeremo contro i club di stato. Risolveremo i nostri problemi da soli, perché siamo diversi». Su l’ultima frase forse gli sarà scappato un sorriso mentre la provava davanti allo specchio, ma davanti ai microfoni è serissimo. È un discorso che deve presentare ai soci per ratificare con un referendum il passaggio alla seconda fase, quella delle leve economiche, oggi memificate nel discorso pubblico come ingranaggi di un gigantesco Schema Ponzi. Semplificando, le leve sono asset del club venduti per mettere a posto i conti. Il discorso di Laporta ha convinto i soci ad appoggiare l’utilizzo delle leve, che al momento corrispondono a:
- La vendita del 25% dei diritti televisivi per 25 anni alla Sixth Street (10% per 207 mln e 15% per 320 mln)
- La vendita del 49% dei Barça Studios per 200 mln (il 24,5% a Socios.com per 100 mln e il 24,5% per 100 mln a Orpheus Media).
- Pendente c’è un’ulteriore leva che prevede la vendita del 49% della BLM, la società controllata che si occupa del marketing della squadra. soprattutto di ricavi dei diritti tv futuri.
Il Barcellona, in sostanza, ha venduto parte di ricavi futuri per liquidità immediata. Con le leve utilizzate finora la squadra dice di aver raccolto circa 800 milioni, dei quali però solo 600 utilizzati per sistemare i conti (e uscire dalla penalità del FFP della Liga), visto che 200 sono stati stanziati per il mercato.
È quest’ultimo punto che ha modificato radicalmente la percezione del Barcellona. Come è possibile che una squadra sull’orlo del fallimento possa permettersi certe spese per comprare i giocatori? In più, il Barcellona è diventato protagonista del mercato senza vendere nessuno. Per gli osservatori neutrali è stato insopportabile, una truffa sfacciata, un’altra dimostrazione d’arroganza di un grande club che se ne frega dei debiti e continua a spendere grazie al suo potere politico.
Prendiamo ancora il punto di vista critico di Jonathan Wilson, deluso che il club non abbia preso una strada più razionale ai suoi occhi: «Invece il Barça ha scelto di fare grandi acquisti, portando Raphinha e Robert Lewandowski, ipotecando il proprio futuro, apparentemente nella convinzione che la migliore linea d'azione sia quella di abbellirsi, ignorare il bilancio e sperare che la Superlega arrivi prima o poi».
In questo contesto va aggiunta la gestione del caso Frenkie de Jong, parte del tentativo della squadra di abbassare il monte stipendi. Al giocatore olandese è stato chiesto di firmare un nuovo contratto dimezzato perché il Barcellona non vorrebbe dover pagargli 28 milioni. Si tratta della somma tra stipendio, rata dello stipendio dilazionato e bonus concordati per la stagione 2023/24. Nel caso di rinuncia, al Barcellona andrebbe bene anche una sua cessione a 80 milioni, così da incassare abbastanza per coprire anche quanto gli deve di stipendio differito. Il giornalista inglese David Ornstein fa trapelare l’intenzione del Barcellona, in caso di rifiuto di entrambe le opzioni, di rendere nullo il rinnovo di contratto firmato dalla precedente giunta perché arrivato con un accordo fraudolento (da parte della precedente giunta e del manager del giocatore) e il ritorno al contratto originale. Una situazione che ha portato Gary Neville a chiedere pubblicamente l’intervento del sindacato dei giocatori e Marco van Basten a riassumere il sentimento comune davanti ai microfoni: «Penso che Johan Cruyff si vergognerebbe di vedere come si sta comportando il Barça oggi».
Da fuori sembra una strategia che condurrà il Barcellona al fallimento, o quanto meno una gestione di dubbia moralità. Se una squadra sbaglia deve pagare i suoi errori. Secondo il vicepresidente del Barcellona, però, questi interventi non hanno messo a repentaglio il futuro economico della squadra: «Il rischio di investimento è relativo, per gli anni successivi. Dei 160 milioni in media all'anno che incassiamo, il 25% ce lo possiamo permettere, il resto sarebbe pericoloso».
La vera ricetta per uscire dalla crisi sta, secondo Laporta, proprio nei 200 milioni per il mercato, perché con quei soldi il Barcellona ha comprato abbastanza da alzare il livello della rosa e tornare immediatamente a poter competere per il titolo della Liga. Soprattutto, ha comprato il rinnovato entusiasmo dei tifosi catalani, che in pochi mesi si sono ritrovati dall’austerità alla presentazione di un nuovo acquisto a settimana. Eppure, contrariamente a quanto possa sembrare da fuori, Laporta non ha fatto altro che applicare il pensiero cruyffiano. Oltre agli investimenti richiesti per la Masia, e alla promozione dei giovani in prima squadra, ha sempre fatto un uso massiccio del mercato. Non bisogna dimenticare che senza i suoi acquisti - Stoichkov, Laudrup, Koeman e Romario - la visione del Dream Team non avrebbe mai preso forma.
«El dinero en el campo, y no en el banco» (I soldi in campo, non in banca) è una delle frasi più celebri del periodo di Cruyff allenatore, col classico stile aforistico che sembra banale, ma che nasconde un ragionamento efficace: Cruyff era in continua polemica col presidente dell’epoca Nuñez perché pretendeva che la squadra si rinnovasse pesantemente ogni anno anche attraverso il mercato, per migliorare il livello medio, per impedire la stagnazione di chi si ritiene titolare inamovibile, per portare entusiasmo ai tifosi.
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Il Barcellona non è un’azienda a scopo di lucro ma un club calcistico e per tanto non ci devono essere dividendi da pagare ai proprietari, tutto lo sforzo economico deve essere messo per avere poi in campo la migliore squadra possibile. Le vittorie porteranno maggiori introiti, e così via. L’idea di uscire dalla “terapia intensiva” attraverso le cessioni e l’abbassamento del monte ingaggi non sarebbe stato da Laporta, né da Barcellona, proprio per come funziona il club. I contratti erano stati fatti firmare dalla precedente giunta a giocatori ora restii a partire per guadagnare meno soldi. E forse, contrariamente a quanto detto da van Basten, non sarebbe stato neanche nei piani di Cruyff.
Sicuramente per Laporta una stagione di transizione è accettabile, due sono troppe, e la paura di perdere il treno delle squadre più forti è più forte di quella del taglio dei ricavi futuri. Da fuori si può essere nauseati dall’indebitamento continuo di questi club calcistici, ma il Barcellona è solo il caso estremo di una situazione strutturale dell’economia di questo sport oggi. Laporta, anzi, non ha fatto altro che sfruttare il contesto finanziario del calcio attuale: l’idea di fondo che i soldi, per chi è in cima alla piramide, ci sono sempre. Non a caso Laporta è uno dei principali sponsor della Superlega.
Solo un anno dopo le lacrime di Messi, Laporta è sorridente centro del palco allestito nel Camp Nou per la presentazione di Lewandowski. La strategia del ravvivare l’entusiasmo è arrivata al culmine con l'acquisto di Lewandowski dopo mesi di corteggiamento e trattative con il Bayern. I circa 45 milioni spesi non sono la cifra più grande dell’estate del Barcellona, ma quella più significativa, perché Lewandowski è il centravanti per eccellenza del calcio mondiale, il nome che porta gol, attenzione mediatica e quindi sponsor. L’uomo sulle cui spalle poggia le responsabilità di finalizzare la manovra creata dalla squadra di Xavi, e quindi quello su cui si soffermeranno i riflettori. Il simbolo di una squadra che, per dirla con le parole di Laporta, non può essere mai in fase di transizione, deve competere per vincere tutto ogni stagione.
Lewandowski decuplica le potenzialità dell’attacco d Xavi, perché incarna tutte le funzioni che il tecnico suddivideva su tre giocatori (Ferran Torres, Aubameyang e Depay). Il resto del budget del mercato è stato speso seguendo le richieste tecniche di Xavi, che ha ampia voce in capitolo. Il rinnovo di Dembélé, per esempio, è stata una sua esplicita richiesta; Christensen e Kessié, arrivati a parametro zero, danno profondità alla rosa. Raphinha e Koundé sono i due acquisti più onerosi, arrivati per una cifra superiore ai 100 milioni. Due giocatori ritenuti fondamentali dall’allenatore in due ruoli chiave per il suo sistema: il brasiliano va a sostituire Adama Traoré, non confermato, e si inserisce quindi sia come alternativa a Dembélé nel ruolo di ala destra che come titolare sul lato opposto. Per Xavi ci deve essere sempre in campo un’ala in grado di saltare l’uomo e Raphinha, cresciuto idolatrando il compaesano e amico di famiglia Ronaldinho, ha sempre come primo obiettivo puntare l’avversario diretto. Koundé è invece importante per la gestione del pallone da dietro. Un centrale veloce e sicuro nei duelli individuali, che va a migliorare sotto questo aspetto le lacune di Eric Garcia e copre poi quelle col pallone di Araujo, risultando quindi la chiave di volta della difesa pensata da Xavi, che col pallone vuole l’uscita a 3 (alzando il terzino sinistro a dare ampiezza) e si ritrova ora con un’ampia scelta di profili differenti con cui trovare l’incastro giusto a seconda dell’avversario.
Il Barcellona non è riuscito a cedere come avrebbe voluto, e ci ha messo più del previsto a iscrivere i giocatori, ma alla fine è rientrato nei parametri della Liga. Ora, nello scandalo generale, nuovi arrivi sono previsti. Xavi per esempio, mai sazio, ha chiesto Juan Foyth come terzino.
In poche settimane la squadra è passata da avere una rosa lacunosa, con la prospettiva di cessioni importanti per far quadrare i conti, ad avere praticamente due titolari per ruolo e tre nuovi acquisti da mettere sulla copertina. Più che ipotecare il proprio futuro, probabilmente Laporta direbbe che ha investito sulla propria crescita per guadagnare ancora di più. È una scommessa che si regge su un filo sottile, ovvero quello dei risultati del campo. Lì l’interventismo di Laporta non può fare molto.
La maggior parte dei tifosi del Barcellona sono convinti che sia la strategia giusta, mentre gran parte della stampa resta scettica. Ritiene Laporta un populista che ha messo a serio rischio la sopravvivenza del club, che in futuro rischia di finire in mano a chi gli ha concesso i prestiti (come la banca Goldman Sachs), di perdere lo status di squadre dei soci per finire in mano ai privati o, peggio ancora, fallire. Laporta però si mostra sicuro, intervistato dal New York Times durante la tournée americana, ha dichiarato: «Non sono un giocatore d'azzardo, prendo rischi calcolati». Non gli interessa la cattiva reputazione accumulata durante l’estate, è certo che con i risultati tornerà anche l’ammirazione. Ora tutta questa complessa architettura economica si regge sulle spalle di Xavi.