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Il dibattito sul corpo di Lia Thomas
30 gen 2024
La nuotatrice trans statunitense sta lottando per poter gareggiare con le altre atlete.
(articolo)
21 min
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IMAGO / USA TODAY Network
(copertina) IMAGO / USA TODAY Network
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Lia Thomas non se la ricorda una vita fuori dall’acqua. Da bambina era quasi impossibile farla uscire: nuotava per ore e ore, fino a farsi diventare le dita tutte raggrinzite e le labbra blu dal freddo. L’acqua può farci dimenticare che siamo animali terrestri. Si diventa indifferenti alle proteste messe in atto dal corpo, che prova a riportarsi alla dimensione che gli appartiene. Ma senza interferenze atmosferiche e senza peso, presto si entra in connessione con ogni muscolo, che improvvisamente sembra avere infinite possibilità di movimento. Allo stesso tempo, nuotare è un’esperienza di dissociazione dalla realtà e dallo spazio che ci circonda e che occupiamo.

Lia Thomas questo potere dell’acqua sembra avvertirlo fin da bambina. Per lei la piscina è stata a lungo un posto magico. Negli anni, con l’adolescenza e la pubertà, è stata anche un luogo dove si è costretti a stare in costume e a esporsi agli sguardi dei presenti. Fin dalle scuole superiori, però, si è distinta per meriti sportivi, le sue specialità erano i 500, 1000 e 1650 yard stile libero. Nonostante la sensazione di disagio crescesse sempre di più in quel periodo, Thomas ha continuato ad allenarsi fino ad assicurarsi un posto nella squadra maschile di nuoto dell’Università della Pennsylvania, una delle più importanti degli Stati Uniti.

Lei che è stata la prima atleta trans a vincere una gara NCAA (l’organizzazione sportiva dei college statunitensi), però, dal giugno del 2022 nuota solo per divertimento. A tre mesi dalla storica vittoria nei campionati universitari, la federazione internazionale del nuoto, la World Aquatics, ha cambiato la politica di inclusione: le atlete trans possono partecipare alle competizioni femminili solo se hanno intrapreso il percorso di transizione entro i dodici anni o comunque prima della pubertà. Il nuovo regolamento esclude, oltre a Thomas, la stragrande maggioranza delle nuotatrici transgender. Sabato la nuotatrice statunitense ha deciso di portare il suo caso davanti al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna, per risolvere la questione attraverso un arbitrato che potrebbe avere conseguenze per tutte le altre atlete che stanno vivendo la sua stessa condizione.

Thomas ha iniziato a cercare una spiegazione al suo malessere nel 2017, verso la fine delle superiori. «Mi sentivo strana, sconnessa dal mio corpo», ha raccontato a Sports Illustrated. Quando si è trasferita da Austin a Philadelphia per iniziare gli studi non c’è stato tempo per riflettere e capire: nuovo Stato, nuova città, squadra, amici, scuola, casa. «Nei primi anni di college la piscina era diventata un luogo dove tutto il mio disagio era amplificato, era molto difficile sentirsi bene in acqua», ha ricordato l’atleta nel podcast di Schuyler Bailar, nuotatore e primo atleta transgender a competere in prima divisione dell’NCAA. Tra i due c’è un rapporto speciale: Thomas, quando ha capito di essere trans, si è messa in contatto con Bailar in cerca di supporto e informazioni sul processo di transizione di genere. Le loro storie sono speculari, seppure con un’importante differenza: Bailar non ha subito una mobilitazione collettiva per impedirgli di gareggiare in quanto uomo trans.

Thomas nel 2018 ha fatto subito coming out con la famiglia rimasta in Texas, mentre in Pennsylvania non si è confidata con nessuno per mesi: «Ho provato a ricacciare tutto dentro, mi sono presa un anno per capirmi meglio. Era tutto nuovo e avevo paura delle reazioni». La sua seconda stagione alla UPenn, quella 2018/2019, è stata la migliore della carriera fino a quel momento: all’Ivy Championship, competizione tra le università della Ivy League, ha ottenuto il secondo posto in tutte e tre le sue gare, 500, 1000 e 1650 yard stile libero. Si stavano aprendo le porte per una possibile partecipazione ai campionati NCAA e ai trials per le Olimpiadi di Tokyo 2020. «Non sapevo cosa fare, ero divisa tra voler iniziare la terapia ormonale per essere a mio agio e la preoccupazione sul mio futuro, non sapevo se sarei stata in grado di continuare. Mi sentivo in trappola».Presto, l’urgenza di iniziare il percorso di transizione è diventata tale da cancellare l’esigenza di nuotare, o almeno di farlo a livello competitivo: «Avevo pensieri suicidi e ho deciso che dovevo iniziare la terapia ormonale ed essere felice. Non vedevo la mia vita continuare in un altro modo».

Nella primavera del 2019 ha iniziato la somministrazione di ormoni, senza dirlo ad allenatore e compagni: «All’inizio ho pensato “ok, metto lo sport da parte, è triste ma devo farlo”. Poi verso la fine dell’estate ero più felice, ho pensato che forse c’era un modo per continuare a nuotare». All’epoca, secondo il regolamento NCAA, bastava un anno di terapia ormonale con estrogeni e soppressori del testosterone per poter accedere alle gare femminili. Thomas era emozionata all’idea di «poter competere nella mia ultima stagione al college con la mia vera identità».

Nella stagione 2021/2022, a circa due anni dall’inizio del percorso di transizione, Thomas è entrata in acqua come membro della squadra femminile. Le sue capacità erano ridotte rispetto a prima, i tempi più lunghi, le bracciate meno potenti. Lei però era ancora la stessa nuotatrice, la stessa che alle superiori aveva risultati tali da poter scegliere qualunque college degli Stati Uniti. Nelle prime gare dell’anno ha ottenuto ottimi risultati: a novembre 2021 ha registrato i tempi migliori della stagione sulle 200 e 500 yard stile libero, e due settimane dopo ha migliorato ancora i suoi due record. Le prime vittorie nel circuito hanno acceso l’interesse pubblico e mediatico su di lei per la prima volta. Non come atleta, ma come donna trans in competizione con donne cisgender.

A dicembre 2021 alcuni genitori, rimasti anonimi perché terrorizzati dalle potenziali accuse di transfobia, hanno inviato una lettera alla NCAA e all’Università della Pennsylvania per chiedere che Thomas venisse esclusa dalle gare femminili. A febbraio, a un mese dall’NCAA Championship di nuoto femminile, sedici compagne di squadra, anche loro rimaste anonime, hanno scritto alla Ivy League ribadendo la stessa richiesta: «Se le verrà permesso di gareggiare, potrebbe battere i record di nuoto femminile di UPenn, Ivy Leaugue e NCAA, cosa che non avrebbe mai potuto fare in competizione con i maschi». La lettera sottolineava che Thomas era sostenuta e rispettata dalle compagne come donna, ma non come sportiva.

La questione sulla partecipazione delle persone trans, in particolare donne, negli sport competitivi è da anni al centro di un violento dibattito. Chi è contrario sostiene che nonostante le terapie ormonali, il vantaggio biologico di nascere in un corpo maschile non può essere del tutto cancellato. In media un uomo cis è più alto, ha più massa muscolare e più resistenza alla fatica. Alcune di queste differenze possono essere compensate con le terapie ormonali, come ha spiegato nel 2021 a Medscape Joanna Harper, medica sportiva, autrice di studi sul tema e in passato consulente del Comitato olimpico internazionale. Alla base delle diverse attitudini all’attività fisica tra maschi e femmine cis c’è il testosterone, molecola sintetizzata dai corpi maschili in quantità molto più elevate rispetto a quelli femminili. L’ormone è responsabile, tra le altre cose, dell’aumento della massa muscolare, della crescita delle ossa e della statura. «Il 95% delle donne cisgender ha un livello testosterone nel sangue inferiore a due nanomoli per litro. E in un recente studio su quasi 250 donne trans, il 94% di loro rientrava negli stessi parametri», ha detto Harper.

Anche la capacità di resistenza fisica varia tra persone biologicamente maschi e femmine: i primi hanno livelli più alti di emoglobina nel sangue, il che permette un maggior ricambio di ossigeno nei muscoli. «I livelli di emoglobina seguono il testosterone», e per una donna trans che si sottopone alla terapia ormonale possono servire «tra i tre e i quattro mesi per raggiungere i livelli femminili». Harper ha anche parlato di massa magra e forza fisica, ma sono aspetti su cui c’è poca chiarezza, dal momento che ad oggi non esistono studi sulle atlete trans.

In linea generale, comunque, per Harper si può dire che probabilmente «le donne trans manterranno vantaggi di forza rispetto alle donne cis, anche dopo la terapia», con differenze significative tra i vari sport. Ad esempio, «le donne trans perderanno forza con la transizione farmacologica ma non perderanno in elevazione. Quindi negli sport come il basket e la pallavolo quel vantaggio non viene mitigato». Va anche considerato, secondo la medica, che le donne trans possono subire anche degli svantaggi: «Hanno strutture più grandi, alimentate da massa muscolare e capacità aerobica ridotte. Come delle grandi auto con motori piccoli».

In sé, il concetto che esistano persone con un vantaggio biologico in determinati sport è normale e accettato. Ad esempio, «nel baseball la configurazione a diamante del campo favorisce i giocatori mancini. Dall’altra parte, non permettiamo ai pugili pesi massimi di salire sul ring con i pesi mosca». L’opinione di Harper è che i regolamenti per l’inclusione di atleti e atlete trans andrebbero formulati tenendo conto delle differenze di ciascuna disciplina.

Tommy Lundberg, fisiologo del Karolinska Institutet in Svezia e autore di studi su sport e genere, ha riassunto in un’intervista a ESPN la sua posizione: «Non si può disfare lo sviluppo maschile avvenuto durante la pubertà», anche con una terapia ad hoc. Lundberg nel 2020 ha pubblicato insieme a Emma Hilton uno dei paper più citati dai regolamenti delle federazioni e da chi vorrebbe la radicale esclusione delle donne trans dallo sport femminile. Lundberg e Hilton hanno messo in paragone i risultati di atlete e atleti cisgender, per quantificare il vantaggio maschile nelle attività fisiche. Successivamente, hanno esposto i cambiamenti sperimentati da persone che si sono sottoposte a terapie di soppressione del testosterone per qualunque ragione, dalla transizione di genere alla cura di alcuni tumori. “I dati mostrano che forza fisica, massa magra, dimensione dei muscoli sono interessati solo marginalmente”, non abbastanza per compensare le differenze di partenza tra maschi e femmine. Per questo “ci sono importanti implicazioni per quanto riguarda performance e sicurezza negli sport”. Gli studiosi concludevano che se le politiche delle federazioni “sono intese a preservare giustizia, inclusione e sicurezza delle atlete biologicamente femmine”, dovrebbero riconsiderare la partecipazione delle donne trans.

La review è stata soggetto di critiche sulla metodologia applicata, in primo luogo perché non mette a confronto atlete cis e trans. Quest’ultime sono rimpiazzate con un campione di uomini cisgender, cercando poi di calcolare a posteriori gli ipotetici effetti della soppressione del testosterone sulle loro performance sportive. Secondo i ricercatori Blair Hamilton, Fergus Guppy e Yannis Pitsiladis si tratta di un tentativo fazioso di “alimentare il presupposto latente che un campione di studio di uomini cisgender sia un sostituto appropriato per le donne transgender”.

Hilton, che è ricercatrice nella divisione di Immunologia all’Università di Manchester, e solitamente si occupa di tutt’altro, è una delle fondatrici di Sex Matters, un’organizzazione che si batte per una società rigidamente binaria. In apertura del sitosi legge: “Il sesso conta nella vita e per la legge, non dovrebbe volerci coraggio per dirlo”. Scorrendo poco più giù, compare la faccia sorridente di Hilton, affiancata al suo motto:Le parole maschio e femmina hanno un significato biologico molto chiaro, non aperto a una decostruzione post moderna. Non si riferiscono a categorie sociali, ma all’anatomiaumana”. Tra i loro obiettivi, c’è quello di vietare quella che definiscono la "terapia di conversione moderna", ovvero il percorso di transizione di genere. “Questi trattamenti”, dicono “possono rendere le persone sterili e con disfunzioni sessuali. E non manterranno mai la promessa impossibile di cambiare il loro sesso”.

Il lavoro di Lundberg e Hilton, Transgender Women in the Female Category of Sport, è un prodotto criticabile, innanzitutto perché porta la firma di una ricercatrice che non crede nemmeno che le donne trans esistano. Eppure è stato largamente citato dalle federazioni sportive – tra cui World Rugby, World Aquatics e Union Cycliste Internationale – che hanno recentemente cambiato le linee guida per escludere del tutto o in parte le donne trans. L’opera dei due ricercatori ha ottenuto il risultato sperato.

Ad oggi, l’unico dato certo è che nei vent’anni in cui le donne trans hanno potuto partecipare alle Olimpiadi negli sport femminili (pur con condizioni stringenti fino al 2015: livelli di testosterone controllati e obbligo di aver effettuato l’intervento di riassegnazione del sesso), se ne è qualificata solo una: Laurel Hubbard, nella categoria supermassimi del sollevamento pesi nell’edizione di Tokyo 2020. La neozelandese è arrivata ultima. Nell’NCAA, le atlete trans hanno potuto gareggiare per dodici anni e nessuna, prima di Lia Thomas, aveva vinto una gara.

Il 16 marzo 2022 Lia Thomas era ad Atlanta, pronta per l’evento sportivo più importante della sua vita. Gli spalti erano pieni di persone, alcune tenevano in mano dei grandi cartelloni rossi con su scritto “Save Women’s Sports”. All’ingresso di Thomas sono iniziate le grida, sia di supporto che di odio. Era passato un mese dalla lettera delle sedici anonime compagne che non la avrebbero voluta lì con loro. In risposta, oltre trecento nuotatori e nuotatrici universitari e professionisti hanno firmato una loro lettera aperta in suo supporto. Rispetto agli spalti, dove avveniva lo scontro, Thomas si trovava più giù, a bordo piscina: «Lì l’atmosfera era molto diversa, sono sicura che ci fossero persone che non erano per niente felici che fossi lì… però le uniche che sono venute a parlarmi dicevano di essere fiere di me». Ricordando quel momento, Thomas e Schuylar Bailar – che era sugli spalti – hanno sottolineato quanto supporto ci fosse, soprattutto da parte delle nuotatrici che erano in competizione con la texana. Un altro aspetto che emerge dal racconto è quello del privilegio dell’anonimato: tutte le persone a lei vicine che hanno voluto attaccarla non sono state costrette a esporsi. Thomas giovanissima e parte di una categoria marginalizzata, ha dovuto invece subire un processo in pubblica piazza. Il suo volto, associato al suo nome (e nei casi peggiori anche al suo dead name, il nome con cui era nota prima del coming out) è apparso dappertutto. Il suo corpo veniva dissezionato e paragonato a quello delle compagne con aggettivi violenti e transfobici. Da un giorno all’altro Lia Thomas si è trovata ad essere un problema e un bersaglio, mentre chi non la voleva tremava alla sola idea di poter essere definito bigotto.

La battaglia contro l’inclusione delle atlete trans viene venduta come una questione di puro buon senso. “Lia ha tutto il diritto di vivere la sua vita in modo autentico”, si legge nella lettera inviata dalle compagne “Ma quando si parla di competizione sportiva il sesso biologico è una questione separata dall’identità di genere». Per Thomas «è frustrante questo mezzo supporto, del tipo “ti rispetto come donna in questo, ma non in quello”. Non è possibile scompormi come essere umano in piccoli pezzi. È un finto sostegno che non porta da nessuna parte».

La norma federale che negli Stati Uniti regola le discriminazioni di genere nelle scuole pubbliche è il cosiddetto Titolo IX, in vigore dal 1972. Negli anni è stata più volte reinterpretata, con indicazioni diverse a seconda del presidente in carica. Il Titolo IX regola anche l’inclusione delle persone trans negli sport nelle scuole pubbliche di ogni grado. Durante l’amministrazione Trump è stata approvata una lettura della legge che limita la protezione delle pari opportunità al solo sesso assegnato alla nascita e non all’identità di genere. Dall’inizio del mandato, che si avvicina alla scadenza, Joe Biden ha promesso di intervenire, e negli ultimi mesi ci sono stati progressi, anche se le nuove linee guida non sono ancora entrate in vigore. Questo ha permesso a diversi Stati di presentare e in certi casi far approvare leggi che limitano l’accesso agli sport femminili alle sole ragazze e donne cisgender. Solo nel 2021 in più di venti Stati sono state presentate proposte di legge volte a impedire alle studentesse delle superiori trans di giocare nelle squadre femminili. Contattati da Associated Press, la maggior parte dei sostenitori dei progetti di legge non era in grado di nominare una sola atleta trans nel proprio Stato.

Negli ultimi anni, si è visto un aumento sistematico di tentativi – alcuni riusciti – di impedire l’accesso alle cure per l’affermazione dell’identità di genere, soprattutto ai minorenni. Dal 2018 ad oggi negli Stati Uniti gli “anti-trans bills” sono passati da 19 in un anno, a 142 nel 2023. Lo slogan “Save Women’s Sports” spesso prova a nascondere con una giustificazione razionale le reali intenzioni politiche, volte solo a limitare i diritti delle persone trans. Ne è un esempio cristallino l’udienza alla Camera di inizio dicembre 2023, intitolata “L’importanza di proteggere l’atletica femminile e il Titolo IX”. I discorsi, impregnati di transfobia e disinformazione, accusavano l’amministrazione Biden di «indebolire il Titolo IX permettendo a uomini che si identificano come donne di partecipare negli sport femminili». Tra le persone intervenute, a testimonianza dei potenziali rischi legati all’inclusione, c’era una giovane pallavolista sopravvissuta a una pallonata in faccia da parte di un’avversaria trans. Ha parlato ancheRiley Gaines, una delle avversarie di Lia Thomas all’NCAA Championship. Gaines, che si riferisce a Thomas utilizzando pronomi maschili e definendola un «uomo alto un metro e novantatré», è diventata nell’ultimo anno un’eroina della lotta per la salvaguardia dello sport femminile. Lo fa con un attivismo instancabile in diretta su Fox News e sui social, dove espone alla furia bavosa di quasi un milione di persone volti e nomi di ragazze a malapena maggiorenni.

Nei fatti, la concezione che lo sport femminile abbia bisogno di essere salvato dallo strapotere delle atlete trans non trova un riscontro nella carente letteratura scientifica, nessun appiglio nella realtà e nemmeno nelle performance di Thomas.

L’NCAA Championship di nuoto femminile del 2022 ha visto il dominio assoluto dell’Università della Virginia. Le sue stelle, Kate Douglass e Alex Walsh, hanno vinto – tra gare individuali e staffette – dieci medaglie d’oro su diciotto in palio. Douglass è riuscita nell’impresa inedita di battere tre record individuali nazionali, ognuno in uno stile diverso: 50 yard stile libero, 100 farfalla e 200 rana. Thomas, dal canto suo, ha partecipato a tre gare – 100, 200 e 500 yard stile libero – e ne ha vinta solo una, i 500, con un tempo di 4 minuti e 33,24 secondi. Con il suo miglior risultato in stagione non si è nemmeno avvicinata al record NCAA di Katie Ledecky, in piedi dal 2017, di 4:24,06. Nelle altre due gare, i 200 e i 100 yard, l’atleta trans si è classificata rispettivamente quinta e ottava. Non si è avverata la profezia delle autrici della lettera, che vedevano Thomas capace di battere ogni record possibile del nuoto femminile.

Anche se l’avesse fatto, poi, bisognerebbe interrogarsi su cosa significa avere un vantaggio giusto o ingiusto quando si parla di corpi. Michael Phelps è nato per nuotare: torso lungo e gambe corte, un’apertura alare di oltre due metri che lo rende più largo che lungo, caviglie snodate, mani e piedi grandi. Non solo, Phelps produce la metà dell’acido lattico dell’atleta medio, il che significa che è molto più resistente alla fatica. Il suo corpo non conforme è stato studiato in lungo e in largo, gli sono state attribuite condizioni e sindromi varie – che non sono mai state confermate – ma nessuno ha mai messo in discussione la sua partecipazione in una gara. Se si parla del suo fisico, lo si fa con meraviglia e ammirazione. Questo è un privilegio che le atlete, soprattutto nere, non hanno mai avuto, a prescindere dalla loro identità di genere. Da Serena Williams, a Simone Biles. Ma anche la tennista Taylor Townsend, scaricata nel 2012 dalla sua federazione perché troppo grassa. Fino a Caster Semenya, campionessa olimpica a Londra e Rio negli 800 metri piani, che è stata esclusa dalle competizioni dal 2019 per i suoi livelli naturali di testosterone troppo elevati. Semenya, se volesse tornare a correre, dovrebbe assumere ormoni.

Solo poche settimane fa, a oltre un anno dal ritiro di Thomas, Caitlyn Jenner, ex atleta olimpica e donna trans, era sull’emittente britannica Gb News a dire quanto fosse «semplicemente sbagliato» che una «alta un metro e novantatré, con mani grandi, che ha attraversato la pubertà maschile, stravinca nell’NCAA». Jenner ha descritto il corpodella nuotatrice sottolineando tutti i suoi attributi fisici, come si fa per gli impostori nelle fiabe, che hanno le mani grandi grandi, le gambe lunghe lunghe e i denti appuntiti per mangiare. Ne ha parlato come se non fosse mai vissuta una donna alta nella storia dell’umanità, come se fosse l’ampiezza dei suoi palmi a definire il suo posto nel mondo. Tra l’altro, l’altezza di Thomas in realtà è di un metro e ottantacinque, quasi dieci centimetri in meno rispetto a quelli che le attribuiscono i suoi detrattori. Magari è un errore in buona fede. O forse, come per le fiabe tramandate per via orale, si possono cambiare delle piccole cose per rendere una storia più interessante.

L’interesse morboso sull’aspetto delle atlete trans è solo l’ennesima manifestazione di come si continui a limitare, definire e strumentalizzare il corpo delle donne. I toni allarmistici con cui si descrivono gli sporadici successi, o i rischi di possibili infortuni e pericoli per le avversarie,puntano a promuovere un’agenda fobica che vuole spingere ai margini più distanti le persone che reputa non conformi. Quando si parla di atlete trans, non si parla mai solo di risultati (anche perché, come detto, non ci sarebbe molto da dire). Si parla di bagni, spogliatoi, luoghi vulnerabili dove, si dice, chiunque può infiltrarsi semplicemente fingendosi donna.

Paula Scanlan, compagna di squadra di Thomas alla UPenn, ha fatto di questo aspetto la sua battaglia principale. L’ex nuotatrice NCAA ha parlato della sua esperienza di fronte alla commissione Giustizia alla Camera degli Stati Uniti: «Io e le mie compagne eravamo costrette a svestirci diciotto volte a settimana in presenza di Lia, una persona biologicamente uomo, alta un metro e novantatré e con genitali maschili in bella vista». Scanlan è stata violentata quando aveva sedici anni in un bagno e ha detto che la presenza di Thomas negli spogliatoi le ha fatto venire gli incubi per settimane. In un’intervista al New York Post, ha ammesso che la compagna «non è mai stata un pericolo concreto, ma quello che mi fa più paura è quello che stiamo incentivando come società se permettiamo questa cosa. Stiamo invitando qualunque uomo con cattive intenzioni a entrare».

Non è un caso che i discorsi sugli uomini trans che praticano sport abbiano toni molto diversi: non sono mai percepiti come una minaccia alle opportunità o alla sicurezza, nonostante si siano dimostrati in grado di essere competitivi con gli uomini cisgender. Questo perché il maschio cis è la misura di tutte le cose. Non ha bisogno di essere salvato, o protetto, in un mondo fatto a sua immagine e somiglianza. Nell’ambito dello sport, questo aspetto è amplificato al massimo. Quasi tutte le discipline atletiche popolari sono pensate per esaltare le caratteristiche del corpo maschile, che rappresenta lo standard. È inconcepibile l’idea che questo predominio possa essere in qualche modo messo in discussione, tanto che il solo criterio preso in considerazione finora nelle varie normative sull’accesso alle competizioni è il livello di testosterone nel sangue.

Al contrario nello sport femminile si mette in discussione il limite di questo presunto vantaggio, nel costante tentativo di stabilire cosa sia una donna e che aspetto abbia. Cosa può e non può fare con il suo corpo. In che misura è quantificabile la sua debolezza e, una volta misurata, quanta paura deve avere di ciò che la circonda. Rispondendo a queste domande si può stilare un elenco di caratteristiche e valori percentuali che rendono una donna tale. Tutto quello che non vi rientra è obbligatoriamente una minaccia, per la sua salute, le opportunità che le sono state concesse, o entrambe le cose.

Nel 2021 il Comitato olimpico ha deciso di affidare alle singole federazioni il compito di stilare i regolamenti riguardanti l’inclusione delle persone trans e intersex. In questa scelta, c’era il tentativo da parte del COI di distanziarsi proprio da quelle politiche che si basavano unicamente sul testosterone. Nel quadro normativo non vincolante rilasciato dal Comitato sull'argomento, si raccomanda alle federazioni di non “precludere o escludere nessun atleta dalle competizioni” sulla base di un “non verificato, presunto o percepito” vantaggio ingiusto che riguardi “variazioni sessuali, aspetto fisico o identità transgender”. Il risultato, finora, in alcuni casi è stato opposto a quello sperato: le donne trans sono state escluse da alcune federazioni, che permettono la partecipazione solo ad atlete che abbiano iniziato il percorso di transizione di genere prima della pubertà. Tra queste, figurano World Athletics, World Aquatics, World Rugby e Union Cycliste Internationale.

Lia Thomas ora è tornata a godersi il suo tempo in acqua, come quando era bambina. Il nuoto è un aspetto fondamentale della sua vita da quando ha memoria. Da piccola, era indescrivibile la sensazione di gioia che provava, «di essere attiva, di muovermi e di farlo in acqua, insieme ai miei amici e compagni. È stata un’esperienza incredibile che mi ha aiutato come persona». Ripensarci la rende malinconica. Non tanto per se stessa, ma per tutti i bambini e le bambine trans che non possono giocare, imparare, muoversi, crescere, fare amicizia, sognare, galleggiare. O almeno, non possono farlo come vorrebbero e per quello che sono. A lungo si è sentita in colpa per come è stata strumentalizzata la sua storia e dei risvolti che ne sono conseguiti. Poi – e questo forse ha aiutato – ha capito che «stavano solo aspettando che una donna trans vincesse qualcosa per far partire l’attacco».

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