Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La storia più incredibile dei Mondiali di basket
04 set 2023
La qualificazione del Sud Sudan alle Olimpiadi dalle parole dei protagonisti.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / Xinhua
(copertina) IMAGO / Xinhua
Dark mode
(ON)

6 agosto 2012. Quando Luol Deng stava concludendo, con un netto successo della Gran Bretagna sulla Cina, la sua prima esperienza in una Olimpiade, non poteva probabilmente immaginare quanto accadrà a partire dal 27 luglio del prossimo anno. Al tempo di quel pomeriggio londinese, Deng non avrebbe potuto neanche sognare che dodici anni dopo avrebbe avuto la possibilità di tornare ai Giochi Olimpici in una veste completamente diversa.

Londra 2012 aveva come motto “Inspire a Generation”, ispirare una generazione. Londra è stata anche l’ultima Olimpiade a non vedere la partecipazione di atleti del Sud Sudan. Ottenuta l’indipendenza il 9 luglio del 2011, il riconoscimento da parte del CIO è arrivato soltanto nel 2015 a causa della guerra civile. A rappresentare il paese, tra Rio de Janeiro e Tokyo, erano stati soltanto alcuni corridori nell’atletica (tre in Brasile, due in Giappone) grazie a quote “universality” - istituite per garantire la massima rappresentatività possibile - ma l’affiliazione al comitato olimpico prevedeva la possibilità di avere atleti sud sudanesi anche in calcio, pallamano, judo, tennis tavolo, taekwondo e pallacanestro.

A livello FIBA il riconoscimento per la federazione è arrivato nel 2013, ma per vedere la Nazionale scendere in campo in una competizione ufficiale (le qualificazioni ad AfroBasket) si è dovuto attendere fino al 2017 e una campagna nella cosiddetta Zona 5 - per riferimento geografico - fatta di due ininfluenti vittorie sul Kenya, viste le sconfitte con Egitto e Rwanda. Questa storia, che vive una sorta di prologo nell’estate 2012, ha in realtà un primo punto di partenza il 25 novembre 2019. Il giorno in cui, poco dopo essersi ritirato da giocatore dopo 15 stagioni in NBA, Luol Ajou Deng viene eletto presidente della federazione basket del Sud Sudan. In quattro anni, l’ex ala della Nazionale britannica a Londra 2012 e di squadre come Chicago Bulls e Los Angeles Lakers è riuscito nello sviluppare un progetto cestistico che ha reso il Sud Sudan la rappresentante africana all’Olimpiade di Parigi 2024. Una storia, e un’ascesa, che non ha precedenti nella storia del basket e che ha vissuto il suo punto massimo di sublimazione nel corso del Mondiale 2023 in corso a Manila.

In questa clip del CIO, Luol Deng ricorda l’esperienza a Londra 2012 con la Gran Bretagna.

«Quando sono diventato presidente della Federazione ho detto a tutti che il primo obiettivo era passare il girone di Zona 5», ha detto Deng incontrando i giornalisti di tutto il mondo dopo la vittoria sud sudanese sull’Angola che ha certificato il pass olimpico come squadra africana meglio piazzata, approfittando anche del KO dell’Egitto. «Passare quel girone, poi qualificarsi ad AfroBasket, al Mondiale e alle Olimpiadi. È qualcosa che sapevo sarebbe stato possibile raggiungere solo con tanto lavoro. Sapere che potevamo raggiungere questo traguardo rende tutto davvero più bello».

Gli inizi, tra i camp di Deng e i campi sul cemento

La visione dell’ex settima scelta assoluta del Draft 2004 antecede l’indipendenza del Paese che non ha mai potuto abbracciare del tutto una volta crescendo d’età, dato anche l’asilo politico ottenuto dalla sua famiglia in Gran Bretagna: «Ho organizzato camp estivi di pallacanestro sin dal mio arrivo in NBA», dice Deng. «Australia, Stati Uniti, in tutta l’Africa: non ho mai saltato un’estate. E in tanti di questi camp c’erano bambini di origini sud sudanese. Sapevo, prima di ritirarmi, che c’erano tanti giocatori di talento, anche se poi hanno giocato per altre Nazionali».

«Ho fatto di tutto per sviluppare questo programma, anche se non ho mai potuto giocare per il Sud Sudan. Una volta ritirato, è stato più facile organizzare tutto questo», continua. «Tanti dei giocatori che ci hanno rappresentato durante le finestre FIBA hanno giocato nei miei camp. Ho coinvolto le comunità anche perché ho potuto lavorare con persone che conoscevo e di cui mi fidavo. Credo che sia importante lavorare con persone appassionate, che credono nello stesso obiettivo. E tutti ci credevano davvero, oltre a sapere perché lo stavamo facendo. Così abbiamo anche imparato a comprenderci di più».

Una di queste persone a cui Deng si riferisce è coach Royal Ivey. Scelto per guidare la squadra in occasione di AfroBasket 2021, il rapporto tra i due è molto profondo e risale ai tempi di Blair Academy: Ivey era un senior a livello liceale nell’anno dell’arrivo di Deng negli Stati Uniti. «Quando sono arrivato lì, non avevo scarpe da basket», ricorda l’ex All-Star. «Lui fu il primo a darmi le sue. Siamo diventati amici, e ogni festività in cui non potevo permettermi di tornare a casa la trascorrevo con la sua famiglia. Lui c’è sempre stato per me, come coach Mantegna», dice Deng riferendosi all’allora coach di Blair Academy, oggi parte dello staff sud sudanese.

«Sapevo che con loro due a bordo non avremmo dovuto preoccuparci di nulla di diverso dal dare il nostro meglio. Royal è un allenatore straordinario per personalità e competenza cestistica, riesce a tirare fuori il meglio da tutti. Non gliel’ho dovuto chiedere due volte. Quando puoi contare su qualcuno che sa che parliamo di qualcosa di più del basket, è davvero più facile seguire il suo esempio in campo. Ha creato il sistema perfetto per questa squadra, quello attorno al quale continueremo a costruire».

Tutta l’emozione di Royal Ivey dopo la qualificazione a Parigi 2024.

«Un anno fa ci allenavamo all’aperto, su campi allagati con le aquile che volavano sopra di noi», ricorda Ivey. «Arrivare da lì a un palcoscenico come il Mondiale mi fa sentire al settimo cielo. Questi ragazzi hanno lavorato, perseverato e ascoltato. Hanno fatto tutto quello che ho chiesto loro e adesso godiamo dei benefici di tutto ciò. Continueremo a migliorare».

«Fa tutto parte della visione di Luol Deng, io sono solo un ingranaggio della macchina», continua l’ex 37esima scelta assoluta, 492 partite in NBA tra Hawks, Bucks, 76ers e Thunder. «Sono onorato per l’opportunità di allenare e ispirare questi ragazzi, che si nutrono di energia vitale. È un’esperienza straordinaria in cui sono cresciuto come allenatore e come uomo. Ho avuto emicranie, tanti momenti difficili, ma vedere questi ragazzi che continuano a crescere come squadra ripaga di tutto e mi permette di non dare nulla per scontato».

Uno dei punti di riferimento delle “Bright Stars” è senza dubbio Nuni Omot. Nato in un campo profughi in Kenya e immigrato negli Stati Uniti da bambino grazie a un’organizzazione luterana, i suoi 26 punti contro il Senegal lo scorso 25 febbraio hanno permesso al Sud Sudan di sigillare il pass Mondiale. «È una delle migliori storie di sempre», ci dice. «Nel nostro Paese non c’è un singolo campo da basket al coperto, con canestri di altezze diverse e non regolamentari. Ma abbiamo il talento, i giocatori e Luol Deng».

«È un traguardo unico perché va oltre il basket», prosegue Deng. «Vogliamo essere visti, ascoltati. Vogliamo che la gente conosca la nostra storia, che c’è un giovane Paese che va nella direzione giusta. Vogliamo essere conosciuti come esempio positivo. So che molte persone nel mondo stanno scoprendo adesso l’esistenza del Sud Sudan, e quando arriveremo a Parigi potremo sventolare la nostra bandiera. Atleti sud sudanesi hanno rappresentato altri paesi o il team rifugiati. Questa è la nostra presentazione al mondo».

Le cinque partite mondiali

Dopo la giornata inaugurale della Philippine Arena, il 26 agosto è toccato a Sud Sudan e Portorico aprire il programma della storica Araneta Coliseum, la casa dell’incontro tra Mohammed All e Joe Frazier oltre che del Mondiale del 1978. Quando, con 6 minuti e 18 secondi sul cronometro del terzo quarto, l’assist di Carlik Jones aveva portato alla tripla di Nuni Omot, i circa tremila spettatori presenti avevano la sensazione di trovarsi a un passo dalla storia.

Toccato il +9 all’intervallo lungo, il canestro di Omot valeva il +12 (60-48) per il Sud Sudan e l’inerzia totalmente dalla parte della squadra di Ivey contro una squadra reduce da un difficile avvicinamento al Mondiale, con le nette sconfitte in amichevole contro USA, Serbia e Italia. Quel massimo vantaggio si è rivelato essere però una grande illusione: toccato anche il +7 a metà quarto periodo, il Sud Sudan ha poi subito la rimonta di Portorico con i caraibici che hanno poi conquistato il successo al supplementare.

Un finale di gara assolutamente incredibile.

«Non sono riuscito a dormire dopo quella partita, era la nostra occasione», ricorda Omot. «Dio ci ha dato un altro percorso per raggiungere la nostra destinazione. Non siamo riusciti a qualificarci per la seconda fase del Mondiale, ma abbiamo raggiunto un traguardo incredibile. Il futuro è roseo davanti a noi e la gente dovrà stare attenta perché c’è tanto talento che arriva dal Sud Sudan».

Un primo assaggio lo si è avuto, dopo la beffarda sconfitta contro i portoricani, in occasione del match successivo: la vittoria contro la Cina, la prima per le “Bright Stars” al Mondiale. Una partita in cui la squadra di Ivey non ha lasciato scampo a un’avversaria sicuramente inferiore per talento e fisicità - ma superiore in esperienza - come quella allenata da Sasha Djordjevic. Segnali incoraggianti li si sono poi avuti anche in occasione della partita successiva, quella contro la Serbia.

40 minuti che valevano anche il primo posto nel Gruppo B, e decisamente ben condotti in avvio (con la partita in equilibrio per 16’) dai sud sudanesi, piegati poi dal pomeriggio di grazia al tiro da 3 di Bogdan Bogdanovic (6/9) e Nikola Jovic (5/5). La prova di maturità è senz’altro stata quella delle due partite dei gironi classificatori dal 17° al 32° posto, incontri che assegnavano anche i pass olimpici per l’Africa e l’Asia.

Prima la sfida alle Filippine padroni di casa, indirizzata con il 34-17 del primo quarto e portata a casa anche grazie all’ottimo lavoro difensivo su Jordan Clarkson, limitato a 9/23 dal campo e 5 palle perse. Poi la partita decisiva, quella contro l’Angola - con un orecchio all’Egitto, diretta contendente in ottica ranking finale - e vinta con autorità e personalità.

A elevarsi, nel corso delle due settimane di Manila, è stato innanzitutto Carlik Jones. Dodici partite in NBA con le maglie di Dallas, Denver e Chicago, il nativo di Cincinnati chiuderà - con ogni probabilità - il Mondiale come miglior assist-man della competizione a quota 10.4 di media (a fronte, tra l’altro, di soltanto 1.8 palle perse a partita).

Contro l’Angola, Jones ha anche eguagliato il record per il maggior numero di assist in una partita dei Mondiali: i 15 di Toni Kukoč nel 1994.

Protagonista ad alto livello è stato anche Marial Shayok, visto in Eurolega nel recente passato con la maglia del Fenerbahçe e capace di chiudere la competizione con il 47.4% da 3 su 3.4 tentativi a partita. Un dato, il suo, che non è nemmeno il migliore all’interno della squadra di Ivey (seconda solo alla Lituania imbattuta per percentuale da 3) visto che è superato, da giocatori con almeno 15 tentativi nel torneo, da Omot col 52.9% e da Kacuol con il 58.3%.

Buono anche il torneo di Wenyen Gabriel, indubbiamente il giocatore dal maggior pedigree vista l’esperienza con i Los Angeles Lakers nelle ultime due stagioni. Da menzionare anche il giovanissimo - e alquanto grezzo - centro di 2.16 Khaman Maluach, attenzionato dagli scout NBA per il Draft 2025 (è un classe 2006) e capitan Kuany Kuany. «Ogni volta che giochiamo è un modo per dipingere il Paese in maniera positiva», ha detto il giocatore reduce da una stagione in Finlandia. «Le persone non parlano della guerra, della corruzione, delle uccisioni, ma solo di pallacanestro. Andare alle Olimpiadi è surreale. Non solo per il risultato straordinario, ma perché siamo in grado di mostrare cosa è il nostro paese».

Ispirare una generazione

La geografia del basket africano è mutata negli ultimi anni. Dopo cinque partecipazioni olimpiche dell’Angola, tra il 1992 e il 2008, i tornei successivi hanno visto l’alternarsi di Tunisia e Nigeria. Due Nazionali che però hanno mancato la qualificazione al Mondiale 2023, dove si sono registrati anche la prima volta di Capo Verde, la conferma (rispetto al 2019) della Costa d’Avorio e il ritorno dopo un’edizione di assenza dell’Egitto. Tutte e cinque le squadre del continente, tra l’altro, hanno vinto una partita del primo girone e ben quattro di loro (con la sola eccezione dei capoverdiani) hanno conquistato sul campo l’accesso al PreOlimpico 2024.

L’unica certa di giocare per l’Africa nel basket maschile a Parigi, però, è il Sud Sudan di Luol Deng. «Penso che sfrutteremo questa opportunità per rappresentare al meglio delle nostre possibilità il continente», dice. «L’ho visto e in tanti l’hanno visto. Se investi sui giovani africani, dando loro l’opportunità di mettersi in mostra e svilupparsi, puoi davvero giocartela con il resto del mondo. Oggi un giocatore africano per crescere e affermarsi deve andare in Europa o negli Stati Uniti. Non per il talento, ma perché mancano le strutture. Spero che la nostra squadra sia d’esempio per il resto dell’Africa, come prova dei risultati che puoi ottenere se investi sulle persone».

«Questa storia va al di là della pallacanestro: è un’occasione per tanti bambini che invece di stare per la strada, o pensare alle loro difficoltà, possono essere fieri della loro provenienza e credere nella possibilità di rappresentare il loro Paese. Avere qualcosa di positivo di cui parlare. Dobbiamo iniziare a guardare allo sport in questo senso, a investire in cose che possono permettere ai giovani di cambiare la direzione delle loro vite. Sport, arte, musica, cultura. Spesso queste sono cose positive», prosegue Deng.

L’ex All-Star dei Bulls ha investito risorse sia economiche che mentali in questo progetto, ma ad ascoltarlo raccontare la sua visione non emerge nemmeno una minima parte di rammarico: «Ho sempre detto che essere un ex giocatore e trovare qualcosa che amo fare è un atto che viene dal cuore. Abbiamo ispirato tante persone e spero di aver spinto alcuni atleti a tornare ai loro Paesi d’origine, per dare indietro qualcosa. Trascorriamo gran parte delle nostre vite a praticare uno sport: se hai la possibilità di dare indietro tutto ciò che hai imparato nel corso degli anni, è qualcosa che ti arricchisce e ti rende migliore».

Oltre alla storia straordinaria, però, il Sud Sudan è anche una bella squadra di pallacanestro. E l’ambizione è quella di non andare a Parigi soltanto per partecipare. «Ho visto tante Nazionali nel corso degli anni, e le migliori sono quelle che giocano con passione. Dove non è importante chi fa cosa, affinché si vinca. Esempi come Italia, Serbia o Australia sono d’ispirazione in questo senso», continua Deng. «Noi abbiamo quella passione. Ciò che ci manca è la consistenza e l’organizzazione. Ma siamo fortunati ad avere tanti giocatori che amano il loro Paese».

«Penso che abbiamo davvero un’ottima squadra, e l’obiettivo è quello di andare lì e cercare di vincere ogni partita», conclude. «Mi emoziono a dirlo, ma per me la cosa principale era l’idea di vedere la nostra bandiera. L’ho fatto con la Gran Bretagna, portando i colori del paese durante la cerimonia inaugurale. Quel momento è tutto. Dopodiché, giocheremo a basket e vedremo come andrà. Ma soltanto la possibilità di portare la nostra bandiera durante la cerimonia inaugurale dell’Olimpiade sarà la cosa più grande».

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura