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Sì, il tiro da tre ha cambiato la pallacanestro
10 feb 2020
Un ragionamento su come è cambiato il basket a partire dalla grafica di Kirk Goldsberry.
(articolo)
9 min
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Chissà cosa deve essere passato nella testa di Kirk Goldsberry quando qualche settimana fa questo suo tweet è stato ripreso più di 9.000 volte e ha ricevuto la bellezza di oltre 35.000 Mi Piace.

https://twitter.com/kirkgoldsberry/status/1217109175894831105

Per chi conosce il suo lavoro, non si tratta di niente di nuovo: da anni ormai Goldsberry — prima a Grantland, ora a ESPN e nel mezzo per qualche stagione come analista statistico ai San Antonio Spurs — utilizza le mappe di tiro per illustrare in maniera molto semplice e chiara come sta evolvendo il gioco. In queste due mappe si mettono a confronto le prime 200 zone di campo da cui si è tirato di più nella stagione 2001-02 e in quella attualmente in corso: la pulizia della seconda fa sembrare che sia passata Marie Kondo a dare una sistemata al casino che si faceva nei primi anni 2000, lasciando la zona che va dal pitturato alla linea dei tre punti completamente svuotata.

La differenza è lampante: su ampi volumi il tiro dalla media distanza è stato ignorato in favore di una migrazione verso la linea dei tre punti, in particolare facendo sparire del tutto la conclusione dalla linea di fondo (il celebre “baseline jumper” che i lunghi dovevano avere in faretra già negli anni ’90) in favore delle triple dagli angoli, così come i tiri dai gomiti dell’area (quelli resi famosi in particolare da Michael Jordan e i suoi Chicago Bulls) sono spariti in favore delle triple frontali, zona di campo quasi inesplorata a quel tempo.

Questa grafica, per la verità, non è neanche inedita: si trova infatti a pagina 12 del libro che Goldsberry ha pubblicato lo scorso anno, Sprawlball — A Visual Tour of the New Era of the NBA, in cui si analizza proprio l’evoluzione del gioco e di come il tiro da tre lo abbia inesorabilmente cambiato dalla sua introduzione, e in particolare da quando i concetti di statistiche avanzate si sono fatti sempre più presenti. Il tutto attraverso una serie non solo di parole (invero non straordinarie, visto che la penna non è raffinatissima), ma soprattutto di grafici e illustrazioni che rendono ancora più evidente quello che i nostri occhi hanno già imparato a riconoscere vedendo le partite di oggi.

Per chi legge di NBA avidamente, i concetti non sono per niente nuovi: certo che il tiro dalla media distanza è scomparso, sono almeno cinque anni che ce lo diciamo; chiaro che non si va più in post basso, anche Rick Carlisle ormai lo considera non efficiente per un lungo di 2.20 come Kristaps Porzingis. Ma per chi la segue solo saltuariamente oppure la seguiva tanto in passato e ora non più, la grafica ha un certo effetto: come si è arrivati fino a questo punto?

La base economica delle selezioni di tiro

Goldsberry scrive nel suo libro che è semplice economia di base: “I punti rimangono la moneta definitiva della pallacanestro e le squadre che investono tanto nei tiri in sospensione da due punti non ottengono un buon ritorno da quell’investimento. Ha molto più senso investire in tiri da oltre sette metri piuttosto che in quelli da meno di tre”. Un tiro nella media preso tra gli 2,5 metri e la linea da tre punti produce infatti 0.80 punti, mentre uno medio preso coi piedi dietro l’arco ne produce 1.1. Questo significa che sia il miglior tiro in assoluto? No, e neanche il secondo: i maggiori “ritorni” li danno infatti i tiri al ferro (1.4) e i tiri liberi (1.5 su due tiri tentati), ma proprio perché sono così preziosi le difese cercano di toglierli il più possibile intasando l’area e cercando di forzare il più possibile il tiro in sospensione da due punti.

L’aumento esponenziale del tiro da tre a discapito del tiro dalla media distanza va letto anche in correlazione all’aumento delle dimensioni dei giocatori in campo, che sono sempre più grandi, più rapidi e più atletici: per un difensore NBA moderno è facile occupare contemporaneamente un corridoio di penetrazione verso l’area e contestare un tiro dalla media distanza; più difficile è farlo se deve correre fino alla linea dei tre punti, per di più facendo attenzione a non commettere fallo sul tiratore sullo slancio (un’area nella quale la NBA deve ancora crescere nell’arbitraggio). Spaziare il campo coi tiratori è il modo che gli allenatori hanno trovato negli ultimi anni per aprire difese sempre più attente e mobili, liberando spazio per i propri giocatori di maggiori talento alla ricerca di quei tiri dal ritorno migliore: la scelta è di sopravvivenza tattica, oltre che “finanziaria”.

Dove e quando il tiro dalla media distanza ha ancora senso

Questo significa che ogni tiro dalla media distanza sia sbagliato? Non in termini assoluti: Chris Paul sta vivendo una stagione semplicemente magnifica e sta tirando tantissimo dalla media distanza (oltre il 43% dei suoi tiri), dopo due anni in cui a Houston si era limitato a quasi 10 punti percentuali in meno per seguire i dettami del Moreyball. In particolare è il miglior giocatore in assoluto di tutta la NBA nei finali di partita, nei quali realizza quasi il 30% dei suoi punti proprio dalla media distanza — una sentenza assoluta quando riesce a raggiungere il suo “sweet spot” al gomito e a far partire il tiro.

Se gli Oklahoma City Thunder sono sorprendentemente una squadra da playoff è anche per la sua prolificità dalla media distanza.

Il tiro dalla media è ancora un’arma utilissima nei finali di gara e nei playoff, quando le difese avversarie ti conoscono talmente bene da concederti solo ciò che non vorresti prenderti. Ma è proprio avendo la massima completezza possibile nel proprio arsenale che si può fare fronte a ogni scelta avversaria. Nei playoff dello scorso anno Kawhi Leonard si è preso oltre il 30% dei suoi tiri dalla media distanza, e pur non facendo affidamento solo su quello (e controbilanciandolo con una dose praticamente pari di tiro da tre, pari al 29.2% dei suoi tiri), ha avuto enorme successo anche senza una selezione di tiro certosina. Lo stesso James Harden, per diventare ancora più immarcabile, ha dovuto aggiungere in faretra il floater a centro-area, un tiro dall’efficienza inferiore rispetto alle triple o a quelli al ferro, ma che gli serve per tenere sempre “oneste” le difese avversarie e non avere punti deboli offensivi, come gli Spurs avevano evidenziato nei playoff del 2017.

Detto questo, le statistiche avanzate ci dicono che — specialmente in regular season e su campioni ampi — prendersi tanti tiri dalla media distanza è controproducente sul lungo periodo, in particolare per i giocatori di minor talento offensivo, e che le squadre che ne fanno grande uso devono mantenere alte percentuali di realizzazione per giustificare una scelta del genere e renderla sostenibile.

Chi tira tanto dalla media, insomma, ha un percorso più tortuoso per avere un attacco efficiente, anche se non è impossibile: i San Antonio Spurs di questa stagione tirano oltre il 40% dei loro tiri dalla media distanza, ma hanno comunque abbastanza talento nei giocatori che tengono alto volume su quelle conclusioni per essere in top-10 degli attacchi NBA (il problema degli ultimi anni, semmai, è difensivo); Golden State li segue a ruota, ma il loro talento è di gran lunga inferiore e non a caso hanno il peggior attacco della lega sia a livello di punti segnati su 100 possessi che di percentuali realizzative effettive.

Come le difese si stanno evolvendo contro il tiro da tre

C’è anche chi, però, difensivamente sta cominciando a sfruttare l’esplosione del tiro da tre punti contro i propri avversari. I Milwaukee Bucks di Mike Budenholzer in questo sono semplicemente diabolici nella loro astuzia: pur di proteggere l’area (così da togliere i tiri al ferro, commettere meno falli e controllare i rimbalzi difensivi), concedono deliberatamente agli avversari di tirare da tre punti, che sarebbe controintuitivo rispetto a quello che ci siamo detti. La cosa interessante — e che sta già venendo imitata da altri, anche con l’uso sempre più frequente della zona — è che lo fanno in maniera specifica, scegliendo scientificamente quali avversari lasciare liberi e quali no, sfidando al tiro chi ritengono non essere un tiratore pericoloso a dispetto delle percentuali di tiro.

Embiid sa tirare da tre, ma non è quello che vuole fare né quello in cui è davvero bravo: Milwaukee fin dallo scorso anno lo invita a prendersi tutti i tiri che vuole dall’arco. Sarà interessante vedere se succederà anche in una eventuale serie di playoff.

Non è che costringono DeAndre Jordan e Andre Drummond a tirare da tre (grazie, quello lo vorrebbero fare tutti), ma di fatto se non sei un tiratore da 40% da tre punti e oltre hai via libera per tirare quante vuoi, specialmente se non sei abituato a mantenere alti volumi. Come scrive Zach Lowe: “I Bucks trattano ogni tiratore mediocre come fosse Ben Simmons, facendo passare i propri difensori ampiamente sotto i blocchi in modo da formare un guscio a protezione dell’area difficile da scalfire. E non deviano dal loro programma se un Kris Dunn comincia a segnare un paio di long 2s. I Bucks capiscono la matematica e sanno che il loro schema difensivo gioca con la psiche degli avversari, anche quelli discreti a tirare. ‘Mi stanno lasciando chilometri di spazio. È imbarazzante. Davvero devo continuare a tirare?’. Boom: il cronometro è a 8 secondi e non hai costruito nulla”.

Quindi, come per ogni valutazione, la cosa importante è l’equilibrio: tutti i tiri da tre punti sono buoni e tutti i tiri dalla media distanza sono sbagliati? Ovviamente no, lo abbiamo visto. Quello che dice Goldsberry all’inizio del suo libro è che i primi sono decisamente più efficienti dei secondi, specie su campioni molto ampi — e per questo le squadre si stanno adattando le proprie strategie offensive per costruirli sempre di più sulle 82 partite della regular season. Inoltre, tirare da tre e costringere le difese ad aprirsi permette di raggiungere più facilmente gli altri due tiri ancora più efficienti, quelli al ferro e i liberi, che sono più difficili da raggiungere tirando tanto dalla media distanza, una conclusione che non “muove” le difese avversarie e dà anche meno chance di rimbalzo offensivo.

Rimarrà sempre così e la NBA è destinata a tirare sempre di più da tre punti? Non è detto, anche se finora il trend sta dicendo questo: dal 2012 a oggi la percentuale delle triple tentate sul totale è passato dal 22.6% al quasi 38% di questa stagione, incrementando di anno in anno (i tentativi al ferro, per quello che vale, sono rimasti pressoché stabili: di schiacciate ne vedremo ancora per un po’). Può darsi che in futuro la situazione diventi sempre più estrema, che oltre un tiro su due venga preso coi piedi dietro l’arco e sempre da più lontano (a proposito: le triple da oltre otto metri sono aumentate del 275% dal 2016 a oggi), portando la lega a fare un ragionamento su come vuole che sia l’estetica del suo gioco per gli anni a venire? Fino ad ora l’impressione è che ad Adam Silver il gioco piaccia così come è, ma lo stesso Goldsberry dedica un intero capitolo finale a delle proposte su come cambiare il gioco a fronte dell’aumento esponenziale delle triple, ad esempio eliminando le triple dagli angoli o cambiando la forma stessa dell’area dei 3 secondi difensivi.

L’unica cosa da tenere a mente è che nessuno sport di alto livello rimane uguale a se stesso, e che le squadre cercheranno sempre un modo per vincere prima ancora che per appagare loro stesse o i loro tifosi a livello estetico. Gli allenatori NBA non hanno deciso di tirare di più da tre per partito preso, ma perché ritengono che dia loro chance migliori per vincere. Se il tiro dalla media distanza iniziasse a valere 4 punti, tornerebbero a sviluppare i loro attacchi per cercare quei tiri piuttosto che gli altri: alla fine dei conti, nello sport professionistico quello che interessa è vincere.

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