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La festa del Cagliari e di Claudio Ranieri
12 giu 2023
Il tecnico fa tornare i sardi in Serie A dopo appena un anno.
(articolo)
8 min
(copertina)
Gribaudo / Imago
(copertina) Gribaudo / Imago
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È il minuto ottantadue quando Ricci sradica uno dei rarissimi palloni persi da Makombou e con un’uscita furiosa prova a tirare fuori il Bari dal covo di paura che si è costruito con le proprie mani.

L’azione si sposta da sinistra a destra e poi ancora da destra a sinistra, prima di atterrare sui piedi di Folorunsho, il miglior tiratore biancorosso. Ha appena iniziato a diluviare e lungo tutto il corso dell’azione i 60.000 del San Nicola intonano l’ultimo coro di incoraggiamento a tema Serie A: stanno chiedendo lo sforzo finale per riprendersela dopo dodici anni.

Aurelio De Laurentiis è in tribuna, e chi meglio di lui conosce il potere narrativo della pioggia torrenziale in un film. Le avvisaglie macabre, il ticchettio sui vetri, e poi un tuono. Il destro di Folorunsho prende forza, gira bene, ma si schianta sul palo; nell’aria la sensazione che la Serie A stia per scivolare sul bagnato. Il pubblico di Bari continua a cantare, ma è un canto impercettibilmente distorto dalla paura. Tutti, nel silenzio della propria testa, stanno immaginando la beffa.

Quando i sei minuti di recupero stanno per iniziare, Ranieri mette la mano al portafoglio e tira nella mischia Leonardo Pavoletti, l’attaccante che il Bari ha corteggiato per due finestre di mercato consecutive e che nonostante il basso minutaggio ha scelto di restare per caricarsi una missione sulle spalle.

I compagni non lo cercano, ormai intestarditi nel tentativo di sfondare il muro dritto per dritto. Ranieri toglie gli occhiali in panchina e con una mimica chiarissima fa cenno di smetterla di passare per il centro, ma di sfruttare l’ampiezza e far cadere palloni in area.

Non passano neanche tre secondi dalla richiesta che il film nella sua testa prende vita con ventidue attori già sul set: la palla finisce sulla corsia di Zappa, freddo a saltare Maita con una finta e mettere dentro un cross pericoloso. Pavoletti prende posizione sull'inesperto Zuzek e segna il gol promozione.

Finisce con i giocatori del Bari piegati a terra dal dolore, quelli del Cagliari che saltano in gruppo, Gianluca Lapadula - capocannoniere e trascinatore - portato in trionfo, Pavoletti che chiude il suo redemption-arc. Claudio Ranieri, pur in lacrime e dentro una delle gioie più inattese che gli ha riservato questa sua ennesima rinascita, ha la freddezza per andare sotto ai suoi tifosi e di chiedergli di non cantare contro il Bari. Le scene drammatiche e romantiche che potevamo aspettarci da uno spareggio per salire in Serie A.

Che doppio confronto è stato

Il Bari può distribuire lamentele a tutte le divinità che gli hanno voltato le spalle: l’insensato sperpero di gol dell’andata, il palo di Folorunsho e il doppio infortunio di Di Cesare e del nuovo entrato Ceter. Al contempo però deve rimproverarsi un atteggiamento troppo speculativo nella gara di ritorno.

In un San Nicola vestito a festa, il Cagliari si presenta con un solo risultato su tre ma soprattutto pochi giorni dopo una partita di andata molto al di sotto delle aspettative. Solo per una ventina di minuti la squadra di Ranieri aveva imposto la sua superiorità, soprattutto fisica. I duelli corpo a corpo sproporzionati - Cheddira rimbalzava sui difensori come una pallina spedita da un lato all’altro del tavolo da ping pong - e l’intensità nervosa dei sardi avevano dato l’impressione di una partita senza storia.

Al ventesimo, alla Unipol Domus, il Cagliari aveva già segnato un gol manipolando le uscite dei centrali con la catena Mancosu-Lapadula, se n’era fatto annullare un altro, aveva colpito una traversa e poi impegnato Caprile in un paio di circostanze.

È un momento in cui credo nessuno avrebbe immaginato un esito diverso dal 3-0, tanto era facile il modo con cui la squadra di Ranieri riusciva a costruire azioni pericolose. Eppure la squadra di Mignani aveva pian piano conquistato metri, attraverso costruzioni dal basso creative e spesso illeggibili per un Cagliari sempre più stanco.

I biancorossi avevano raggiunto il pareggio solo all’ultimo minuto, ma il dato finale sugli xg si chiudeva sul 5.38 per il Bari e 0.82 per il Cagliari. Ranieri, commentando la promozione finale, aveva detto: «Bene ci è andata alla prima partita, l’avremmo potuta perdere almeno 3-1».

Il Bari conferma la formazione dell'andata e lascia immaginare un atteggiamento simile, invece la paura prende il sopravvento. Ranieri, senza Nandez e parzialmente anche senza Mancosu, ridisegna la squadra con un 4-3-3.

Il ritorno al centro della difesa di Dossena, un incubo per Cheddira, e di Obert, perfetto in costruzione, permettono sempre al Cagliari di tenere il baricentro alto e occupare la metà campo avversaria. Alla fine del primo tempo i calci d’angolo sono sette, i tiri in porta dieci, le parate di Caprile cinque, che si aggiungono al suo già fitto portfolio, che probabilmente gli varrà comunque la Serie A.

Di tanto in tanto il Bari si riaffaccia dalle parti del Cagliari, ma l’eccessivo svuotamento del centrocampo, la costante inferiorità numerica offensiva e la pessima condizione di Cheddira permettono al Cagliari di restare tranquillo. È proprio l’attaccante marocchino, travolto da un pianto inconsolabile a fine partita, uno dei protagonisti più negativi del doppio confronto: dopo 50 minuti della partita di andata, riporta Giuseppe Pastore, aveva totalizzato 1.91 xG senza segnare; un numero superiore agli xG accumulati da Simeone a Napoli durante tutto l’anno, per intenderci.

Se in Sardegna era stato sciupone, al ritorno è inoffensivo. In una gara decisa dai dettagli - Mignani che all’andata spia il finale dalla serratura inserendo Antenucci a freddo per battere un rigore, Ranieri che immagina la zampata vincente di Pavoletti - vince la squadra che più è stata sé stessa, paziente come il suo allenatore e sempre capace di leggere i momenti della partita. Il Bari, che sui valori complessivi pagava il dislivello con un Cagliari pieno zeppo di calciatori già pronti per la A, più che per la sconfitta può piangersi addosso per aver sprecato l’occasione di giocare a viso aperto davanti al pubblico più numeroso della sua storia.

Il doppio confronto si è rivelato uno schienale troppo comodo su cui poggiarsi, e rischiare il colpo di sonno. È successo a due minuti dalla Serie A: poco dopo ha smesso di piovere, ma non c’era più tempo.

La vittoria di Claudio Ranieri

Non voleva tornarci al Cagliari. Perché sporcare la favola della doppia promozione dalla C alla A di un giovane allenatore alle prime armi? Poi le parole di Gigi Riva (“Claudio è uno di noi”) e la presa di coscienza: non essere egoista, si dice Ranieri, il Cagliari è in difficoltà, buttati. Le cose con Liverani vanno male, è dicembre e i sardi sono più vicini ai play-out che ai play-off.

A sentirlo nel post-partita viene da chiedersi in quale parte del corpo riesca a nascondere le emozioni negative: «Ogni sconfitta è stata un colpo al cuore: non centrare la promozione mi avrebbe distrutto, per cui mi sento liberato». Sono le parole di un uomo ossessionato, che non dorme la notte, ma in cui è difficile riconoscere la persona pacata che ogni volta va davanti ai microfoni.

Al suo arrivo in Serie B la sua voce suona messianica, il calcio per lui un libro aperto. Gli chiedono come farà a far diventare squadra un Cagliari così svuotato e lui risponde “Mi dia tempo”. Sa già dove mettere le mani. Serve riportare sicurezza; all’inizio sono briciole, ma più passano le partite e più le briciole si compattano e diventano pane.

È un uomo che fa il calco sulle sue emozioni, si commuove dopo la rimonta con il Parma, scoppia a piangere al gol-promozione; empatizza con le 60.000 persone che hanno vissuto l’ennesimo finale deludente e rimprovera i suoi tifosi quando si lasciano andare ai cori contro Bari. «Non ho capito perché si debba tifare contro. Si deve fare il tifo per la nostra squadra. Il Bari è stato un grande rivale e dobbiamo stringere loro la mano».

Riuscirebbe a tenere il vestito pulito pure durante una lotta sul fango; uno a cui piace complimentarsi con l’avversario, lasciare che lo sport sia sport, che il gioco resti un gioco. Ovviamente è uno a cui più di tutti piace vincere, in qualsiasi modo possibile. È successo ancora, nell’anno in cui il Leicester retrocede in Championship.

La grande ferita

La città di Bari, invece, si risveglia stordita: l’orgoglio di essere arrivati a due minuti dalla Serie A da neo-promossi resta intatto, così come la consapevolezza di aver dovuto lasciare gli addobbi in cantina dopo aver immaginato nei minimi dettagli una festa interminabile sul lungomare.

I 60.000 biglietti venduti in tre ore sono lo specchio di una terra che non vedeva l’ora di ricomparire sulla cartina geografica più importante, che ha sognato per una settimana di tornare a giocare a Roma, Milano, o Torino e sul più bello - come spesso le capita - ha mollato la presa.

Più passano gli anni e più sul Bar sembra cucirsi addosso il culto romantico della sconfitta, con la sua lunga collezione di fallimenti ai play-off. Per uno scherzo del destino tutte le stagioni di Serie B dal 2011 in poi si sono suddivise in tante stagioni amare e in poche stagioni esaltanti ma dal finale comunque amaro. Il senso della gioia mai per intero.

L’unica via d’uscita è la fede cieca, religiosa, quella che permette sempre di rifugiarsi nell’equazione più consolatoria di tutte: più aumentano gli anni di delusione, più aumenterà la gioia del prossimo successo.

Sarà per questo che a fine partita tutta la squadra si è fatta coccolare sotto la curva, i corpi ricurvi dalla stanchezza, le lacrime perfettamente distinguibili dal bagnato della pioggia; eppure una muraglia davanti a loro - anch’essa in lacrime - era lì a cantare: «Siamo sempre con voi, non vi lasceremo mai».

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