«Nelle pause ti viene da pensare al punteggio che devi fare, ma se ci caschi poi non lo fai più e allora io penso e ripenso al gesto e dopo lo faccio e il punteggio arriva». Così parlava l’arciere Marco Galiazzo, dopo la gara che lo rese immortale. Era il 19 agosto 2004, ad Atene. Una giornata caldissima, passata all’interno del Panathinaiko, lo stadio degli eroi antichi e moderni, dei giochi Panatenaici nell’antichità, delle prime Olimpiadi moderne della storia, dell’arrivo di Stefano Baldini al termine della maratona. Si può vincere in uno stadio del genere senza diventare immortali?
L’immortalità di Galiazzo è durata pochi giorni da eroe, seguiti da quattro anni di oblio, seguiti nuovamente da qualche giorno sulla cresta dell’onda. E così via, come capita a tutti gli atleti di sport che qualcuno definisce “minori”. Galiazzo è alla sua quarta Olimpiade, ma ha solo 33 anni e non è detto che sia l’ultima: quando sconfisse Hiroshi Yamamoto ad Atene, dodici anni fa, il suo avversario ne aveva 42. Galiazzo ha lo stesso numero di partecipazioni olimpiche di Federica Pellegrini, ha vinto più ori di lei, la “Divina”, la portabandiera, ma Galiazzo non è il genere di atleta da cui si pretende una medaglia. E però ricompare a ogni Olimpiade, con la sua espressione placida e il cappello da pescatore: e in questo millennio non si è mai conclusa un’edizione dei Giochi senza che lui salisse sul podio. Oro ad Atene 2004, argento a squadre a Pechino 2008, oro nuovamente a squadre a Londra 2012.
Adesso si ripresenta con l’arco in mano ma senza grandi aspettative: attualmente Galiazzo è 381esimo nel ranking mondiale (anche perché ha fatto poche gare) e dopo la terribile gara a squadre non abbiamo ragioni razionali per aspettarci qualcosa di più nell’individuale. Il che non significa che non abbia nessuna speranza, in fondo è lo stesso Galiazzo, la sua storia, a ricordarci la capacità dello sport di sorprenderci sempre, a confrontarci con i nostri limiti di spettatori.
L’oro di Galiazzo ad Atene 2004
Icona
L’arco di Galiazzo ad Atene pesava oltre 20 chili, e in finale l’ha dovuto sollevare e tendere dodici volte, mirando a un bersaglio lontano settanta metri, fatto di cerchi concentrici di cui il più piccolo un diametro di 12,2 centimetri. Non una cosa semplice: Galiazzo si allenava sette ore al giorno, gareggiava quasi tutti i weekend e aveva rimandato la maturità dell’istituto tecnico professionale a cui era iscritto (si diplomò nel 2005 a 22 anni) per quell’Olimpiade. Certo, aveva anche sacrificato la sua vita sociale. Qualcuno forse ricorda il tormentone sulla fidanzata: fece l’errore di dire che non l’aveva, auspicò di trovarla grazie anche alla sua notorietà e iniziarono a chiedergli come andava a ogni intervista. Per la cronaca, Galiazzo si è sposato due anni fa, con l’arciera Gloria Trapani.
Negli anni dello studio Galiazzo aveva compagni di classe che lo sfottevano perché faceva uno sport che non si filava nessuno, mentre loro erano tutti calciatori. Guadagnava circa 25 mila euro all’anno di borsa dalla Federazione di tiro con l’arco, più altri cinquemila di sponsorizzazioni. Dopo quell’oro è arrivato l’arruolamento in Aeronautica. In pratica il posto fisso degli sportivi, ma solo dopo aver raggiunto il punto più alto possibile nella carriera di un arciere.
Messi assieme tutti questi elementi, si capisce anche come una possibile reazione di fronte al successo di Marco Galiazzo sia un misto di rispetto e immedesimazione. Rispetto, perché quel gesto che in televisione sembra tanto banale è di una difficoltà estrema: settanta metri sono grosso modo la distanza da un’area di rigore all’altra su un campo da calcio; dodici centimetri virgola due sono meno della lunghezza di una lattina di Coca-Cola; con in più la possibilità che il vento vada a rovinare tutto. Immedesimazione, perché Galiazzo non è un semidio, il suo “dono” non si manifesta esteriormente come per la maggioranza degli atleti che celebriamo. Galiazzo è il trait d’union tra noi e il mondo degli eroi olimpici: questo lo rende un’icona, a modo suo.
Ulisse
È ricco di simboli anche il fatto che la sua specialità sia il tiro con l’arco: un’arma di origini antichissime con una grande tradizione letteraria nella nostra parte di mondo. C’è una lunga serie di arcieri di cui abbiamo sentito parlare fin da bambini e ciò che accomuna la maggior parte di loro, oltre alla mira infallibile, è il dono per il travestimento. Robin Hood, ma anche Ulisse, che tornato a Itaca si travestì da mendicante, lasciò che i Proci lo deridessero e aspettò di avere un’occasione buona: cioè, di avere un arco in mano. La freccia passò attraverso i dodici anelli delle scuri messe in fila, e solo dopo Ulisse si alzò e si tolse gli stracci da mendicante. In questo senso anche l’aria dimessa di Galiazzo, il cappello da pescatore, può essere considerata un travestimento. Ma quando il giudice dà il via, prende in mano il suo arco e procede, una freccia dopo l’altra, verso il suo obiettivo.
Dopo l’oro del 2004, è riemerso dalle nebbie e ha vinto l’argento a squadre a Pechino con Ilario Di Buò e Mauro Nespoli. Li ha sconfitti solo la Corea del Sud, dove il tiro con l’arco è pressoché religione. Sono passati altri quattro anni e, a Londra, il terzetto di arcieri azzurri ha sfidato in finale gli Stati Uniti. Una squadra di palestrati, contro un terzetto di uomini sopra i 90 chili («ci serve stabilità», la replica di Galiazzo) con i nervi d’acciaio, però. Stavolta, con Galiazzo e Nespoli c’era Michele Frangilli, che aveva già vinto due medaglie di squadra ad Atlanta 1996 e a Sydney 2000. Una specie di Ulisse anche lui, rimasto in esilio dodici anni per rendersi irriconoscibile. A lui è toccata la freccia decisiva, con gli Stati Uniti in vantaggio di nove punti: ha fatto centro, dieci punti, e l’Italia ha vinto il suo primo oro a squadre, consacrandosi come superpotenza.
L’oro dell’Italia contro gli Stati Uniti a Londra 2012
Forse è per questo che stavolta la gara a squadre è andata male. Perché i grandi arcieri vincono quando tornano a Itaca nell’indifferenza generale, irriconoscibili e dopo aver perso tutti i compagni nel corso del viaggio. Forse il segreto dell’arciere perfetto, al di là degli allenamenti massacranti, dei sacrifici e della solitudine, è il travestimento. Forse stavolta li aspettavamo con troppa consapevolezza dei loro mezzi.
In realtà quest’anno Galiazzo è già fortunato ad aver staccato il biglietto per Rio. Stava tirando malissimo da anni, ma è comunque il più affidabile tra gli arcieri convocabili, e il ct Wietse van Alten ha deciso di puntare su di lui. Nella gara a squadre non ha funzionato e difficilmente funzionerà nell’individuale. Come ad Atene, Galiazzo si presenta con un profilo bassissimo. Il modo migliore per rendersi irriconoscibile, magari. A noi non resta che aspettare per vedere se ci riserverà una nuova sorpresa.