Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Becky Hammon è pronta per la NBA
13 gen 2021
Aver allenato la partita contro i Lakers è stato solo il primo passo.
(articolo)
14 min
Dark mode
(ON)

Quando lo scorso 30 dicembre, a metà del secondo quarto della partita contro i Los Angeles Lakers, Becky Hammon ha preso in mano le redini della panchina dei San Antonio Spurs, diventando di fatto la prima donna ad allenare una squadra NBA, nessuno avrebbe dovuto stupirsi. Lo stesso Gregg Popovich, una volta esibitosi nella sua classica espulsione di inizio stagione per mandare un messaggio ai suoi giocatori, si è voltato con naturalezza verso Hammon e le ha detto: «Te ne occupi tu».

Chi conosceva la carriera di Becky Hammon già sapeva che era solo una questione di tempo. Forse per questo nella sua prima dichiarazione post-partita Hammon si stupiva più che altro per il campo in cui le era capitata l’occasione (e dove gli Spurs hanno dovuto cedere contro i campioni in carica per 121 a 107): «Stasera non sono entrata nel palazzetto pensando che avrei guidato la squadra, ma a volte è così che vanno le cose. Più di ogni altra cosa, stanotte avrei voluto una vittoria».

Un successo sui Lakers sarebbe stato importante non solo perché è questo che viene chiesto a ogni allenatore, ma anche per zittire qualche pregiudizio che dal 2013 circonda la sua posizione come assistente di Gregg Popovich. A fronte del grande giubilo con cui è stata accolta dai media la notizia, Hammon ha gli occhi puntati addosso non solo in senso buono, o su un piano sportivo, ma anche su quello sociale, e sa anche che l’unico modo possibile per zittire le malelingue in un mondo a grande maggioranza maschile come quello della NBA è portare a casa il risultato. Non ci sono sconti per allenatori ben più accreditati di lei, figuriamoci per una donna che cerca di uscire dal tracciato. Per una donna, cioè, che da sette anni a questa parte si è intestardita a voler allenare una squadra NBA.

«Ovviamente è una cosa importantissima, è stato un momento considerevole», ha dichiarato ancora dopo la partita, a una giornalista di Sports Tonight che proprio non ce l’ha fatta a soprassedere sul fatto che quella sera rappresentava anche un evento storico, l’ennesima “prima volta” di una donna. Hammon, tesa in volto per la sconfitta, ha risposto con la solita professionalità e controllo, facendo capire fra le righe che quel primato in realtà affonda le sue radici in una storia che è lunga quasi come quella della sua vita. Una vita sintetizzata in una frase: «Sono arrivata a San Antonio con uno scambio nel 2007, quando giocavo nella WNBA, e quindi fra gli Spurs e le Stars sono a San Antonio ormai da 13 anni. Ci ho investito un sacco di tempo, e loro hanno investito un sacco di tempo in me, nel formarmi e nel migliorarmi».

Il momento più condiviso dai media - quello in cui Pop la indica ed esce dal campo, lasciandola alla guida di una delle squadre più vincenti degli ultimi 20 anni di NBA - è stato solo l’atto conclusivo di una lunga carriera cestistica, che comincia a Colorado State nel 1995.

Come Becky Hammon è arrivata qui

Nella sua vita precedente da cestista Becky Hammon ha sempre dovuto confrontarsi con un dato fondamentale: la sua altezza. Non tanto perché i suoi 166 centimetri, in uno sport in cui essere anche poco più alto degli altri può essere un vantaggio notevole, l’abbiano relegata alla categoria delle giocatrici troppo basse per essere competitive, più che altro perché per ovviare al suo limite fisico ha sviluppato la sua cifra stilistica, imparando a tirare sempre al limite dell’equilibrio.

«Dovevo imparare a giocare a basket in una certa maniera perché non ero più alta, non ero più potente, non potevo saltare più in alto», ha detto una volta sulla sua formazione. «Nessun maschio vuole che una femmina gli faccia canestro in faccia, così ho imparato a tirare dagli angoli più strani, a diventare creativa».

Da giocatrice Becky Hammon era nota nell’ambiente del basket internazionale proprio per la sua creatività. Non c’è canestro né traguardo nella sua vita che non sia giunto passando attraverso percorsi alternativi, vie secondarie che nessun altro sportivo affermato si sarebbe sognato di percorrere. Ed è proprio questo il suo maggior pregio: saper mettere da parte il proprio ego e rimanere in attesa paziente che arrivi il momento opportuno per brillare.

La sua carriera in WNBA non è iniziata esattamente sotto i migliori auspici. Dopo un quadriennio di maturazione sportiva al college di Colorado State, nel giorno dei Draft del 1999 non venne selezionata da nessuna squadra WNBA: a quanto pare ritenevano tutti che le sue doti tecniche non potessero sopperire a una corporatura lontanissima da quella esplosiva e potente delle giocatrici simbolo della WNBA di quegli anni, da Lisa Leslie a Sheryl Swoops fino a Rebecca Lobo. A quel tempo la lega professionistica di basket femminile appena nata vedeva primeggiare le Houston Comets, una squadra che aveva fondato i propri quattro titoli consecutivi (dal 1997 al 2000) su un roster di un grande talento tecnico ma soprattutto con atletismo, muscoli e centimetri.

L’opportunità per Hammon di entrare a far parte della lega di basket più importante del mondo è dovuta passare dalla porta secondaria. Nel 1999 le New York Liberty le offrirono un contratto da 25.000 dollari alla fine di un Summer Camp in cui si era guadagnata la fiducia del coach Richie Adubato, che a posteriori avrebbe detto: «La sua altezza non ha mai avuto nessuna importanza: quando andava a canestro non importava chi ci fosse dentro l’area. Non credo che nessuno l’abbia mai stoppata in quattro anni».

Basta guardare una qualsiasi conclusione al ferro di Becky Hammon per capire come mai una giocatrice così minuta sia riuscita a giocare contro avversarie ben più strutturate di lei, grazie a delle parabole inusuali che probabilmente aveva affinato nelle lunghe partitelle notturne giocate da bambina con il fratello e gli amici maschi.

Ed è sempre a New York che ha iniziato a prendere forma il carattere da leader che l’ha contraddistinta prima in campo e poi come allenatrice. Nonostante la presenza ingombrante di Teresa Weatherspoon, una guardia ricordata da tutti gli amanti del basket come l’autrice di The Shot (il tiro sulla sirena con cui ha deciso Gara 3 delle Finals, nel 1999), Hammon riuscì a trovare la sua dimensione fra le stelle della WNBA migliorando costantemente. All’inizio si ritagliò un ruolo limando fino allo sfinimento la capacità di portare palla con velocità e distribuire assist per le compagne. In allenamento si affiancava a Weatherspoon e imparava da lei tutti i trucchi del mestiere, mentre scopriva, a poco a poco, di avere un notevole ascendente presso le sue compagne di squadra, che andava ben oltre il suo ruolo di playmaker. Hammon era una giocatrice intelligente e simpatica con accezione classica, nel senso che riusciva a intercettare i sentimenti delle compagne e della panchina prima degli altri.

Nel giro di poco tempo divenne il tramite fra coach Adubato e le sue compagne, mettendo ordine sul rettangolo di gioco e soddisfando le necessità di tutti. Più che i suoi 166 centimetri, il contenitore del suo talento era la sua testa. In questo senso, nella Becky Hammon giocatrice era possibile intravedere la versione zero della prima donna che avrebbe guidato una squadra NBA in una gara ufficiale.

Quando all’inizio della stagione 2013-14 Gregg Popovich ha dichiarato di aver assunto Becky Hammon ha preferito farlo senza sottolineare la novità, il fatto che una donna finalmente avesse accesso a un mondo esclusivamente maschile. Dopo essere stato insistentemente interrogato al riguardo, però, Pop ha posto l’accento sull’intelligenza e l’esperienza pluriennale di Hammon in WNBA e in Europa, nonché sulla sua capacità innata di capire molto prima degli altri che direzione sta prendendo il gioco.

Tra USA e Russia

Al suo arrivo alle San Antonio Stars, Becky Hammon firmò un contratto da 95.000 dollari l’anno, in quella stagione uno degli stipendi più alti della lega. La WNBA sembrava finalmente essere uscita dall’incertezza finanziaria con la quale aveva convissuto sin dai primi giorni della sua fondazione, eppure i salari non erano ancora così alti da consentire alle giocatrici loro di partecipare a un solo campionato l’anno, per riposarsi duranti i mesi di off-season.

Come di consuetudine nel basket femminile americano, in quella stagione invernale Becky Hammon firmò un contratto per due milioni di dollari con il CSKA Mosca, un accordo di quattro anni che prevedeva anche una possibile naturalizzazione russa in vista delle Olimpiadi di Pechino del 2008. Anne Donovan, allenatrice di Team USA, non l’aveva nemmeno invitata al primo raduno di prova in preparazione dei Giochi ormai prossimi, mentre Igor Grudin, direttore sportivo del CSKA Mosca, era anche allenatore della nazionale femminile russa, e non ci pensò due volte: fece preparare i documenti e con una firma sola consegnò a Hammon un quadriennale a Mosca, due milioni di dollari e un posto in una squadra olimpica con ambizioni di medaglia.

Nel 2007 le tensioni da Guerra Fredda fra Russia e Stati Uniti non erano più attuali da tempo, tuttavia le critiche che seguirono la decisione di Hammon furono molto dure. La stessa Anne Donovan affermò: «Se vivi in questa Nazione, se giochi in questa nazione e sei nata nel cuore di questa nazione ma poi indossi un’uniforme russa, non sei una persona patriottica», dimenticandosi forse di essere il vero motivo per il quale Hammon aveva compiuto quella scelta. Lei come al solito non si scompose, rispose con eleganza alle critiche sostenendo di sentirsi molto americana, ma di non aver avuto una vera e propria alternativa se non passare a quello che tutti definivano “il nemico”.

Messe da parte le schermaglie mediatiche, in campo arrivò a conquistare la medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 2008 dopo aver perso in semifinale proprio contro le sue connazionali. Alla fine di quella partita Lisa Leslie, la leggendaria prima donna ad aver schiacciato in WNBA, uscì dal campo senza stringerle la mano; quando durante la premiazione venne intonato l’inno americano, Becky lo cantò con le altre giocatrici americane pur essendo sul gradino più basso del podio e con una maglia diversa.

Quattro anni dopo, nell’edizione olimpica del 2012, i Giochi per hammon finiscono prima di arrivare in zona medaglie, ma la sua trasferta londinese si sarebbe rivelata la svolta della sua vita: mentre era seduta al gate dell’aeroporto, in attesa del suo volo per San Antonio, si accorse che fra i passeggeri che stavano per imbarcarsi c’era anche Gregg Popovich. Hammon era arrivata alle San Antonio Stars cinque anni prima, ma i due non si erano mai conosciuti di persona, e in quell’occasione fecero in modo di sedersi vicini in aereo.

Durante quel viaggio non parlarono mai di sport, ma in perfetta linea con i costumi di Pop discussero di vino, di cucina, e soprattutto dell’argomento che avevano in comune oltre al basket: la Russia. Popovich aveva trascorso parte della sua carriera militare nei paesi sovietici e si divertiva sempre a parlare di quegli anni e dei posti che anche Hammon, ormai, conosceva molto bene. In dirittura d’arrivo accadde qualcosa di sorprendente: prima dell’atterraggio Pop a un certo punto le chiese se, nel caso in cui fosse stata sua assistente, le avrebbe detto la verità. «Non saprei per quale motivo dovresti farmi una domanda», rispose Hammon, «se non per sapere la verità». «Bene», replicò lui con la consueta delicatezza, «perché non me ne faccio niente di una manica di Yes Men».

Durante una partita di campionato con le Stars, la stagione successiva, Becky Hammon si ruppe il legamento crociato per la seconda volta in carriera. I lunghi tempi di recupero la costrinsero a rimanere a San Antonio anche durante l’inverno e quella fu l’occasione, per Popovich, di riaprire il discorso, invitandola a una sorta di tirocinio in via ufficiosa nel suo team di assistenti.

Hammon partecipò agli allenamenti, alle sedute video e durante le partite in casa era sempre seduta dietro la panchina degli Spurs. I giocatori della squadra le diedero supporto, aprendosi ai suoi consigli e godendo di un nuovo equilibrio fra Hammon (che per indole è portata a cercare un rapporto personale con i giocatori) e Popovich, che non bada a sottigliezze. Il connubio funzionò e i San Antonio Spurs coronarono una grande stagione con il loro quinto titolo NBA.

L’inserimento di Hammon in squadra l’anno successivo divenne un evento naturale. «Sono sicuro che la sua intelligenza cestistica, la sua etica del lavoro e le sue competenze interpersonali saranno di gran beneficio agli Spurs», dichiarò Pop in occasione della presentazione ufficiale. Ma Hammon era pur sempre una donna - seppur non la prima in assoluto a ricoprire quel ruolo, visto che prima di lei c’era stata Lisa Boyer, che nel 2001-02 ai Cleveland Cavaliers aveva lavorato come assistente di John Lucas, ma part-time e non pagata - e per questo la notizia cominciò a circolare insistentemente.

«Onestamente non credo che a Pop importi molto del fatto che sono una donna», avrebbe ripetuto più volte Hammon. «Io sono stata assunta perché sono capace».

Le altre volte in cui Hammon ha guidato la squadra

Hammon negli anni è rimasta fedele al fianco del suo mentore, uno dei tanti rami del gigantesco coaching tree di Popovich, e negli anni è andata spesso vicina a diventare la prima capo-allenatrice donna su una panchina NBA, facendo diversi colloqui con alcune squadre interessate.

La partita contro i Lakers non è stata neanche la prima volta in cui Hammon ha gestito gli Spurs da sola in panchina: nel 2015 guidò per 10 giorni la squadra selezionata per la Summer League alla vittoria nel torneo estivo che si tiene ormai tradizionalmente a Las Vegas.

Dopo essersi laureata campione (con la vittoria per 90-93 sui Phoenix Suns) ha affermato che i ragazzi l’avevano ascoltata e avevano giocato duro per lei, facendo del risultato di nuovo una questione di legame fra squadra e coach. In uno dei momenti cruciali della partita Hammon aveva chiamato un time out e strigliato i suoi, invitandoli a non essere «troppo carini.

Ecco un raro esempio di una donna nel mondo dello sport che parla con decisione mentre un gruppo di uomini la ascolta in silenzio e con attenzione.

Come ogni discepolo che si rispetti, prima di diventare migliore del maestro è necessario ottenere la benedizione di chi ci ha insegnato tutto. Prima di quella Summer League vittoriosa del 2015, Becky Hammon aveva chiesto consiglio a Popovich, che le aveva risposto: «Sii te stessa, non cercare di essere me». Negli ultimi sei anni Hammon è rimasta lontana dai riflettori, ma ogni volta che ha dovuto dimostrare di essere maturata lo ha fatto, ripagando chi ha scommesso su di lei, chi ha creduto nel suo talento in tempi in cui le donne in NBA erano solo presenze relegate alle amministrazioni.

La domanda che ha fatto seguito alla partita contro i Lakers è stata modulata in diverse versioni, ma all’incirca può essere sintetizzata così: e adesso chi sarà abbastanza coraggioso in NBA da offrire una posizione da capo-allenatrice a Becky Hammon? Perché le richieste, sia in WNBA che a livello collegiale, sia maschile che femminile, non sono mai mancate, ma dopo sei anni a San Antonio lo scopo di Hammon non può essere che quello di allenare una squadra NBA. Per chiudere il cerchio con il primo giorno in cui ha messo piede dentro all’AT&T Arena con il legamento crociato rotto, avendo imparato tutto ciò che poteva da Pop e andando poi per la sua strada.

Per ora Hammon sta ancora aspettando di capire quale sarà il prossimo capitolo. A settembre del 2020 è stata invitata dagli Indiana Pacers per un colloquio, ma alla fine il posto è stato affidato a Nate Bjorkgren, ex assistente dei Toronto Raptors. Ancora prima si può ricordare il colloquio del 2018 con i Milwaukee Bucks, anche se poi ESPN aveva riportato la notizia che Hammon non era considerata come una candidata di prima linea. Uno dei vantaggi del movimento mediatico dovuto alla partita con i Lakers sarà quello di infondere ulteriore credibilità in una allenatrice che ha nel curriculum sedici stagioni in WNBA e due Olimpiadi come giocatrice e altre sei in NBA come vice-allenatrice.

C’è qualcosa però che stona con l’entusiasmo delle ultime settimane, e non parlo di quella fetta di appassionati che ha provato a sminuire l’evento, il tabù abbattuto. Siamo nella fase iniziale di riconoscimento di ciò che le donne possono e sanno fare nello sport, e ogni grande cambiamento necessita di un tempo di sorpresa seguito da uno di adeguamento. Non è la reazione del grande pubblico che fa venire i dubbi, piuttosto la constatazione che anche nel mondo dello sport professionistico la notizia di Hammon è stata accolta con sorpresa. Perché finché c’è sorpresa tra i professionisti significa che c’è ancora bisogno di parlare di un possibile gap fra le capacità di un uomo e quelle di donna nella gestione di una squadra maschile.

«Per me non è una grossa sorpresa. Per un sacco di altre persone ha un grande significato e posso capirlo. Ma lei è una persona molto qualificata e che può eseguire molto facilmente i compiti di capo allenatore in NBA. Non serve nemmeno dirlo», ha commentato Popovich nei giorni seguenti. E poi ha aggiunto: «Le donne fanno il loro lavoro altrettanto bene o anche meglio degli uomini. Questo è un fatto. Non c’è nessun motivo per cui qualcuno come Becky e altre donne non dovrebbero essere allenatrici in NBA. Su larga scala è per questo che per me non è un fatto così importante».

La cosa interessante non è tanto il fatto che Popovich desse per scontato che Becky Hammon sarebbe stata in grado di gestire la sua squadra, quanto piuttosto quello che desse per scontato che lo sapessero pure tutti gli altri. E invece la strada è ancora lunga, quella che può ancora compiere Hammon e quella che separa le donne con le sue stesse capacità, i suoi stessi desideri, dal raggiungere questi stessi obiettivi.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura