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La leggenda della Generacion Dorada
28 ago 2019
A 15 anni esatti dallo storico oro di Atene, ci siamo fatti raccontare da Carlos Delfino la storia e il ricordo della Nazionale di basket più indimenticabile del terzo millennio.
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19 min
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«Dicevo sempre a tutti: affinché le altre nazioni migliorino, dovranno giocare contro di noi. E un giorno ci raggiungeranno». Inizia così, con queste parole di David Stern, il meraviglioso documentario che l’Olympic Channel, il canale web del CIO, ha dedicato alla nazionale di basket più rivoluzionaria e indimenticabile del terzo millennio.

Quando Stern si riferisce al “dovranno giocare contro di noi” fa probabilmente riferimento a Barcellona 1992, l’Olimpiade dove è cambiata la storia della pallacanestro. Quel “raggiungeranno”, invece, può avere diverse applicazioni. Può riferirsi alla Lituania, che a Sydney 2000 sfiorò l’impresa in semifinale contro un Team USA dal grande talento; può riferirsi alla Jugoslavia, che nella sua ultima grande esibizione eliminò gli Stati Uniti ai quarti di finale del mondiale casalingo di Indianapolis 2002.

Può senza dubbio riferirsi all’ultima nazionale che 15 anni fa fu in grado di sconfiggere ed eliminare dai Giochi Olimpici gli inventori del gioco. Una squadra che ha segnato un’epoca e che ad Atene 2004 si riprese quanto aveva dilapidato proprio a Indianapolis, aprendo un’era irripetibile di successi. Una generazione d’oro.

«Avere la possibilità di entrare in un gruppo di giocatori dalle qualità umane eccezionali, capaci di fare cose uniche in campo, è stata una benedizione per la mia carriera». Quindici anni dopo quella notte d’agosto ad Atene, Carlos Delfino è ancora in campo a dire la sua: dopo un decennio abbondante in NBA, ha vissuto due esperienze totalizzanti come l’epopea torinese di Larry Brown e il ritorno in Serie A della Fortitudo Bologna dopo 10 anni.

Il nativo di Santa Fe, oltre ai traguardi con le squadre di club, è soprattutto uno dei 12 che integrarono la Seleccion Argentina in quell’estate ateniese di 15 anni fa: un Virgilio d’eccezione per guidarci dentro l’epopea albiceleste, capace di attraversare quattro edizioni delle Olimpiadi e segnare un capitolo irripetibile della storia del basket.

Dove tutto ebbe inizio

Pur restando un paese principalmente noto per il calcio, l’Argentina vanta una tradizione cestistica che affonda le sue radici ben prima dell’inizio del terzo millennio. Primi a laurearsi campioni del mondo nel Mondiale inaugurale del 1950, nella seconda metà del secolo scorso gli argentini possono vantare quattro titoli sudamericani e bei piazzamenti ai Mondiali, anche se alle Olimpiadi hanno raccolto solo un 4° posto nel 1952.

Chiusa la parentesi degli anni ‘90, segnati dal ritorno alle Olimpiadi ad Atlanta 1996 dopo un’assenza che durava da Helsinki 1952, i primi segnali di una musica che stava lentamente cambiando si avvertirono già nel 2001, anno in cui l’Argentina vinse il suo 10° titolo sudamericano ma soprattutto la prima AmeriCup, dominata da imbattuti a Neuquen con il titolo di MVP vinto da quel Manu Ginobili fresco di triplete con la Virtus Bologna.

È sulla scia di quell’estate che l’Argentina si presentò con inedite ambizioni al Mondiale 2002. A Indianapolis il cammino recitava 5 vittorie in 5 partite prima della sfida agli Stati Uniti padroni di casa, partita che chiudeva la seconda fase e che segnò il primo grande “squillo” di un gruppo di giocatori speciale.

È il 4 settembre 2002: vincendo per 87-80, l’Argentina diventa la prima nazionale della storia a sconfiggere una rappresentativa americana composta interamente di giocatori NBA. (Foto FIBA)

Il successo contro Team USA di Reggie Miller, Paul Pierce e Baron Davis fu la scintilla che portò l’Albiceleste dritta in finale da imbattuta, per la prima volta in oltre 50 anni. Sul più bello, però, sfumò la medaglia d’oro: l’Argentina, complice anche un Ginobili con una caviglia malconcia, dilapidò un vantaggio di 7 punti negli ultimi 2 minuti contro la Jugoslavia, che poi dominò il supplementare per completare uno storico back-to-back mondiale.

La delusione era grossa, ma toccava metterla alle spalle per centrare il successivo obiettivo: l’Olimpiade di Atene. La qualificazione arrivò nel 2003, al Panamericano di San Juan: in finale la seleccion subì la vendetta americana (+33), ma il biglietto per la Grecia era già arrivato con la vittoria sul Canada di Steve Nash in semifinale.

A San Juan doveva esserci anche Delfino, pronto al debutto in Nazionale, ma le cose non andarono come previsto: «Mi convocano nel 2003, ma dopo una distorsione alla caviglia nel finale di stagione con la Fortitudo, Bologna non mi lascia andare» ricorda. «L’anno dopo, per punizione, coach Ruben Magnano mi manda nella Nazionale B a giocare il Sudamericano in Brasile, dove non avevamo mai vinto. Abbiamo vinto il torneo e da quel gruppo hanno preso tre giocatori per la Nazionale Olimpica: Leonardo Gutierrez, Walter Herrmann e io».

«Avevamo ritmo e tanta carica per aver vinto in Brasile» continua Delfino. «Per me era anche l’occasione di ritrovare molti giocatori che avevo affrontato come Hugo Sconochini o Ginobili. Tutti loro avevano già una chimica di squadra sviluppata nel corso di un lavoro pluriennale: per Walter e me entrare in quel gruppo da “nuovi” era una fortuna. Arrivare alle Olimpiadi e avere in allenamento davanti giocatori come Alejandro Montecchia, con cui avevo giocato insieme, e Pepe Sanchez che mi “menavano” e mi facevano soffrire in allenamento mi rendeva entusiasta».

«C’era tanta voglia di lavorare continuamente, e prendere esempio da giocatori incredibili come Ginobili, Nocioni o Sconochini. Hugo, poi, era il mio idolo: rimanevo sempre dopo l’allenamento a giocare uno-contro-uno con lui, ho poi preso il numero 10 in Nazionale per lui. Era come sentirsi dentro un parco giochi».

Il morale era alto nel gruppo, anche se la preparazione in vista del debutto Olimpico contro la Serbia - nel rematch della finale mondiale - non procedeva per il verso giusto: «Eravamo un talentuoso gruppo di amici, ma in tutta la preparazione non avevamo mai vinto» dice Delfino. «Le preparazioni di Magnano sono lunghe, con almeno un mese di allenamenti e partite. Non riuscivamo a trovare il modo di vincere, e giocavamo contro squadre non fortissime, come la Spagna B o il Venezuela che avevamo battuto con la Nazionale B».

«Sentivamo una pressione incredibile per la partita d’esordio con la Serbia. C’era molta tensione in campo, per cercare di vincere e riscattare Indianapolis». Ne venne fuori una sfida vibrante, equilibrata, con l’inerzia che cambiava continuamente. Due canestri importanti di Dejan Bodiroga negli ultimi 5 minuti sembrarono poter dare la spinta decisiva ai serbi, avanti di 4 a 40 secondi dal termine. Ma Nocioni e Ginobili, approfittando dell’imprecisione dalla lunetta degli avversari, riportarono sull’81 pari l’albiceleste. Dopo l’1 su 2 ai liberi di Tomasevic con 3.8 secondi sul cronometro, ci fu tempo per un’ultima azione.

«Solo Manu poteva segnare quel canestro, e non poteva finire in una maniera più speciale di quella palomita» ricorda Delfino, «come un colpo di testa in tuffo nel calcio. È stato incredibile vedere Magnano fare il giro di campo di corsa alla fine. Mi ricordo tutto, anche perché ero in campo in quell’azione: fui uno dei primi a gettarmi su Manu, rischiando di soffocarlo. Fu una gioia incredibile, capace di scrollare dalle nostre spalle gli elefanti che avevamo addosso».

Per l’Argentina comunque non fu un girone semplice: due giorni dopo il canestro di Ginobili, il crollo nell’ultimo quarto con la Spagna riportò alla realtà la squadra di Magnano, che poi dispose agevolmente della Cina di Yao Ming prima di battere (soffrendo) la Nuova Zelanda e arrendersi all’Italia nell’ultima partita del girone, condannandosi alla metà “dura” del tabellone con la Grecia ai quarti di finale e un’eventuale semifinale contro la vincente di Spagna-Stati Uniti.

La caduta degli Dei

Ogni grande storia ha un preludio. Passata la prima fase a gironi, il formato di Atene 2004 prevedeva l’equivalente di una roulette: tre partite a eliminazione diretta in tre giorni. Otto squadre a caccia di una medaglia senza poter contare su giorni di riposo tra quarti, semifinali e finali, al contrario degli altri tornei olimpici almeno da Barcellona 1992 e dall’arrivo dei professionisti NBA ai Giochi.

La giornata di giovedì 26 agosto 2004, quindi, era iniziata con la “rinascita” degli Stati Uniti di Larry Brown, capaci di battere la sin lì imbattuta Spagna nel primo quarto di finale, conquistando l’accesso alle semifinali e riconquistando un po’ di momentum dopo le sconfitte nel girone con Portorico e Lituania. I baltici piegarono agevolmente la Cina di Yao Ming, mentre i caraibici si arresero all’Italia nella terza partita in programma. A chiudere quest’ultimo, la sfida più attesa, quella tra i padroni di casa e l’Argentina. Due squadre accomunate dai colori della maglia e dalla consapevolezza di essere davanti a una grande occasione.

Nonostante il rientro ellenico nel secondo quarto, l’Argentina “sbancò” OAKA con una grande ripresa da 40-29.

Fu quindi semifinale, contro gli Stati Uniti sorpresi a Indianapolis due anni prima e travolgenti a San Juan l’anno dopo. «Preparando la partita, per quanto sia difficile farlo con meno di 24 ore di tempo» ricorda Delfino, «abbiamo fatto una scommessa: scommettere contro il loro tiro da fuori e chiuderci in area, puntando su Manu che in quel torneo era come baciato dalle stelle, visto che tutto quello che toccava diventava oro».

«Abbiamo iniziato bene, sapendo che loro avevano già perso ma che avevano battuto il giorno prima la Spagna, arrivando forse un po’ rilassati alla sfida contro di noi, mentre dalla nostra avevamo la carica per la vittoria contro la Grecia» continua. «Non potevamo andare a prendere Allen Iverson, non potevamo giocare 1-contro-1 con Duncan in post basso. Ma potevamo sfruttare altre possibilità».

«Ad esempio puntare su giocatori come Shawn Marion» continua Delfino, «che se gli lasciavi il tiro da fuori se lo prendeva, e potevamo approfittarne. La scommessa è riuscita e noi abbiamo preparato e giocato una partita brillante. Ruben e lo staff l’hanno vista e allenata molto bene, e nei momenti chiave i migliori hanno dato il meglio in maniera straordinaria, con quella che è stata la consacrazione definitiva di Manu, MVP indiscusso di quel torneo».

Come un Derby

Nemmeno il tempo di assimilare lo storico successo sugli Stati Uniti che per l’Argentina c’era da pensare all’occasione di una vita, ben oltre la finale Mondiale di due anni prima. La finale Olimpica, la prima nella storia del basket rioplatense e l’occasione di conquistare la prima medaglia d’oro per lo sport argentino da più di 50 anni, da Tranquilo Capozzo e Eduardo Guerrero nel canottaggio a Helsinki 1952.

A dir la verità, qualche ora prima della finale del basket per l’albiceleste arrivò l’oro nel calcio con il gol decisivo di Carlos Tevez nella finale contro il Paraguay, ma la sera apparteneva tutta alla squadra di Magnano e all’atto conclusivo dell’OAKA contro una squadra capace di sorprendere tanto quanto l’Argentina nel torneo, oltre ad essere stata l’ultima a ordine cronologico a battere i biancocelesti nella prima fase.

«Avevamo perso con l’Italia nel girone» ricorda Delfino, «con un mio doppio errore sotto canestro allo scadere. La prima persona che venne a consolarmi dopo aver sbagliato il tiro della vittoria fu Gianmarco Pozzecco, il mio compagno di stanza alla Fortitudo nei due anni che avevamo giocato insieme».

«Prima della finale ci siamo messi in mezzo al campo io, Gianmarco e Gianluca Basile, dicendoci “Chi perde questa finale è la talpa della squadra”, visto che quell’anno avevamo già perso finale di Eurolega e campionato, e tra di noi qualcuno avrebbe perso anche la finale olimpica».

Per 33 minuti è partita alla pari, poi emerge la mano di Montecchia, “l’italiano”.

«Giocare la finale contro l’Italia è stato qualcosa di speciale e diverso» continua Delfino. «Alla sirena, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare ad abbracciare Gianmarco e Gianluca, prima ancora di festeggiare, perché avevamo sofferto insieme per tutta la stagione. Eravamo due grandi squadre, che giocavano insieme, con una pallacanestro e un percorso simile nel torneo».

«Nessuna delle due era favorita a inizio torneo, eravamo due outsider. Anche per questo in finale la partita è stata giocata con molta tensione, fino a metà dell’ultimo quarto sempre in equilibrio. Il nostro sprint finale è arrivato perché probabilmente eravamo più lunghi come roster: l’ha decisa Montecchia, che non era tra le prime opzioni offensive ma conosceva l’Italia meglio di tutti, perché aveva giocato lì più tempo di tutti noi. Ma prima della finale non c’era un favorito».

La legacy di Atene

In quello che oggi è forse il paese calciofilo per eccellenza, la medaglia di Atene ebbe un effetto dirompente, elevando il basket a livelli mai visti prima di allora: «Era incredibile capire di essere nei migliori ed essere riconosciuti. Salivi su un taxi a Buenos Aires e l’autista ti riconosceva. E questo prima non succedeva: in Argentina si parla di calcio, del dollaro, di calcio e della politica. I giornalisti sportivi, che il 99% del tempo parlavano di calcio, cominciarono a parlare di noi e a farci finire in copertina».

(Foto FIBA)

Il trionfo greco, però, non ebbe soltanto l’effetto di accrescere la fama popolare dei medagliati, ma di aprire nuove possibilità - sin lì quasi inesplorate - per la loro carriera. Dei 12 campioni di Atene, soltanto uno arrivava in Grecia da giocatore NBA (Ginobili) mentre altri due potevano vantare brevi apparizioni negli Stati Uniti, fungendo da veri e propri pionieri.

Alle esperienze di Pepe Sanchez (38 partite tra il 2000 e il 2003 con Philadelphia, Atlanta e Detroit dopo l’NCAA a Temple) e Ruben Wolkowyski (41 partite tra Seattle e Boston tra il 2000 e il 2003) si andranno ad aggiungere, dopo i Giochi, quelle dello stesso Delfino (scelto alla numero 25 del Draft 2003 dai Pistons e in NBA per otto stagioni tra il 2004 e il 2013) e di Andres Nocioni, firmato proprio dopo l’Olimpiade dai Chicago Bulls con cui rimarrà per cinque stagioni (più una a Sacramento e due a Philadelphia).

El Chapu.

Dopo, invece, arrivò anche il turno di Luis Scola (10 anni tra Houston, Phoenix, Indiana Toronto e Brooklyn) e delle esperienze più brevi per Walter Hermann (tre anni tra Detroit e Charlotte) e Fabricio Oberto, campione NBA con gli Spurs nel 2007 e prossimo a essere introdotto nella Hall of Fame FIBA. «La porta l’abbiamo aperta con la medaglia e spalancata con l’NBA, facendoci conoscere a livelli che nemmeno ci sognavamo» sostiene Delfino. «Da piccolo sognavo di giocare in NBA: sono venuto in Italia pensando che fosse lo scalino precedente all’approdo in America. Ma pensavo di andare e tornare poco dopo, non di fare una carriera lunga otto anni».

Pechino, il ritorno

«Come Nazionale abbiamo continuato a crescere grazie al salto di qualità che ci ha fatto fare l’NBA» dice ora Delfino. Un salto di qualità che permise all’Argentina di far fronte con orgoglio e grande capacità alle aspettative sempre crescenti. Al Mondiale 2006 la medaglia sfumò in volata, quando i tiri liberi di José Calderon regalarono la finale alla Spagna poi vincitrice sulla Grecia (nonostante l’infortunio di Pau Gasol), mentre i primi Stati Uniti di Mike Krzyzewski impedirono loro il ritorno sul podio iridato.

A Pechino, invece, l’occasione era quella di provare a bissare almeno la presenza sul podio da campioni in carica in un torneo di livello altissimo: eliminata nuovamente la Grecia ai quarti di finale, in semifinale non riuscì il nuovo miracolo sugli Stati Uniti nonostante un primo tempo alla pari. Alla fine, però, arrivò un bellissimo bronzo, regolando nettamente la Lituania nella finale di consolazione nonostante l’assenza di Ginobili, infortunatosi in semifinale: fu proprio Delfino a trascinare la squadra nella finale per il bronzo, con una prova da 20 punti e 10 rimbalzi.

«Pechino è il torneo che mi porto più dentro, che mi sono goduto di più» ricorda Delfino. «La medaglia di bronzo la valuto come l’oro del 2004: la squadra era più corta e giocavamo a un livello più alto. Abbiamo vinto la medaglia senza Manu, contro la Lituania che non avevamo mai battuto e che ci aveva già sconfitto nel girone, vincendo contro una squadra fortissima che poteva anche giocarsi la medaglia d’oro contro il Redeem Team. Pechino la porto sempre nel cuore come uno dei tornei più belli che abbia mai giocato».

Rispetto al 2004 coach Magnano aveva già salutato tutti, approdando in Italia alla guida di Varese, ma non c’erano neanche buona parte della vecchia guardia composta da Pepe Sanchez (uno dei migliori al Mondiale 2006, ma assente ai Giochi 2008), Montecchia, Sconochini e Wolkowyski. A Pechino vince era entrato in squadra Pablo Prigioni ed era stato promosso in panchina Sergio Hernandez, assistente di Magnano ad Atene. Anche al Mondiale 2010 l’Argentina iniziò bene, con il secondo posto dietro la Serbia nel girone e una bella vittoria agli ottavi contro il Brasile. Il netto ko ai quarti contro la Lituania escluse però l’albiceleste dalle prime quattro di una competizione intercontinentale per la prima volta dal 2000.

L’Argentina campione nel Sudamericano di Mar del Plata 2011. Una delle ultime apparizioni del nucleo storico di Atene 2004 quasi al completo. (Foto FIBA)

Londra e Rio, gli addii

L’occasione per rifarsi arrivò a Londra, in quella che sulla carta doveva essere l’ultima Olimpiade insieme per il nucleo di Atene: a Scola, Gutierrez e Delfino, infatti, si aggregarono anche Ginobili e Nocioni (assenti al Mondiale due anni prima), oltre alla certezza Prigioni e al debutto di un giovane playmaker in rampa di lancio: Facundo Campazzo.

Delfino ai giochi di Londra. (Foto FIBA)

«Londra è la pagina successiva, anche con qualche rammarico per aver perso la finale per il bronzo». Con qualche patema in più rispetto al passato per superare il girone (complici le sconfitte con USA e Francia), il brillante quarto di finale vinto contro il Brasile sembrava aprire la strada alla terza medaglia consecutiva. Dopo il ko in semifinale contro gli Stati Uniti, infatti, il bronzo sfumò nella finalina con la Russia di David Blatt, persa in volata contro un grande Alexey Shved.

«Sarebbe stato il finale giusto per chiudere con il gruppo, sapendo che già partivamo considerati come possibili medagliati» continua Delfino. «Giocavamo in automatico, sapendo cosa aspettarci gli uni dagli altri. Il gruppo che era insieme sia a Pechino che a Londra, come Prigioni, Manu, Nocioni, Scola, aveva una fratellanza totale, una maniera comune di vedere e pensare la pallacanestro che ti permetteva di sapere cosa fare in ogni momento».

L’avventura al Mondiale 2014 durò poco (fuori agli ottavi di finale contro il Brasile), ma c’era ancora tempo per un’ultima reunion, nella prima storica Olimpiade in Sudamerica. A Rio, infatti, il nucleo degli ultimi Giochi (ad eccezione del solo Pablo Prigioni, ormai prossimo al ritiro dopo le stagioni da esordiente in NBA ultra-trentenne) decise di scendere in campo per un’ultima grande avventura. Scola, Ginobili, Delfino e Nocioni accumulavano 144 anni in quattro, e per gli ultimi tre l’Olimpiade brasiliana rappresentava l’ultima avventura con la maglia della Nazionale, insieme alla nuova generazione rappresentata - oltre che da Campazzo - da altri emergenti interessanti come Garino, Deck e Laprovittola.

Nocioni e Ginobili a Rio. Dopo l’Olimpiade 2016, i numeri 5 e 13 sono stati ritirati da parte della Federazione Argentina, così da restare per sempre di “Manu” e del “Chapu”. (Foto FIBA)

«A Rio siamo arrivati vecchi» ricorda Delfino. «È stato più un saluto a livello personale e la fortuna di aver giocato quattro Olimpiadi con tre grandi come Manu, Andres e Luis. E la soddisfazione di essere tornato dopo tutti gli infortuni e gli interventi, ma un po’ di rammarico perché abbiamo fatto il cammino opposto a quello del 2004, vincendo sempre in preparazione ma arrivando ai Giochi, con l’affetto dei nostri tifosi, senza benzina, tranne quella partita speciale contro il Brasile. Sono comunque contento e orgoglioso, mi sento quasi “prescelto”. Non avrei mai immaginato di vivere una storia del genere, neanche nei miei sogni».

Amici, prima di tutto

Dei quattro di Rio de Janeiro (e Atene, Pechino e Londra), soltanto in due hanno detto basta. Manu Ginobili ha chiuso la carriera dodici mesi fa, a oltre 40 anni e un’ultima coraggiosa stagione NBA a San Antonio (la sedicesima), mentre Andres Nocioni si è fermato un anno prima, vedendo sfumare la decima in Eurolega con il Real Madrid in finale contro il Fenerbahce.

Luis Scola, invece, ha giocato le ultime due stagioni in Cina con Shanxi e Shanghai, e ha guidato la giovane Argentina nelle qualificazioni al Mondiale 2019, di cui dovrebbe essere protagonista. Per Carlos Delfino, invece, il post Rio è stato il momento dei ritorni: prima quello in Argentina, con una breve apparizione al Boca Juniors, e poi quello in Europa, al Baskonia. Infine, in questa stagione c’è stato il ritorno dopo 14 anni in Italia: come abbiamo visto in precedenza, dopo aver iniziato la stagione con la maglia di Torino, Delfino è poi sceso in Serie A2, riabbracciando la Fortitudo Bologna e contribuendo al ritorno in Serie A1 della “Effe” dopo 10 anni.

«Oggi siamo in una condizione diversa, con un ruolo diverso. Siamo più dei mentori» afferma. «Per noi, infatti, è il momento di passare le conoscenze. E il momento più bello, in questo senso, è stato a Rio, quando portavamo avanti la nostra maniera di giocare, di allenarci, la serietà nella vita d’atleta - ad esempio preoccupandoci tantissimo per la nostra dieta - che ci ha portato a diventare forti anche se prima di ogni campionato, di ogni torneo, non avevamo mai la squadra più forte né quella più alta. Era questo, quello che ci spingeva a diventare sempre migliori».

Ginobili esce dal campo, per l’ultima volta alle Olimpiadi, nel finale del quarto di finale perso contro gli Stati Uniti a Rio 2016.(Foto FIBA)

La fase finale della carriera per Delfino non è soltanto l’occasione di passare il testimone della propria conoscenza del gioco, ma anche quella di ricordare i momenti vissuti fuori dal campo, in gruppo e in compagnia: «Giocando sempre insieme, con tante esperienze vissute come gruppo, imparavamo dalle nostre reazioni e cercavamo sempre di migliorare anche fuori dal campo».

«Dopo ogni pranzo, ogni cena, o dopo i tre allenamenti al giorno di Magnano o gli allenamenti lunghi di Hernandez, eravamo soliti rimanere a parlare di basket per ore» ricorda Delfino. «Allungavamo i tavoli per discutere di come migliorare, di quello che faceva ciascuno di noi nella sua squadra di club e se questo potevamo inserirlo nel nostro gioco, per migliorare anche noi stessi. Questa esperienza, queste mille discussioni, ci hanno fatto diventare migliori anche fuori dal campo».

«Erano insegnamenti che ci facevano innamorare del basket ogni giorno di più. Due anni fa abbiamo fatto una vacanza assieme, con tutte le famiglie, i Ginobili, i Nocioni, i Prigioni e i Delfino. Era la prima volta da quando ci conoscevamo che ci sedevamo a mangiare senza parlare di basket, e le nostre mogli erano stupite: perché ogni nostro discorso tornava sempre lì».

Ad oggi, nella sezione “squadre” della Basketball Hall of Fame, sono incluse due sole formazioni “olimpiche”, entrambe relative agli Stati Uniti. Al Dream Team di Barcellona 1992 è stato poi aggiunto, tre anni dopo, quello di Roma 1960, considerato come la migliore squadra “amatoriale” mai vista ai Giochi Olimpici.

L’Argentina della Generacion Dorada non è la migliore, probabilmente nemmeno prendendo in considerazione quelle poche formazioni extra-USA capaci di aggiudicarsi la medaglia d’oro olimpica o comunque di vincere una medaglia. È difficile, però, affermare come non sia stata la più elettrizzante della sua generazione, capace di segnare uno spartiacque della storia del basket. Potrebbe bastare per un riconoscimento tanto importante? È difficile da dire. Ma dopo 15 anni dall’impresa più bella, il ricordo di quella squadra è ancora vivo e imperituro: e se non è questo un “Dream Team”, quale lo è?

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