I suoi occhi sono infantili e pieni di richieste, di voglia di essere rassicurato, quando chiede al suo intervistatore: «E tu ci credi?», che faccia ancora in tempo a entrare nella storia; oppure: «Ti piacerebbe?», se restasse un altro anno in Ligue 1, nel campionato francese in cui è appena rinato. Quando poi riflette sullo spreco che sarebbe stato, se non fosse tornato a giocare ad alti livelli, il suo sguardo si incupisce e le sopracciglia si piegano a V. «Avevi così tanto talento, avresti potuto fare di più… so che mi avrebbero detto cose del genere. E non avrei potuto accettarlo». L’intervistatore lo interrompe per ricordargli che, in realtà, quelle sono cose che si dicono comunque di lui. Il sorriso dell’intervistatore dell’Equipe è una tazza di compassione con un pizzico di sadismo sciolto dentro. «Lo so, è normale. Le diranno finché non arrivo in alto. So quanta strada mi manca da fare e do appuntamento a tutti tra qualche anno». Pensi ancora al Pallone d’Oro? - adesso sembra semplicemente che l’intervistatore lo stia prendendo per il culo. «Ci penserò finché giocherò a calcio».
Era il 2016 e Hatem Ben Arfa contro ogni pronostico stava vivendo la sua migliore stagione di sempre a ventinove anni: 17 gol e 6 assist. Il Nizza stava lottando per la Champions League, si diceva di Una Grande pronta ad accogliere Ben Arfa a fine stagione e tutti lo volevano tra i convocati per l’Europeo che la Francia avrebbe ospitato quella stessa estate. Un anno prima era rimasto senza squadra, dopo che il prestito con l’Hull City era andato male – nell’ultima partita i dati dicevano che aveva coperto meno campo del portiere – e il Newcastle non aveva voluto più saperne di lui. Era stato, per usare parole sue, un inferno. Avrebbe potuto andare in Cina, ma sarebbe stato come arrendersi, considerare finita la sua carriera, invece ha aspettato sei mesi e alla fine Nizza l’ha ripagato (o lui ha ripagato Nizza della fiducia, è uguale). E fa tenerezza riguardare l’intervista all’Equipe di quell’anno sapendo quello che sarebbe successo dopo: niente Champions League, niente Europeo (Deschamps lo ha inserito nell’elenco come riserva, ma nessuno dei 23 si è infortunato) e tra tutte le offerte possibili Ben Arfa ha scelto il Paris Saint-Germain, la sua squadra del cuore ma anche il club più ricco e competitivo di Francia, preparando lui stesso il terreno per un nuovo fallimento.
Tutte le interviste di Ben Arfa sono al tempo stesso interessanti e cringe, nel senso più comune della parola, inteso cioè come quel tipo di imbarazzo che si prova guardando il fallimento di un’altra persona che prova a fare o ad apparire qualcosa di troppo lontano da quello che è. Nel caso di Ben Arfa le cose che si sforza di essere, e che non è, sono troppe per essere elencate. Tanto per cominciare, in quella stessa intervista citata dell’Equipe lui inizia dicendo che è contento di aver dimostrato di poter giocare bene con continuità, solo che invece di dire che è diventato «regolare» la sua lingua si ribella e gli fa dire «irregolare». Ben Arfa se ne accorge: «Faccio in continuazione questi lapsus».
Il giorno della presentazione di Parigi, invece, con affianco il presidente Nasser Al-Khelaifi con cui poi litigherà, come prima cosa gli chiedono: «Si dice da sempre che con il talento che hanno i tuoi piedi potresti essere tra i cinque o sei migliori giocatori al mondo. Pensi che il PSG, con la rosa che ha, possa aiutarti a entrare finalmente in quella cerchia di giocatori?». Ben Arfa risponde con serietà glaciale: «Oui bien sûr». La platea di giornalisti, che un attimo prima aveva ringraziato per essere accorsi così numerosi, scoppia a ridere pensando a una battuta. Ma Ben Arfa non è Buster Keaton, il contrasto tra la sua certezza interiore e la nostra idea di lui, che è fonte di ilarità per alcuni, in realtà è un dramma umano vero e proprio.
Quando balbetta, quando non capisce le domande, quando si incastra con delle frasi complicate, cervellotiche, Ben Arfa non lo fa con autoironia; allo stesso modo, quando parla di Pallone d’Oro, ogni volta che ripete che le cose saranno diverse, che «tutto andrà bene, vedrete», come dice nel suo primo giorno da calciatore del PSG, lo pensa veramente. Sembra quasi che abbia dimenticato la sua carriera, che tutti questi anni siano trascorsi invano. E la cosa davvero incredibile è che anche noi cadiamo in questo tipo di incantesimo quando Ben Arfa parla o gioca, ci dimentichiamo che la sua carriera sta finendo. Persino oltre i trent’anni è riuscito a conservare intorno a sé l’aria di uno per cui sia tutto possibile, come se la differenza tra un percorso soddisfacente e uno fallimentare stesse in un altro gol come quello segnato al Bolton. Sappiamo bene che non è così, che non cambierebbe niente in fin dei conti, eppure lo guardiamo nell’attesa che ci regali un momento come quello, anche uno solo. Perché quello che abbiamo visto del migliore Ben Arfa non ci basta.
Dopo qualche mese a Parigi, Ben Arfa aveva tolto il completo nero da James Bond della presentazione e, con degli occhiali da vista che non aveva mai indossato prima, lo sguardo perso nella Senna e la giacca da giovane universitario, in un video autoprodotto e diffuso sui propri account social prometteva – a chi? Ai suoi tifosi? A se stesso? - che avrebbe fatto di tutto per cambiare la situazione, chiedendo indirettamente di giocare più spesso.
Quel video involontariamente ridicolo Ben Arfa l’ha girato nell’aprile del 2017, quindi poco dopo il giorno del suo trentesimo compleanno e poco dopo la remuntada subita dal PSG contro il Barcellona in Champions League, quando a fine partita – se è vero quello che è circolato successivamente - ha detto al suo allenatore, Unai Emery, che non avrebbe mai passato i quarti di finale in vita sua, neanche con la migliore squadra del mondo.
Emery a sua volta aveva dimostrato di non apprezzare lo scarso impegno di Ben Arfa in allenamento, o il suo individualismo – se è vero che durante una sessione lo aveva rimproverato davanti a tutti: «Smettila di crederti Messi. Non sei Messi»; e se è vero anche che una volta Ben Arfa è stato visto mangiare un kebab nel parcheggio del centro sportivo prima di una sessione. Di lì a poco Emery avrebbe smesso di farlo giocare del tutto, al punto che ad aprile 2018 Ben Arfa ha festeggiato un anno dalla sua ultima partita (in cui, tra l’altro, aveva segnato una doppietta).
Tra i ventinove e i trentatré anni Ben Arfa avrebbe giocato veramente solo un’altra stagione, quella 2018-19 con il Rennes (9 gol e 6 assist), in cui si è tolto la duplice soddisfazione di battere (ai rigori) il PSG in finale di Coppa di Francia e (all’andata) l’Arsenal allenato da Emery. Si è vendicato di Nasser Al-Khelaifi dichiarando alle tv francesi che «non devi mai sottovalutare il tuo nemico, altrimenti un giorno quello torna e ti batte» (frase talmente pomposa da diventare anche questa ridicola), e di Emery, passando parte della gara di andata a ridere quando passava vicino alla sua panchina (il Rennes ha vinto quella partita 3-1, ma al ritorno ha perso 3-0 e a ridere per ultimo mi sa che è stato Emery).
Adesso, dopo un altro passaggio a vuoto in Liga, al Valladolid, con appena 5 presenze, Ben Arfa è tornato di nuovo a brillare in un club francese dalle ambizioni modeste, ma dalla grande storia, come il Bordeaux. Considerando che rimarrà sempre il rammarico di non averlo visto giocare al suo meglio in Una Grande, oggi possiamo dire che sia questa la sua “dimensione”, che il vero piacere Ben Arfa lo trova quando è lui ad essere più grande della squadre in cui gioca. Dopo aver firmato un po’ a sorpresa lo scorso ottobre, con uno stato di forma ancora da recuperare a pieno, ha iniziato a lasciare il segno nelle partite. E noi, ovviamente, siamo tornati a tifare per lui, a sperare che possa di nuovo esplodere, come se aspettassimo la partita, o magari la singola azione, che ci permetta di dire che tutto sommato è valsa la pena aspettarlo in questi anni.
La ragione per cui vale la pena seguire Ben Arfa, credere ancora una volta in lui – l’ultima volta? - è proprio quella sensazione di attesa che lo accompagna, l’aspettativa di qualcosa di eccezionale e improvviso che può succedere ogni volta che tocca palla. Nelle ultime tre partite di campionato ha segnato con due gol e realizzato un assist, con delle prestazioni piene, complete, che hanno ricordato il giocatore del 2016. Entrambi i gol sono stati molto simili: partendo da destra e rientrando per tirare col piede forte, all’altezza del limite dell’area, mirando al primo palo. Tutte e due le volte, i suoi gol sono valsi 3 punti al Bordeaux.
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La parte davvero pregevole di questo gol non sta nel tiro secco sul primo palo, quanto nell’esterno destro delicato e naturale con cui controlla il lancio orizzontale.
Contro il Paris Saint-Germain, due settimane fa, pur non segnando ha creato entrambi i gol del Bordeaux (la partita è finita 2-2): il primo battendo un angolo che il difensore parigino Pembélé ha schiacciato nella sua stessa porta, il secondo con un passaggio semplice al limite dell’area per mandare al tiro Yacine Adli.
Ma l’azione che ha fatto rivedere il migliore Ben Arfa è arrivata a venti minuti dalla fine, quando ha preso palla sul lato sinistro dell’area di rigore del PSG, con Di Maria a destra, Herrera davanti e Florenzi a sinistra. Ha portato palla verso la riga di fondo, usando il corpo per proteggerla mentre sterzava all’interno: Florenzi ha allungato la gamba ed è arrivato a toccare il pallone ma Ben Arfa in qualche modo ha perso e ritrovato l’equilibrio in un paio di passi, riprendendo contatto con la palla e mettendosi Florenzi alle spalle.
A quel punto, però, arriva Pembélé e Ben Arfa sembra poter, al massimo, provare a passarla al centro dell’area alla cieca: invece, con la naturalezza con cui l’acqua di un fiume scorre ai lati di un masso, esegue un crossover destro-sinistro con cui riesce a dribblare anche lui. A quel punto si è aperto un corridoio per passare la palla all’indietro per Oudin: se mettete pausa al momento del passaggio vedrete che intorno o dietro a Ben Arfa ci sono sei giocatori del PSG, compreso il portiere. Il tiro di Oudin purtroppo è contrastato una scivolata di Paredes, l’unico giocatore parigino in area di rigore che non stava cercando di togliere palla a Ben Arfa.
Anche se non ha più lo spunto di una volta, almeno per ora, e non supera più gli avversari come una folata di vento, in azioni di questo tipo sembra sia rimasta intatta la qualità specifica del calcio di Ben Arfa. Quel rapporto col pallone che a volte sembra invertito, come se fosse la palla a voler restare attaccata ai suoi piedi, a seguirlo mentre si tuffa di testa tra le onde della difesa avversaria. Sembra che Ben Arfa possa fare qualsiasi piroetta e cambio di direzione e che la palla gli venga dietro come un cane addestrato.
Poche settimane fa su France Football (che gli ha dedicato la copertina) Jean-Robert Faucher, suo formatore e oggi direttore del polo di formazione dell’INF, ha dichiarato che «sul piano dei gesti raramente avevamo visto una tale velocità di esecuzione e nei cambi di direzione. E questo Hatem lo ha conservato. C’è una qualità in lui che può risvegliarsi da un momento all’altro». Julian Fournier, direttore esecutivo del Nizza in quella magica stagione 2015-16, lo descrive come un calciatore «innamorato del gioco, alla perenne ricerca del piacere», mente Alain Perrain, suo ex allenatore al Lione, dice che i tifosi se ne fregano se è difficile da gestire giorno per giorno, perché Ben Arfa «è un bravo ragazzo che li ha fatti sognare in campo, che gli ha regalato dei bei momenti». Ma ha toccato un punto vero e importante anche Pierre Menes, giornalista di Canal Plus, che ha sottolineato come Ben Arfa sia capace di uscirsene con un concetto profondo un momento, e quello dopo con una frase che avrebbe potuto dire un bambino di otto anni.
È proprio questo che il pubblico trova in Ben Arfa, e che cerca invano in quasi tutti gli altri calciatori, compresi quelli di alto livello. Certo, sono speciali quei momenti in cui riuscirebbe a passare con la palla incollata al piede anche in mezzo al pubblico che poga sotto al palco degli Slipknot – momenti di grazia assoluta, cioè, in uno sport spesso caotico o semplicemente noioso, difficile da giocare e guardare – ma è soprattutto la purezza di Ben Arfa che lo rende unico. L’idea che, davvero, a Ben Arfa importi solo giocare a calcio. E che, come direbbe Jacques Brel, ha avuto il talento di «invecchiare senza diventare adulto».
Uno dei 9 gol segnati nella stagione 2018-19 con il Rennes, dove dopo aver dribblato mezza squadra si inserisce in area per ricevere il passaggio di ritorno e concludere in rete col destro.
Più in profondità la questione Ben Arfa nasconde la solita domanda se nel calcio contino gli individui o il gioco di squadra. Fateci caso, una domanda del genere ha senso solo quando le cose non funzionano, in un senso o in un altro. Quando un individuo non si inserisce o quando una squadra ha un gioco brillante ma le manca qualcosa. Perché quando invece i giocatori come Ben Arfa – i solisti, i dribblomani, gli illusionisti - giocano bene significa che si trovano coi compagni e hanno una loro utilità nell’economia della partita.
Ben Arfa ha una duplice funzione, è una minaccia da prendere seriamente in considerazione, perché se gli lasci spazio arriva fino alla porta, ed è un magnete che attira su di sé gli avversari liberando spazio per i compagni. Non funziona sempre, d’accordo, non è Messi, ma l’idea di calcio è la stessa e sono in pochissimi a poterla portare a così alti livelli con un minimo di efficacia.
Ben Arfa tenta 8.5 dribbling ogni 90 minuti, in media, solo Neymar e Boufal ne tentano più, ma a tutti e tre ne riescono 5.4 (lui ne sbaglia meno, cioè). Il dono di Ben Arfa per il dribbling sembra divino come lo è quello dei migliori giocatori della storia, un istinto animale che gli permette di prendere il tempo all’avversario che ha davanti, la capacità soprannaturale di rallentare il tempo fino a congelarlo e poi accelerare sempre dalla parte opposta rispetto a quella dove i suoi avversari hanno spostato il peso.
Giustamente ci si chiede quanto durerà, se dietro l’angolo c’è l’ennesima cazzata, se il fenomeno, come lo chiamava Dani Alves a Parigi, durerà almeno una stagione o magari due, tre. Il dato di fatto è che Ben Arfa è partito titolare più o meno nel 30% delle partite a disposizione in campionato, considerando i nove club in cui ha giocato, e comunque vada – ammettendo anche che in questo modo non si sia troppo usurato e possa reggere davvero ancora qualche anno – dovremmo guardare con rammarico a questa cifra.
A un certo punto nell’intervista del 2016 citata all’inizio, Ben Arfa dice che qualcuno lo ha rimproverato perché parla troppo apertamente alla stampa dei suoi problemi. «Io quando parlo dico quello che penso. Loro mi avvertono: eh ma così poi ti dicono che sei fragile. Ma siamo tutti fragili». È in questa fragilità che si legge nella voce con cui parla alla telecamera, così simile a quella di quando aveva dodici anni e già parlava alla telecamera, e che si riflette nella sua carriera e nel suo gioco, in ogni singola azione che potrebbe finire con la palla persa e un contropiede, che sta la bellezza di Ben Arfa.
Tutto considerato è un miracolo che a 33 anni stia ancora giocando ad alto livello e che sia riuscito ancora una volta a rinascere. Per la prima volta possiamo guardarlo senza sperare che diventi qualcosa di più, sapendo che difficilmente lo cercherà una grande squadra o che Deschamps lo convocherà per l’Europeo. Possiamo godercelo per quello che è.
E cioè, uno dei calciatori in attività con il talento più puro, con un amore per la palla più grande del nostro.