Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Bentornato, Dries
30 nov 2021
La doppietta contro la Lazio ci restituisce uno dei giocatori più divertenti del campionato.
(articolo)
8 min
Dark mode
(ON)

Per Dries Mertens le dimensioni contano e non contano al tempo stesso. Quasi undici anni fa esatti, il 15 dicembre 2010, è andato a Liverpool con l’Utrecht per una partita di Europa League e non riusciva a trovare la scritta “This Is Anfield”, nel corridoio che porta dagli spogliatoi al campo. Se l’è dovuta far indicare e quando poi ce l’ha avuta davanti si è stupito: «Guardavo quella cosa piccola e pensavo: che c’è di speciale?». Strano. Che le dimensioni non siano indicative del valore di una cosa nessuno dovrebbe saperlo meglio di lui, che quando Maurizio Sarri lo ha messo al centro del tridente sembrava giocare per contraddire i luoghi comuni sui centravanti che devono essere grossi e dominare l’area di rigore. Lui che è alto un metro e settanta (un centimetro in meno, secondo internet) in quella stagione ha segnato 34 gol, girava per il campo con l’aria impettita di un pazzo che si crede Napoleone e il suo sguardo fiero sembrava chiedere: “falso” a chi?

Aveva già trent’anni alla fine di quella stagione 2016/17, aveva vendicato Napoli del tradimento di Sarri e di Higuain e si era ribellato contro la sua formazione belga, quella dell’esterno a piede invertito, mostrando a tutti di essere un numero nove vero e proprio, per movimenti, funzioni e per la capacità straordinaria di finalizzare ogni occasione gli passasse vicino. E lo ha fatto con quella creatività istrionica, sopra le righe, davvero artistica a volte, che a Napoli forse apprezzano più che in qualsiasi altro posto. Le stagioni dopo ha cominciato a rallentare (pur sempre segnando 22, 19 e 16 gol) finché a giugno 2020 ha superato Marek Hamsik - e dopo Hamsik c’è Diego Armando Maradona - diventando il miglior marcatore di sempre della storia del Napoli. Che resta da fare per un calciatore arrivato senza clamore e che, se il paragone diretto non è ammesso in nessun caso, dopo sette anni può quanto meno dire di aver toccato apici “maradoniani”?

Il declino fisiologico e gli infortuni hanno fatto il resto e Dries Mertens è arrivato all’inizio della sua ultima stagione compresa nel contratto col Napoli senza sapere cosa sarà di lui. Il prossimo giugno avrà 35 anni e il non-detto di questi giorni è che potrebbe persino - perché no, in fondo che resta da fare? - ritirarsi.

Certo non sembra un giocatore pronto a godersi la vita e basta, quello che tre minuti dopo essere entrato in campo contro l’Inter ha segnato con uno dei suoi tiri da fuori area che sembrano dei calci di punizione senza barriera, con il portiere spacciato in partenza. E che poi contro la Lazio ha fatto vedere di poter giocare anche senza un altro attaccante con cui dividersi gli spazi (meglio con Zielinski a corrergli alle spalle, o a offrirgli una sponda tra le linee, che con Petagna a bloccare la difesa in profondità).

Nel primo gol Mertens sembra essere l’unico giocatore in grado di restare in piedi sul terreno reso scivoloso dalla pioggia: Acerbi cade quando Mertens fa scorrere il passaggio di Insigne alle sue spalle, Patric cade quando finta il tiro e Luis Felipe cade provando a intercettare il tiro stesso. Sul secondo calcia di prima intenzione, di destro, una palla che veniva da destra, appena da fuori aerea. Un tiro che in pochi avrebbero pensato, senza almeno stoppare la palla e provare a orientare il corpo verso la porta avversaria. E quasi nessuno avrebbe potuto mettere la palla sul palo più lontano con quella specie di cross, pallonetto, arcobaleno, tiro a canestro che è uscito dal piede destro di Mertens.

La doppietta di Mertens alla Lazio, nel giorno delle celebrazioni in ricordo di Maradona, un anno dopo la morte, con lo svelamento della sua statua di bronzo davanti a quello stadio che già da un anno porta il suo nome, e con la faccia di Maradona, la sua icona immortale, disegnata sulla pancia, sembra un momento fin troppo pieno, ricco, dal punto di vista simbolico, per sporcarlo con domande materiali. Che resta da fare? A quanto pare, ci sono molte cose che Mertens può ancora fare.

Non solo per Napoli, ma soprattutto per Napoli. Non so se c’è un altro giocatore, oggi, nel campionato italiano, che venendo da fuori si è ambientato così bene, aderendo così in profondità all’identità cittadina che rappresenta la squadra in cui gioca. A luglio, intervistato per il sito della Champions League Mertens ha detto che forse è così amato perché vive come i napoletani: «Scendo spesso in città, mi piace il cibo, mi piace il mare, mi piacciono tutte le isole che ci sono davanti». Ma lo avevamo già visto mascherarsi “da Insigne” per Halloween, esultare imitando il magazziniere Starace. Abbiamo già visto i suoi post con le foto di Maradona, le foto del golfo, i video in motorino in tre, col fratello e col cane. Cosa resta da fare, per far sentire il proprio amore per Napoli, a uno che chiama il proprio figlio Ciro, col nome napoletano con cui chiamavano lui, cioè, per farlo sentire uno di loro fino in fondo?

Alla Lazio, a settembre 2017, Mertens aveva già segnato un gol incredibile, maradoniano in senso letterale perché ricordava da vicino il gol di Maradona, sempre alla Lazio, del febbraio 1985. Maradona ha segnato sfruttando un errore del difensore, Vianello, combinato con l’uscita a metà strada del portiere, Orsi, che poi ha scavalcato con un pallonetto istintivo, col piede sinistro che sceglie cosa fare senza che l’occhio possa vedere dove sta la porta. A Mertens invece è bastata l’uscita di Strakosha che ha lasciato la palla fuori dall’area per tornare in porta, come forse sarebbe stato giusto contro un giocatore qualsiasi, non uno in grado di calciare a giro sul secondo palo, con una parabola alta che passa sopra la testa del portiere stesso e altri tre difensori biancocelesti.

Questi gol ne ricordano un altro di Mertens, della stagione ancora precedente, segnato contro il Torino a dicembre 2016, scavalcando il portiere con un pallonetto da dentro l’area, calciato con le spalle alla porta. C’è qualcosa si vendicativo nel modo in cui Mertens calcia superando in altezza le mani dei portieri, è forse un modo per farli sentire piccoli, come lui, per rimettere in discussione quel luogo comune di cui parlavamo prima, l’associazione automatica tra la grandezza fisica di qualcosa, o qualcuno, e il suo valore. Quando Mertens calcia sfrutta i limiti fisici dei portieri, perché magari lui è piccolo rispetto al difensore che lo marca, ma tutti i portieri sono piccoli rispetto alla porta alle loro spalle. Sono gol che vanno bene con il suo sorriso metà ironico e metà sbruffone, e con la sua aria da eterno bambino, da Peter Pan che più che non voler crescere non vuole smettere di giocare a calcio.

«Il guaio consiste nel fatto che la naturalezza e la realtà sono diventate non si sa come nemiche», riflette Horacio Oliveira, il protagonista di Rayuela, romanzo-gioco dello scrittore argentino Julio Cortazar, quando sente che, a quarant’anni, il suo sguardo non può che rivolgersi all’indietro, verso il proprio passato: «Alla mia età il passato si fa presente e il presente è uno strano e confuso futuro dove ragazzi in maglione e ragazze dai capelli sciolti bevono i loro café crème e si accarezzano con la lenta grazia di un gatto o di una pianta». Subito dopo, però, si ribella contro i suoi stessi pensieri: «Bisogna battersi contro tutto questo. Bisogna insediarsi nuovamente nel presente».

Dries Mertens, che se fosse stato argentino avrebbe avuto forse un’aria più tragica, e se fosse stato argentino e pure mancino ci avrebbe obbligato a fare anche il paragone più scomodo di tutti, sembra perfettamente a suo agio con lo scorrere del tempo. Si batte ogni giorno per restare nel presente, per non confonderlo col passato, e non c’è niente di più naturale e reale al tempo stesso del suo modo di stare in campo. È lui quello in possesso della grazia di un gatto, o di una pianta. Cosa c’è di più naturale di un tiro che parte senza neanche guardare la porta, aggirando il portiere come se le strade per arrivare alla rete fossero infinite, con un calcio fluido come una carezza, come una pacca sulla spalla tra amici che si ritrovano dopo troppo tempo passato lontani.

Sì d’accordo, è “esploso” tardi, se così si può dire, e non potrà giocare per sempre, ma a quanto pare c’è una parte del suo talento piuttosto consistente, la parte più pura del suo talento anzi, irriducibile agli anni che passano e agli infortuni. Nell’intervista dopo la partita con la Lazio, dopo che Insigne si è appostato dietro al cartellone con gli sponsor che fa da sfondo alle interviste per tirargli l’acqua, Mertens ha detto che ha ragione chi lo critica, chi dice che è finito, che sta a lui dimostrare il contrario.

Mertens è lì, per ora, ed è lo stesso di sempre, non sarà lui a prendersi sul serio e a fare proclami (o paragoni), ma appena può, quando ne ha l’occasione, è pronto a stupirci come la prima volta che lo abbiamo visto al centro dell’attacco. Ed è ironico che questa possibile rinascita, se rinascita sarà, sia corrisposta al ritorno di Sarri a Napoli, l’uomo che gli ha «cambiato la vita», come ha detto lui, che però sedeva sulla panchina sbagliata; e che in più sia scaturita dall’infortunio di Osimhen, un tipo di centravanti a lui opposto, che domina fisicamente le difese, con il suo atletismo e un’intensità mentale da fighter di MMA, con un decimo, però, della sua qualità tra le linee o al tiro.

Non è detto che duri, la caviglia potrà infortunarsi di nuovo, o la brillantezza di queste settimane si potrà rivelare un’illusione, la sua motivazione fatua e passeggera - d’altra parte, cosa resta da fare? - e mentre noi aspettiamo gli ultimi fuochi di Mertens, Spalletti e tutta Napoli conteranno i giorni che separano Osimhen dal rientro in campo… oppure, invece, Mertens si prenderà di nuovo quel posto che era suo, ribalterà ancora una volta la narrazione stereotipata del centravanti onnipotente sulle cui spalle grava il peso del resto della squadra in favore di un centravanti furbo, intelligente, collaborativo, che fa giocare meglio i compagni con i suoi smarcamenti e le sponde, e che poi quando si avvicinano i sedici metri dell’area di rigore diventa un arciere ai Giochi Olimpici.

E chissà, magari con gol come quelli segnati alla Lazio porterà il Napoli a un traguardo storico e inaspettato, a vincere qualcosa che manca dai tempi di… (insomma ci siamo capiti). In ogni caso Dries Mertens è ancora qui, presente, naturale, con un mucchio di cose da fare, sempre con quell’aria tronfia e leggera di uno appena sceso dal motorino d’estate, a torso nudo con un asciugamano sotto al culo, uno che quei gol incredibili li potrebbe segnare anche con le infradito ai piedi. Godiamocelo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura