Nello sport vince la sensibilità o la brutalità? O meglio, le due cose si escludono? Oggi non ci sono segni né dell’una né dell’altra nei calciatori di alto livello, Messi e Ronaldo sono due simulacri specchianti, che ci rimandano a quello che pensiamo di loro. Il talento puro di uno ricalca la forma dell’etica lavorativa dell’altro, in entrambi i casi non c’è niente che esca dai bordi del disegno, dai contorni della loro gloria. Nei loro occhi non c’è niente di visibile, perché niente si possono permettere di rivelarci, sarà negli articoli del loro contratto col diavolo, oppure sarà timidezza, paura di essere spogliati di ogni umanità appena osassero mostrarne un minimo (e se è questo che pensano di noi, opinione pubblica, come dargli torto), ma se cercate risposte in loro è impossibile. Il che, tra l’altro, trasforma ogni ricerca che li riguardi in un’ossessione, come quella di Michelangelo che chiede alla propria opera: «Perché non parli?». Persino Mbappé riesce a rendere elegante la propria bruciante esplosività, il sorriso di Haaland dopo un’azione di forza è tanto più spaventoso perché sincero, leggero, Saturno che divora i propri figli con gusto, senza tormento. Un tempo invece c’era un calciatore con gli occhi enormi e acquosi che dopo ogni gol puntava un mitra immaginario contro gli spettatori e sparava finché aveva fiato in corpo. Quel calciatore era Gabriel Omar Batistuta, sensibile e brutale al tempo stesso.
I segni della violenza dello sport – di ogni sport a livello agonistico – Batistuta non li ha mai nascosti. Ha vissuto nella contraddizione, fragile e invincibile, rumoroso e silenzioso. Guardando «El Numero Nueve» (Amazon Prime Video) ho capito che se ho amato così intensamente Batistuta è per questo. E che per questo lo amerò sempre, continuando ad emozionarmi ogni volta che lo vedo, come si emoziona lui quando a distanza di vent’anni torna in Italia per girare il documentario sulla sua carriera, che è anche il documentario sulla sua vita. «Comincia a battermi il cuore», sospira sdraiato sul letto, appena arrivato in albergo, quando gli tornano alla mente quegli anni. «Dormiamo? Mi sto commuovendo». E poi, camminando per Firenze deserta di notte, in scene probabilmente girate prima dell’alba sfruttando il jet lag, riflette: «Quante volte ho pianto per questa città». Sul treno per Roma guarda fuori dal finestrino, con la fronte corrucciata, come se da qualche parte nel paesaggio che gli scorre davanti stesse succedendo qualcosa di drammatico. «Che hai?», gli chiede la moglie Irina. «Sono nervoso». «Perché?». «Non lo so». E la voce gli si rompe quasi mentre ricorda l’addio a Firenze. «Tutte le strade portano a Roma», gli dice lei. «Così dicono», risponde. Proiettando forse i suoi propri sentimenti su di lei, dice: «Non metterti a piangere adesso». «No, mi sto per mettere a leggere», risponde Irina. Entrano in un cinema enorme e vuoto, dove vengono proiettate le immagini della vittoria dello scudetto del 2001. «Mi commuovo perché penso che me lo meritavo», dice Bati passandosi la mano sugli occhi. «Sono cose bellissime», dice Irina. «È bello ricordarle». «Eh… non mi piace tanto», risponde lui. «Perché no?». «Perché mi emoziono troppo».
Avete già visto qualcuno calciare una punizione che da quaranta metri che sbatte sulla parte inferiore della traversa e rimbalza a terra così forte che colpisce di nuovo la traversa?
A Gabriel Omar Batistuta come leggenda della Fiorentina ha dedicato un pezzo molto bello Giovanni Fontana, in cui lo descrive così: «Non è neanche uno sbruffone come Ibrahimovic, che il calcio non lo esalta né lo svilisce, semplicemente lo concepisce come il proprio oggetto. Batistuta non è un personaggio, non ne ha uno. Batistuta è grintoso, combattivo. È forte-coraggioso-e-leale, come nel più dozzinale stereotipo cavalleresco». Io ricordo che quando Franco Sensi lo ha comprato, subito dopo lo scudetto vinto dalla Lazio, subito dopo l’addio del Principe Giannini finito in rivolta, i tifosi della Roma tutti hanno pensato: “Ok, adesso tocca a noi vincere”. Il fatto che poi sia andata effettivamente così contribuisce al ricordo di un Batistuta infallibile. L’attaccante forte, freddo, che sotto porta, o lontano dalla porta, trovava sempre l’angolo o lo spazio per far passare il pallone - e quando lo spazio non c’era tirava così forte che dava l’impressione di crearlo bucando le mani al portiere, o magari impedendogli inconsciamente di mettercele. Da giovane «non aveva la forma del calciatore», racconta nel documentario Jorge Bernardo Griffa, il suo scopritore: «Era un ragazzone che calciava forte. Che la rompeva, la palla, per quanto calciava forte». È rimasto quel tipo di giocatore, anche se aveva 31 anni quando è arrivato a Roma e l’aria era già quella dell’ultima occasione. Una cosa eccezionale che sarebbe durata poco. Era Batistuta, ma era anche il ricordo di Batistuta. Nei suoi occhi lucidi, piegati verso il basso come le sue spalle, c’era già una luce malinconica.
Soprattutto, si era già rotto i legamenti del ginocchio, la caviglia gli dava già problemi. Il suo corpo eccezionale, apollineo, stava iniziando a mostrare i propri limiti. Era diventato calciatore tardi, sorprendendo se stesso, per un «talento che avevo, ma che non sapevo di avere», come ricorda a un certo punto, e per delle doti fisiche fuori dalla norma, era grosso il doppio e veloce il doppio dei difensori che si trovava davanti, ma ha pagato quella forza eccezionale con altrettanta sofferenza. Nelle scene in cui si gode un pomeriggio in costume sulle rive del Paranà – «Prima di una partita importante venivo qui al fiume e spegnevo i motori. Perché, come dico sempre alla mia famiglia, qui si può sentire il rumore del silenzio» - è ancora scolpito, dà un’impressione incredibile di solidità anche a cinquant’anni, ma la sua caviglia gonfia e piegata sul proprio asse, come una macchina che si ostini a girare con una gomma bucata, è un’immagine cruda, difficile da sostenere se gli avete voluto bene. «Ho la caviglia rotta, ma ne è valsa la pena», dice a Irina guardando la cupola del Brunelleschi, in un altro momento. «Ogni volta che mi fanno male le caviglie penso a quello e mi passa il dolore», dice a “Gianca” Antognoni, che mentre giocavano a golf gli aveva ricordato l’affetto che i fiorentini provano ancora per lui, prima di dolersi del cattivo tempismo del destino che non gli ha permesso di giocare insieme. La verità è che quella caviglia è un prezzo troppo alto, un’ingiustizia, una crudeltà. Una punizione, si direbbe, per tutti quei palloni che ha rotto. Come se il suo dono fosse stato accompagnato da una maledizione: “Per ogni gol che farai, la tua caviglia si indebolirà, fino a farti così male che preferirai pisciare a letto piuttosto che alzarti per andare in bagno”. Oppure: “Per compiere il tuo destino soffrirai fino a chiedere al tuo dottore di tagliarti entrambe le gambe”. Questo è stato il costo del successo per Batistuta.
A febbraio 2001, con il Parma in vantaggio di un gol, Samuel lancia per Batistuta in profondità. Il livello di concentrazione di Bati era leggendario quanto la sua forza e gli permetteva di reagire prima dei difensori in situazioni di questo tipo, per questo scivola tra Thuram e Cannavaro e arriva da solo all’altezza del dischetto, con la coordinazione perfetta per calciare al volo la palla che veniva da dietro, e battere Buffon. Poco dopo, con un tiro simile, stavolta intercettando un cross da sinistra sul secondo palo, segna il gol del 2-1. La Roma va a 6 punti sulla Juventus e se ci sono partite che da sole valgono un pezzo di scudetto più grande delle altre, questa era una di quelle. In quel momento la profezia dei romanisti si auto-avvera: «Allora tocca davvero a noi vincere!». Qualche mese prima Batistuta aveva segnato il gol vittoria contro la Fiorentina, calciando al volo una palla che scavalca Toldo, che si aspettava un tiro teso. Sepolto sotto l’abbraccio dei compagni sul volto di Bati si legge della vera sofferenza. Non l’imbarazzo di circostanza di chi sa di non poter esultare, o di chi si rende conto di aver dato un dispiacere a persone che gli vogliono bene, agli ex compagni di squadra, gli ex tifosi. Il suo è il dolore di chi ha ferito se stesso, di chi facendo quel gol si è sacrificato. E in fondo, col senno di poi, non era ogni gol un sacrificio per lui?
Batistuta ha pagato il conto per tutti. Per i tifosi della Fiorentina, che quanto meno lo ricorderanno per sempre; per quelli della Roma in mezzo a cui si è mischiato il giorno dei festeggiamenti, al Circo Massimo, con Marco Delvecchio e rispettive mogli, con una parrucca per non essere riconosciuto, tra cui anche quei tifosi, però, che dopo averlo amato hanno festeggiato la sua cessione, dicendo che era bollito, finito, come fosse stato un cavallo da corsa - perché Roma è un città che sa accogliere, ma che non sa dire addio. Batistuta ha portato la vittoria alla Roma: non ha vinto da solo, certo, ma senza di lui non sarebbe stato possibile. Chi lo ha amato veramente, lo ha fatto per la sua straordinaria umanità, per quella sensibilità che non è mai entrata in contraddizione con la sua forza, con la sua competitività.
Il gol di Batistuta che preferisco, quello in cui riesce a dare forza persino a un controllo di petto.
Batistuta aveva una naturalezza selvaggia, la sua ferocia era quella del predatore che fiuta un animale parte della sua dieta, ma aveva anche la loro solitudine. E forse ho provato emozioni così forti per Batistuta proprio per questa solitudine. E ancora le provo, mentre guardo immagini vecchie vent’anni, o mentre lo vedo zoppicare col tutore dopo l’operazione che dovrebbe liberarlo finalmente dal dolore. Batistuta è un uomo immerso nei ricordi, non può pensare a se stesso senza tornare indietro nel tempo col pensiero, e così facciamo noi. Magari lo era già allora, un tipo nostalgico, solo ha nascosto bene quando gli mancava la famiglia e voleva studiare, quando ha lasciato l’Argentina, quando ha lasciato Firenze, quando ha lasciato Roma. Perché prima o poi dobbiamo lasciare tutto e a certe persone questa cosa, semplicemente, non va giù. Penso che Bati sia una di quelle persone (come lo sono io, d'altra parte).
Quante contraddizioni, quanti ripensamenti e versioni di sé, può contenere un uomo prima di impazzire? Batistuta è il ragazzo che ha cominciato a giocare a calcio seriamente a diciotto anni, quasi controvoglia, e a ventuno era in Nazionale e vinceva la sua prima Copa America; è il professionista venuto in Italia per guadagnare di più e che è diventato il più forte centravanti al mondo, l’attaccante che segnava da ogni punto del campo, che ha esultato a Wembley, che ha zittito il Camp Nou, che ha regalato una gioia alla tifoseria che non ne ha mai una; è l’uomo che non appoggia il peso sulla caviglia sinistra e a cui viene da piangere ogni volta che parla del passato, il cui gol preferito non è quello di Wembley ma quello segnato nella piazza del suo quartiere, a Reconquista, quando giocava con lo zio e aveva sette, otto anni. Gabriel Omar Batistuta è stato la massima espressione di forza in un calcio in cui la forza era quasi tutto, in cui i difensori erano forti fisicamente e giocavano con uno spirito criminale, è stato “il nove” impossibile da fermare, efficace, preciso, senza mai un’incertezza. Ma è stato anche un uomo che non ci ha nascosto la sua pena, che è stato suo stesso strumento di tortura. Con quella faccia che ricalca quasi la Sacra Sindone, Batistuta si è sacrificato per chi lo amava. Per questo è stato così tanto amato.