Tra Cambridge Bay, nel Nunavut, e Toronto, in Ontario, ci sono 3.186 chilometri di distanza. Per spostarsi tra l'una e l'altra ci vogliono 16 ore d'aereo, e non si può improvvisare un avventuroso road trip perché non c'è nessuna strada che lambisca il famoso passaggio a nord-ovest e s'inoltri nel circolo polare artico. Con ogni probabilità nemmeno ci sarà mai, dato che a beneficiarne sarebbero soltanto i 38.000 abitanti di un territorio che, se finirà nelle notizie globali, sarà verosimilmente in qualità di prossima vittima del cambiamento climatico dopo la Groenlandia.
Toronto è una città cosmopolita, un ricettacolo di culture ed etnie differenti, una metropoli che guarda in faccia le città americane oltre il confine. “Più nuova del nuovo mondo” la definisce lo scrittore Douglas Anthony Cooper in Delirium. Cambridge Bay è uno degli ultimi avamposti della cultura e della lingua inuit, un popolo che fatica a tenere il passo della globalizzazione tra scarsità di lavoro, nessuna luce solare tra novembre e gennaio, un numero preoccupante di intossicazioni da inalanti e un tasso di suicidi che sarebbe il secondo al mondo, se solo il Nunavut fosse una nazione.
Cos'hanno in comune i due luoghi, allora? Appartengono entrambi al territorio del Canada. E poi sono entrambi un'eccellenza nella pallacanestro. Ciascuno a modo suo, ovviamente; d'altronde tutto è relativo, persino i punti cardinali. Il motto che ha trascinato i Raptors nelle ultime stagioni, “We The North”, fa sorridere quando lo ritroviamo stampato sul muro della palestra dove si allenano i Cambridge Bay Wolverines, o dipinto su un telone tenuto alto dai ragazzi del posto. Al 69esimo parallelo, all'interno del Circolo Polare Artico, loro sì che sono il nord. Eppure non se la prendono coi “meridionali” dell'Ontario per avergli usurpato il titolo, tutt'altro: perché il basket è un filo che unisce Toronto al Nunavut.
La televisione canadese lo sa, e durante le ultime Finals mandava in onda immagini in diretta dai pub stracolmi di tifosi della capitale Iqaluit. Lo sanno anche i telecronisti Matt Devlin e Jack Armstrong, che di tanto in tanto, in occasione di un canestro da tre punti di un Raptor, si lasciano andare a frasi come “Pascal Siakam, from Kugluktuk” che fanno esultare di gioia i supporter settentrionali. Non saranno famosi come Drake o coloriti come il singh Nav Bhatia, e soprattutto dovrebbero sobbarcarsi trasferte improbabili per essere presenti a bordo campo come loro ogni sera, ma gli appassionati di basket nell'estremo nord canadese ci sono e tifano Raptors. Per percepire un'unione d'intenti con una squadra e una città così distanti, non solo geograficamente, dev'esserci per forza lo zampino della passione per il gioco.
Mentre i Raptors scalavano i vertici della Eastern Conference sotto la lungimirante gestione di Masai Ujiri, i Cambridge Bay Wolverines si confermavano come la squadra più forte del Nunavut. C'è una cifra più significativa delle altre: la manifestazione sportiva più importante dell'estremo Nord America sono i Giochi Artici, rassegna multidisciplinare che si tiene ogni due anni, e nelle ultime edizioni dell'evento più della metà dei giocatori di basket proveniva dall'area di Cambridge Bay.
La squadra dei Wolverines ha una composizione singolare: il nucleo è rappresentato dagli studenti della Killinik High School, ma a questo si aggiungono ragazze (come Linda Howard, leader dell'altrettanto forte team femminile) e adulti locali. Alcuni di loro hanno imparato a giocare in tarda età grazie all'impegno dell'amministrazione locale. Non è impresa facile trovare un playground all'aperto nel Nunavut, ma Cambridge Bay ha promosso la pratica sportiva aprendo letteralmente le palestre ai cittadini con iniziative gratuite, e il basket si è subito messo in coda all'hockey in termini di popolarità. I frutti si vedono anche nell'Arctic Shootout, campionato dedicato esclusivamente al basket, dove “The Bay” è campione in carica.
La storia del Nunavut e di Cambridge Bay racconta molto sulla maturazione dell'identità cestistica in Canada, un movimento lento ma costante, che sarebbe errato ricondurre ai “15 minuti di gloria” legati all'odierna parentesi vincente dei Toronto Raptors. C'è una nazionale che ha vinto medaglie d'oro nei campionati giovanili e sta scalando il ranking del settore senior, presentandosi ai mondiali di Cina 2019 come uno dei team più interessanti da seguire al netto dei grandi nomi che mancheranno all'appello. C'è un paese che, in termini individuali, negli ultimi sette anni ha prodotto due prime scelte al Draft NBA. E pensare che fino al 1995 il Canada non era nemmeno sulla mappa della lega – o almeno, così potrebbe sembrare a un primo sguardo.
L’alba dei Raptors e “The Carter Effect”
Tra 2016 e 2017 i Toronto Raptors hanno sfoggiato per qualche partita casalinga una casacca bianca e blu con la scritta “Huskies”. Un rimando alla franchigia che gareggiò per un'unica annata, la 1946/47, quella inaugurale della BAA che da lì a poco avrebbe cambiato nome in NBA. Secondo gli annali, quindi, il Canada fa parte della lega sportiva professionistica più famosa al mondo fin dalla sua nascita; è solo che si è preso una pausa di 50 anni, terminata nel 1995 con l'espansione del campionato ai Toronto Raptors e ai Vancouver Grizzlies.
I primi tempi non sono stati ricchi di soddisfazioni, ma ci hanno regalato nomi memorabili. Toronto schierava Damon Stoudamire, settima scelta al Draft del 1995, all'epoca una delle point guard più spettacolari della lega. Vancouver sfoggiava un'altra squadra da amarcord col giovanissimo Mike Bibby, Shareef Abdur-Rahim, una comparsata di Mahmoud Abdul-Rauf e il massiccio Bryant Reeves. La canotta turchese col logo del grizzly ruggente aveva un accostamento cromatico riuscitissimo, tale da inciderla ancora più a fondo nella memoria degli appassionati: oggi che siamo in pieno revival degli anni '90 gli eredi di quella franchigia, i Memphis Grizzlies, hanno avuto l'ottima idea di riproporla come alternate jersey. Sì, perché a Vancouver il basket ha vita breve: nel 2001 la proprietà fu costretta a vendere per lo scarso successo di pubblico, che era molto più affezionato ai Canucks della NHL, e per problemi economici connessi al lockout del 1998.
Toronto superò con più pazienza i poco esaltanti esordi, anche perché con la quinta scelta del Draft 1998 arrivò Vince Carter. Nei primi anni Vincredible era quanto di più simile a un human highlight reel si fosse mai visto su un campo da basket dopo Dominque Wilkins, e la divisa dei Raptors rimase impressa nella storia insieme agli iconici gesti atletici e tecnici di Carter. L'intero Slam Dunk Contest 2000, per dirne uno, con le mani che fanno il gesto “it's all over” alla telecamera, è uno dei gesti momenti più iconici della storia recente della NBA. Ma il basket di Vince Carter non era solo spettacolo. Esperti e appassionati lo mettevano in prima fila tra gli eredi di Michael Jordan (sarà proprio Carter, portando il muso per tutta la sera, a cedergli il posto in quintetto per l'ultimo All Star Game di His Airness nel 2003), e Toronto raggiunse le semifinali di Conference nel 2001, dove andò in scena un altro instant classic: la serie di sette partite contro i Philadelphia 76ers di Allen Iverson.
Il basket di Toronto si identificò talmente tanto in Carter da trasmettergli come soprannome lo sponsor stesso dell'arena, Air Canada. Questo almeno fino al 2004, anno che segnò la fine del ciclo e l'inizio delle peregrinazioni, tutt'ora in corso, di Vince Carter.
Fino a questo punto, nonostante l'entusiasmo della città per i Raptors, l'impressione era che la franchigia fosse slegata dal resto del paese. Del resto, la rosa della squadra era composta in vasta maggioranza da giocatori americani – una differenza, quella tra Canada e Stati Uniti, che da marginale si faceva più importante man mano che ci si allontanava dal confine. Mancava una stella canadese in cui immedesimarsi e a cui ispirarsi: se si considera che nella NHL il 45% dei giocatori è canadese (con una popolazione di 37 milioni a fronte dei 327 degli Stati Uniti) si comprende come mai l'hockey sia lo sport più popolare in patria.
È in quel contesto che arrivò Steve Nash, già sulla mappa della NBA fin dal suo esordio con Dallas ma salito alla ribalta negli anni d'oro dei Phoenix Suns di Mike D'Antoni, due titoli di MVP consecutivi tra 2005 e 2006 e tante corse – talvolta sfortunate – ai playoff. C'è abbastanza materiale per consegnarlo alla leggenda: Steve Nash è nato in Sudafrica da genitori inglesi e ha vissuto in Canada solo dai 2 ai 18 anni, eppure nel 2000 divenne una leggenda nazionale quando trascinò i suoi alla vittoria contro la Jugoslavia alle Olimpiadi di Sydney, con una partita commovente per abnegazione: guidò il tabellino in punti, assist, minuti giocati, tiri liberi, tiri da tre punti e rimbalzi. Oggi, dopo il ritiro, è tra gli ambasciatori più attivi del basket canadese: forse proprio perché due delle cifre distintive della canadesità sono proprio l'interculturalità e l'internazionalità.
Sembra un paradosso a prima vista, ma quando i tuoi confini nazionali tendono all'estremo nord e si frammentano nei mari artici, inizi probabilmente a pensare che le barriere non abbiano poi tutta questa importanza. Anche i Raptors, non a caso, giocarono la carta dell'internazionalità per dare un volto al nuovo corso della franchigia. Nell'arrivo di Andrea Bargnani come prima scelta assoluta al Draft 2006 ci sono ampie tracce di questa politica: del resto la strada gliel'aveva aperta Maurizio Gherardini assunto come vicepresidente l'anno prima. Seguirono a stretto giro i vari José Manuel Calderon, Jorge Garbajosa, Anthony Parker, Marco Belinelli e infine la scelta di Masai Ujiri come General Manager. L'impronta internazionale è visibile ancora oggi, e anzi potremmo interpretare l'anello dei Raptors 2019 come il coronamento di una manovra di apertura lunga più di dieci anni, con Pascal Siakam, Marc Gasol e Serge Ibaka a interpretare ruoli di primo piano nel roster dei campioni.
Started from the bottom now we here
Come dicevamo, lo sport numero uno tra i canadesi è l'hockey su ghiaccio, per motivi ambientali e culturali: Toronto Maple Leafs e Montréal Canadiens sono tra le franchigie più decorate della NHL, ma ci sono realtà di successo anche a Edmonton, Calgary, Ottawa, Vancouver e Winnipeg. Nel paese oltre un milione di adulti pratica lo sport attivamente.
Dal 2010, però, il basket è salito di giri in tutto il Canada. Il movimento ha uno sviluppo più coeso rispetto al passato: non c'è un vero e proprio erede di Nash, anche perché è difficile imitare lo stile di un giocatore così particolare, né un nuovo effetto Carter. Il fenomeno tuttavia è evidente, dal colpo d'occhio del Jurassic Park di Toronto (la piazza antistante l'arena dove si raduna chi non ha il biglietto per la partita) alle statistiche demografiche, tanto che già nel 2014 Tim Leiweke, amministratore delegato della Maple Leaf Sports and Entertainment, parlando alla Ryierson University, ipotizzava che nel giro di dieci anni i Raptors sarebbero diventati più popolari dei Maple Leaf.
Secondo lo Youth Sports Report il basket era già all'epoca il terzo sport più praticato tra i ragazzi canadesi (354.000 praticanti, mentre appena tre anni prima si piazzava sesto) dietro hockey e calcio, ma la posizione in classifica aumenta se analizziamo le ragazze e i cosiddetti “New Canadians”, gli immigrati e i figli di immigrati, che trovano nel basket uno sport di più facile accesso. Nella sola Toronto, i New Canadians rappresentano metà della popolazione, e la tendenza è in crescita – così come quella che vede sempre più attenzioni rivolte allo sport femminile, come evidenziato dagli ultimi mondiali di calcio.
È per questo che, secondo Tim Leiweke, ci sono gli estremi per parlare di un vero e proprio cambio di paradigma: demografico, culturale e sportivo allo stesso tempo. Secondo i dati registrati da Statistics Canada nel 2016, oltre il 22% della popolazione si riconosce in una “minoranza visibile” e oltre il 20% è di provenienza estera. Cifre che potrebbero avvicinarsi al 50% entro il 2036, e che ben si abbinano al contesto demografico della NBA, in cui circa il 60% dei fan ha meno di 35 anni e circa il 45% appartiene a minoranze etniche. Il contrasto con la NHL, dove il 64% dei fan ha più di 35 anni e oltre il 90% è bianco, è netto. Uniamoci il fatto che il Canada non vede la Stanley Cup in parata da 26 anni e comprendiamo come mai, secondo un sondaggio, il 45% dei giovani canadesi preferirebbe seguire in diretta televisiva le Finals NBA rispetto a quelle NHL (39%).
Cinque anni dopo, le statistiche confermano la previsione e il cambiamento è diventato sensibile non soltanto tra i ghiacci di Cambridge Bay, ma anche sul più alto livello del basket mondiale. Nell'ultima stagione NBA c'erano 13 giocatori canadesi sotto contratto, mentre 24 hanno partecipato alla March Madness nella NCAA. Tra 2013 e 2014 due prime scelte al Draft sono state canadesi; se sulla prima, Anthony Bennett, possiamo sorvolare, Andrew Wiggins rimane pur sempre un realizzatore da 20 punti a partita con una qualificazione ai playoff all'attivo, nonostante non abbia soddisfatto le aspettative che lo accompagnavano all'esordio.
Probabilmente non sarà lui il nuovo Steve Nash: Jamal Murray pare avere possibilità migliori dopo l'ultima esaltante stagione dei Denver Nuggets, ma il vero oggetto del desiderio, per i fan canadesi, è R.J. Barrett. Era la prima scelta unanime del Draft 2019 prima dell'avvento di Zion Williamson, e ora è l'uomo della provvidenza per i New York Knicks che, a dispetto delle ultime, disastrose stagioni e di un anello che manca dal 1973, restano uno dei marchi sportivi più riconoscibili al mondo (nonché la quinta squadra sportiva per valore economico, secondo Forbes).
Non c'è palcoscenico migliore per far sì che il basket canadese diventi pop. Una grossa mano, negli ultimi tempi, l'ha data Drake associandosi anima e corpo ai Toronto Raptors. Sulle prime c'erano dei sospetti su quanto l'endorsement giovasse all'immagine pubblica dell'artista, con mezzo mondo sportivo che rideva per la Drake Curse (la consuetudine, supportata da consistenti prove, che la squadra tifata da Drake fosse condannata alla sconfitta) e per le sue reazioni a bordo campo, troppo esuberanti per la scena canadese. Sono in molti a ritenere che Drake abbia passato il limite quando, durante la serie contro Milwaukee nelle ultime Eastern Conference Finals, si è avvicinato a coach Nick Nurse massaggiandogli le spalle come se fosse un membro dello staff, o quando, durante le Finals, si è confrontato faccia a faccia con Steph Curry e Draymond Green. Ma la stampa locale è concorde con gli analisti più liberali nel lasciare a Drake un certo margine di lavoro, per motivi di merito: in termini di visibilità per il basket canadese, pochi hanno fatto più di lui. E adesso che i Raptors hanno vinto e la Drake Curse si è spezzata, entrambi hanno consolidato il loro posto tra i simboli della città e del paese.
Sogni olimpici
Se i Raptors hanno assunto il ruolo di catalizzatore per l'intero paese - le vendite del merchandising NBA in Canada sono aumentate del 26% in un anno e il valore della franchigia è quadruplicato dal 2003 -, è chiaro che la rappresentativa nazionale potrebbe svolgere il compito con una marcia in più. È vero che dal 2008 a questa parte le competizioni mondiali FIBA e le Olimpiadi sono state dominate da Team USA, ma un roster al completo composto da R.J. Barrett, Andrew Wiggins, Tristan Thompson, Jamal Murray, Shai Gilgeous-Alexander, Dwight Powell, Kelly Olynyk, Brandon Clarke, Dillon Brooks, Trey Lyles, Nickeil Alexander-Walker e Nik Stauskas potrebbe dare dei grattacapi un po' a tutti a livello FIBA.
Il problema è che nessun membro di quel roster ipotetico ha partecipato ai prossimi Mondiali di Cina 2019 in seguito a una pletora di rinunce, in buona parte dovute alla priorità date alla stagione NBA, in maniera simile a quanto accaduto alla selezione americana. Coach Nick Nurse – la sua nomina è una conferma del legame tra i Raptors e l'intero movimento cestistico canadese – ha dovuto accontentarsi di Chris Boucher, Khem Birch e Cory Joseph col supporto degli “internazionali” Kevin Pangos, Brady Heslip e Kyle Wiltjer. Una rosa vessata dalle rinunce che non è riuscita a competere contro le ben più attrezzate Australia e Lituania, chiudendo al 21° posto e strappando un biglietto per la prova del nove ai tornei pre-olimpici per Tokyo 2020, un appuntamento che dovrebbe richiamare anche le stelle come Barrett e Murray.
L'obiettivo è quello di istituire anche tra i senior quel dualismo tra Canada e Stati Uniti che si è imposto nella categoria U19 quando, nell'edizione 2017 dei Mondiali, il Canada colse tutti di sorpresa superando Team USA in semifinale e poi l'altra rivelazione del torneo, l'Italia, per la medaglia d'oro. RJ Barrett deve gran parte dell'attenzione che si è creata nei suoi confronti a quel torneo, dove tenne una media di 21 punti, 8 rimbalzi e 4 assist, dominando la sfida con gli Stati Uniti con 38 punti. Una sconfitta cocente per gli statunitensi, tant'è vero che per l'edizione 2019, svoltasi a giugno in Grecia, hanno messo in piedi la versione U19 del Redeem Team, quello che si riprese l'oro olimpico nel 2008 dopo le precedenti delusioni, e hanno concluso al primo posto mentre il Canada si è arreso ai quarti.
Sulle spalle di Murray e Barrett pesano le responsabilità di una nazione che non ha paura di sognare in grande: del resto la passione dei canadesi per il basket è ancora fresca e genuina, di quelle che raramente generano scorie tossiche. Nella migliore delle ipotesi, sarà Barrett il volto che il basket canadese va cercando da Vince Carter, che lo era di riflesso, e di Steve Nash. Ma se anche così non fosse, o se i Raptors privi di Kawhi Leonard non sapranno ripetere i fasti della stagione appena conclusa, la popolarità del basket in Canada viaggia ormai su un piano inclinato e continuerà nell'attuale direzione, dall'Ontario al Nunavut passando per Québec, British Columbia e Territori del Nord-Ovest. Finché, magari, un giorno troveremo nei roster NBA un giocatore della comunità inuit di Cambridge Bay, nel Nunavut.