La Nazionale belga esiste solo a livello puramente geografico, se così si può dire. Il Belgio è infatti una squadra che rappresenta in realtà due nazioni diverse e spesso contrapposte: quella vallona e quella fiamminga. Il Belgio è puro surrealismo alla René Magritte. Il pittore di Lessines è stato tra i pochi capaci di posizionare il suo paese sul mappamondo, quantomeno prima dell'arrivo di Eden Hazard, Kevin De Bruyne e Romelu Lukaku. La nazionale di Martinez è stata una delle poche entità capace di fondere queste due miserie in un corpo solo, come avrebbe detto Giorgio Gaber, smussando gli spigoli e diluendo i differenti riferimenti identitari. Gli altri si contano sulle dita di una mano: Eddy Merckx, George Prosper Remi “Hergè”, Pierre Culliford “Peyo” e Leo Baekeland. Escludendo il "Cannibale", la fama dei citati personaggi si trova riflessa nelle loro creazioni: la bachelite, Tin Tin e i Puffi.
I fumetti sono una perfetta rappresentazione in miniatura di ciò che è il Belgio. Camminando a Bruxelles lungo Rue des Sables/Zabelstraat si incrocia uno splendido edificio in stile Art Nouveau realizzato dall'architetto Victor Horta per ospitare i grandi magazzini di tessuti Waucquez, ma da anni riconvertito nella sede del Centro belga del fumetto. Attenzione ai dettagli: non è il Centro del fumetto belga, ma il Centro belga del fumetto. Una scelta non casuale, perché il fumetto belga, di fatto, non esiste. Ci sono due tradizioni, una fiamminga e una francofona, diverse per stile, approccio e sviluppo (un piccolo esempio: la prima è cresciuta attraverso le strip sui quotidiani, la seconda tramite le riviste di settore), con pochi punti in comune. Un po' come il Belgio stesso, d'altra parte. Mentre il fumetto di lingua francese è riconosciuto a livello internazionale, travalicando anche i confini dell'arte sequenziale (per il film su Tin Tin si è scomodata la coppia Steven Spielberg-Peter Jackson, mentre i Puffi sono già al terzo lungometraggio negli ultimi dieci anni, senza dimenticare la mini serie tv XIII con Val Kilmer e Stephen Dorff), quello fiammingo rimane confinato a livello locale. I prodotti più noti, Bessy e Suske en Wiske, hanno fatto sfracelli in Olanda e lì sono rimasti, con sporadici sconfinamenti che non hanno spostato nulla a livello di eco.
Anche in questo caso risulta evidente il parallelo con il Belgio. A livello politico la comunità più attenta all’identità locale è quella fiamminga: nelle Fiandre ci sono due partiti nazionalisti, uno dei quali, il Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), è il più votato in tutto il paese. In Vallonia per contro è più forte la vocazione unitaria, basti pensare che l'unico partito populista presente, il Parti Populaire (PP), è ben lontano dal raggiungere il 2% delle preferenze a livello nazionale. Non è un caso che alla vigilia del Mondiale in Brasile i partiti francofoni tentarono in ogni modo di associare sfruttare la popolarità della Nazionale, qualcosa che era facilmente associabile all'unità nazionale. Ma se l'impatto della Nazionale sui destini elettorali di questi partiti è stato in realtà irrilevante, a livello culturale e sociale si sono visti risultati interessanti. Il Belgio non è mai stato così unito come nell'era dei CT Marc Wilmots e Roberto Martinez. Un’unità che non rappresenta solo la logica conseguenza del principio universale “squadra vincente = più tifosi”, ma qualcosa di più profondo, radicato alla cultura popolare belga.
Foto di Peter Kovalev/TASS/Sipa USA
Il Belgio ha sempre sofferto del complesso di inferiorità. Il politologo e docente universitario Jean-Michel De Waele ha individuato nello sport uno degli ambiti nei quali tale complesso si è manifestato maggiormente. «Per decenni gli atleti belgi che sfondavano a livello internazionale sono stati accomunati da una caratteristica: la modestia. Erano i primi a riconoscerlo durante le interviste con la stampa estera. Ma come puoi essere un atleta di alto livello e aspirare al top se consideri la modestia quale tua qualità principale?». A livello calcistico, la storia del Belgio è la storia di un complesso di inferiorità latente, soprattutto nei confronti dell’Olanda, i vicini di casa che hanno saputo rivoluzionare il calcio attraverso la creazione di uno stile unico, riconoscibile e riconosciuto. I momenti di gloria del calcio belga possono essere suddivisi in due categorie: quelli ottenuti all’ombra del calcio oranje, e quelli di valore puramente locale. Appartengono al primo filone tutti i successi dei club a livello europeo: l’Anderlecht anni ‘70 che mise in bacheca quattro trofei internazionali in tre stagioni, soprannominato Nederlecht per la forte componente olandese in squadra, sublimata da un Rob Rensenbrink votato miglior straniero di sempre del campionato belga; il Mechelen di fine anni 80, guidato da un olandese ed entrato nella storia grazie al gol di un’olandese (Piet den Boer, che decise la finale della Coppa delle Coppe 87/88 contro l’Ajax); il Brugge finalista della Coppa Campioni 77/78, sulla cui panchina sedeva Ernst Happel, tecnico austriaco formatosi sulle panchine olandesi di ADO Den Haag e Feyenoord (con questi vinse la Coppa Campioni, un anno prima dell’Ajax di Rinus Michels).
Per contro, la nazionale seconda agli Europei del 1980 e quarta al Mondiale ’86 è una questione privata tra i belgi, che non ha lasciato alcun segno a livello internazionale. Era un Belgio chiuso a doppia mandata, fisico e combattivo, costruito sul pragmatismo di un grande tecnico quale Guy Thijs, non a caso l’allenatore del secolo a Bruxelles e dintorni. Ma chi lo incrociava senza esserne tifoso, non ne usciva arricchito. Non inganni il 4-3 rifilato all’URSS di Lobanovski agli ottavi di Mexico ’86: i Diavoli Rossi ci arrivarono come miglior terza, e in seguito raggiungeranno le semifinali dopo aver eliminato la Spagna ai rigori. Nel loro calcio non c’era né rivoluzione né evoluzione, solo applicazione.
Il Belgio degli anni Dieci del nuovo millennio è un’altra cosa. Non solo in campo, dove in ogni caso l’unica concessione alla tradizione calcistica del proprio paese è (stata) la linea difensiva schierata con quattro centrali. È cambiata l'essenza. Per la prima volta il calcio dei "Diavoli Rossi" è l’espressione di un processo sviluppato interamente al proprio interno, ma che risulta riconoscibile e rilevante (come testimoniato dal primo posto nel ranking FIFA) anche a livello internazionale. Addirittura ammirato per la qualità dei propri interpreti e il sistema elaborato per rifondare completamente un intero movimento calcistico. Ci sono elementi della scuola francese (i Centri di Formazione) mischiati con quelli della scuola olandese (il 4-3-3 modulo unico adottato a qualsiasi livello), ma si tratta di influenze filtrate e riproposte seguendo un percorso che appartiene solo a loro. Non c’è nulla di più simbolico di un terzo posto Mondiale ottenuto nel medesimo torneo in cui l’ingombrante vicino di casa olandese era assente.
In un articolo intitolato "Total Farce" e pubblicato dal magazine FourFourTwo, l’autore del fondamentale libro Brilliant Oranje, David Winner, individuava proprio nel termine “brilliant” la parola chiave per definire il passaggio di testimone tra i due paesi. «Per decenni l’Olanda ha deriso il Belgio per il proprio calcio ottuso e privo di brillantezza, salvo ritrovarsi nell’inedita posizione di guardare oltre confine con soggezione e invidia, domandandosi perché tra i loro giocatori non ci fosse traccia di un Eden Hazard o di un Kevin De Bruyne». La nuova dimensione nella quale si è trovato catapultato il calcio belga ha prodotto effetti anche sui tifosi belgi, dotandoli di una nuova consapevolezza: se nell’86 festeggiavano il quarto posto in Messico con lo stupore di chi aveva compiuto l’impresa della propria vita, nel 2018 celebravano il terzo posto con l’amaro in bocca per non aver ottenuto di più. Il Belgio non aveva vinto, ma non si sentiva inferiore a nessuno. Non era inferiore a nessuno.
C’è un’altra componente dell’attuale nazionale belga che rappresenta un netto punto di rottura con il passato e si riflette sulla società: la composizione della rosa. Nel 1986, 16 dei 22 giocatori al Mondiale erano di lingua fiamminga, i rimanenti di lingua francese. Nel 2002 il rapporto Nederlandstalig-Franstalig era di 14 a 7, a cui si aggiungeva un naturalizzato (Branko Strupar). Nel 2018 si è arrivati a 12 contro 11, ma soprattutto c’erano 11 giocatori che, pur nati in Belgio, possedevano un doppio passaporto. United Colors of Belgium era il titolo con il quale nel 2008 la rivista Sport/Voetbalmagazine (o Sport/Footmagazine se si opta per la versione francese: stessa testata registrata ma lingua, copertina e contenuti diversi) salutava la bella esperienza a Pechino 2008 della nazionale olimpica belga, arrivata a un soffio dalla medaglia. Erano i primi fermenti di un movimento ancora acerbo eppure vitale, come fu chiaro nel quarto di finale che vide il Belgio, con in squadra i futuri nazionali Vertonghen, Vermaelen, Demebele e Mirallas, battere l’Italia per 3-2.
Non tutti gradirono il titolo della rivista, considerato provocatorio. Nulla comunque a confronto di uno studio pubblicato dieci anni prima dall’Università di Bruxelles. Due storici si chiedevano se, in una terra così polarizzata da antiche divisioni, gli ultimi belgi rimasti non fossero gli immigrati. Sbarcati in massa negli anni ’80, i migranti hanno costretto la società belga a confrontarsi con il proprio lato oscuro, rappresentato dal brutale periodo coloniale sotto la guida di Re Leopoldo II. A differenza di luoghi come Parigi, dove i quartieri poveri sono allocati nelle periferie, in molte città del Belgio questi si trovano in una posizione molto più centrale. Ciò significa contatti quotidiani con la popolazione locale e impossibilità, da parte di quest’ultima, di ignorare i nuovi arrivati. Nel corso degli anni, l’identità di queste persone si è cementata in un nuovo patriottismo che ha assunto il nome di Belgitudine. L’antropologo Johan Leman descrive così il concetto: “Le nostre divisioni tra fiamminghi e valloni sono divisioni interne, riguardano solo noi. Queste persone sono arrivate da fuori, possiedono un diverso background e non sono particolarmente interessate a queste discussioni. Anzi, si chiedono: il paese è bello, il sistema funziona, perché volete distruggerlo?”. La nazionale è contemporaneamente il prodotto e il principale elemento catalizzatore di questa Belgitudine, con i suoi giocatori dotati di una dimensione internazionale sconosciuta ai loro predecessori. Giocano la Champions League, sono protagonisti nei principali tornei europei e vivono la realtà del proprio paese in modo diverso rispetto al passato. Basti pensare che nel 1986 solo due "Diavoli Rossi", Eric Gerets e Jean-Marie Pfaff, militavano in un campionato straniero.
Il calcio, insomma, ha donato un’identità a un paese che non l’ha mai avuta, se non conflittuale. Il Belgio è quello che rimane, è il resto di una divisione aritmetica. Una frase criptica, ma che in qualche modo riesce ad andare al cuore del problema. Lo ha spiegato meglio il giornalista sportivo Raf Willems, andando alle origini della creazione dello Stato, un coacervo di ducati, città e vescovati racchiusi tra i confini del Regno di Francia e della Prussia, che dopo la battaglia di Waterloo del 1815 le élite europee decisero di unire forzatamente con le province nord nel Regno Unito dei Paesi Bassi. Durò solo quindici anni, prima della scissione per motivi religiosi. «Tutto ciò che non era Olanda, Francia o Europa Germanica», afferma Willems, «è diventato Belgio, prendendo il nome da una tribù di Celti sconfitta da Giulio Cesare. Fin dall’inizio è stato un continuo mutamento, un compromesso, regioni che non erano comunità contro comunità che non erano regioni, fino ad arrivare agli attuali cinque parlamenti e ad uno stato che molti non considerano bilingue, ma doppiamente monolingue. Puro surrealismo».
Non esistendo un belga tipico (che lingua parlerebbe? Che aspetto avrebbe?), è difficile non considerare Vincent Kompany o Marouane Fellaini dei veri belgi e non sentirsi rappresentati da loro. Una fluidità rintracciabile a ogni livello: il Belgio ha avuto un premier, Elio Di Rupo (Partito Socialista francofono), figlio di migranti italiani, e un segretario di stato, Zuhal Demir (N-VA, destra fiamminga), dalle radici curde. Ma è stata la nazionale dell’ultima decennio ad aver consolidato questo processo, andando oltre il concetto del calcio quale elemento unificatore, assieme alla monarchia, del paese. Perché le divisioni ci sono sempre state anche nel mondo del pallone.
Foto di Maksim Konstantinov / SOPA
Oggi però De Bruyne, Courtouis, Lukaku, Witsel e i fratelli Hazard sono amati in tutto il paese senza alcuna distinzione. Ci sono luoghi come Lennink, paese fiammingo dove nel 2008 il sindaco fece togliere dal municipio il tricolore belga per sostituirlo con il leone delle Fiandre, che prima dei Mondiali in Francia si sono ritrovati dipinti di rosso, giallo e nero: nelle piazze, nei negozi e persino nella sede dell’amministrazione comunale, con la bandiera belga tornata accanto al leone. Un fenomeno ripetutosi per i tre grandi tornei ai quali il Belgio ha finora preso parte, nonostante in due casi su tre (Mondiale 2014, Europeo 2016), i risultati sportivi non siano stati all’altezza delle aspettative, rispettando la profezia di Arrigo Sacchi, che una volta disse, riferendosi alla nazionale tornata in Brasile dodici anni dopo l’ultimo mondiale disputato: “Il Belgio non conosce l’arte della vittoria perché non ha mai avuta esperienza della vittoria”. La bacheca è tuttora ferma alla medaglia d’oro delle Olimpiadi di Anversa del 1920.
Il processo innescato va però oltre. Perché la Nazionale è diventata una fonte di identità, orgoglio e ambizione come non ce n'è in Belgio. Forse hanno ragione i politologi quando affermano che non saranno i gol di Lukaku a tenere unito il paese. Per lo meno, però, quei gol hanno dato almeno la sensazione temporanea di un paese unito, di un'identità nuova. E in Belgio già solo questo è un miracolo.