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Bentornato Spalletti
15 gen 2016
La Serie A ritrova un tecnico preparato e carismatico. Chi è veramente Luciano Spalletti.
(articolo)
12 min
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Sono passati quasi 22 mesi dall’ultima volta in cui Luciano Spalletti ha allenato una squadra di calcio. Quasi sei anni e mezzo dall’ultima volta in cui lo ha fatto in Italia. Un’eternità in condizioni normali, figuriamoci per gli standard del calcio moderno. Rivederlo con la tuta della Roma, con la barba incolta e grigia, paradossalmente ha lo stesso effetto di quando si guardano vecchie foto dei tempi del liceo, o prima di perdere i capelli: c'è nostalgia, ma anche consapevolezza di quanto le cose siano cambiate, dello scorrere del tempo.

Spalletti il pragmatico

Il ricordo lasciato da Luciano Spalletti in Italia è quello della Roma tra il 2006 e il 2008: anni in cui i giallorossi facevano un gioco spettacolare e offensivo, secondo alcuni il più appagante esteticamente in tutta Europa. Per questo il tecnico di Certaldo è generalmente considerato un rivoluzionario o almeno un innovatore. Per fare un esempio: è l’ultimo allenatore a comparire nella bibbia tattica di Jonathan Wilson La Piramide Rovesciata (il libro è del 2008) insieme al Manchester United di Ferguson, e il modulo con Totti falso nove una delle ultime innovazioni del calcio contemporaneo.

Un'immagine diventata preponderante e talmente affermata da nascondere l’humus culturale da cui Spalletti proviene: quel pragmatismo tattico che, al di là del luogo comune del difensivismo, è l'essenza della scuola calcistica italiana. Anche quella Roma che tutti ricordano, e il 4-2-3-1 che per molti rappresenta il suo Marchio di Fabbrica™, nacquero in realtà da una situazione d’emergenza che in qualche modo, per usare le sue parole, lo “guidò” verso quell’innovazione.

È il 18 dicembre del 2005 e la Roma si presenta in casa della Sampdoria senza Cassano, Montella e Nonda. L’unico vero attaccante a disposizione è Okaka, che a quel tempo ha 16 anni. Spalletti decide di far giocare prima punta Francesco Totti, posizione che, di fatto, da quel momento in poi non lascerà più. Ma non sono i giocatori a doversi adattare a un’idea di gioco, piuttosto il contrario.

«Fu soprattutto lui a indicarmi la strada da seguire, giocatori di questa pasta si modellano da soli. E poi avvicinare Francesco all'area di rigore è come mettere la volpe vicina al pollaio: trova sempre lo spazio per creare terrore. Totti fa gol, è bravo a mandare, a non dare punti di riferimento e quando calcia trova sempre i cantucci». Metterlo lì davanti non aveva solo una funzione offensiva, ma anche machiavellicamente difensiva: «Ho sempre valutato gli equilibri di squadra: lì è libero di fare quello che vuole, senza compiti di copertura».

La vittoria 6-2 nella finale di andata di Coppa Italia contro l’Inter, una delle più alte espressione della Roma “spallettiana”.

Probabilmente il pragmatismo di Luciano Spalletti viene dalla gavetta fatta in società piccole o economicamente deboli, dove la possibilità di prendere giocatori con determinate caratteristiche era praticamente un miraggio e in cui un allenatore doveva per forza di cose arrabbattarsi con il materiale che aveva a disposizione: Empoli, Sampdoria, Venezia, Udinese, Ancona.

C’è una bella intervista di Gianni Mura al primo Luciano Spalletti—quello che nel 1997 sta guidando l’Empoli nel suo primo anno in Serie A—in cui si parla di mercato. Il tecnico parla di sogni impossibili (“Maldini, Batistuta, Casiraghi”), ma la realtà è che la squadra, dopo la promozione, è stata smantellata: Birindelli è stato venduto alla Juventus, Dal Moro alla Roma, Tricarico al Torino, Amoroso alla Fiorentina, Bertarelli alla Sampdoria. In questo senso, diventa significativa la citazione con cui chiude l'argomento, una frase che gli ripeteva il padre: «Il mio babbo diceva che nella vita bisogna sapersi accontentare, e io ho sempre pensato che più d'una bistecca al giorno non mangio e quindi me ne frego della mucca intera».

Eppure, persino a quei tempi, Luciano Spalletti era considerato un rivoluzionario, tanto che i tifosi dell’Empoli appendevano per la città degli striscioni con scritto: «Zeman più Sacchi uguale Spalletti». A lui non è mai piaciuto presentarsi come un genio (di quegli striscioni dice di vergognarsene) e già all'epoca spiegava le sue scelte tattiche come se la realtà non gli avesse lasciato scampo: «Io faccio la zona perché, tolto Ventura, tutti i miei allenatori erano zonisti, perché sono convinto che sia la scelta più vantaggiosa per la copertura degli spazi, ma anche perché non so fare altro». O ancora: «Io mi ritengo portatore di un valore: la normalità».

Tattica vs Libertà

Normalità è un concetto più ambizioso di quanto possa apparire in prima battuta: significa riportare i calciatori al loro stato naturale, farli giocare come sanno fare veramente. Durante la sua prima conferenza stampa, rilasciata a poche ore dal suo ritorno a Roma, Luciano Spalletti ha presentato il problema della squadra come una questione prevalentemente mentale: «Spero che ritoccando i tasti giusti e parlando in maniera pulita e chiara alla squadra si possa ritrovare quello spirito e quel carattere, aspetti che vanno in evidenza prima dei numeri e dei moduli».

Ed è un aspetto in apparente contrasto con la descrizione che solitamente si fornisce di Spalletti: un tecnico talmente preparato tatticamente da risultare ossessivo e maniacale - e anche ieri, durante il suo primo allenamento con la stragrande maggioranza dei giocatori ereditati da Rudi Garcia, Spalletti non ha trascurato la parte tattica.

E l'attenzione di Spalletti per la tattica, ad esempio, ha fatto sentire imbrigliato più di un suo giocatore. Quando è stato esonerato dai propri compiti dalla dirigenza dello Zenit San Pietroburgo, ad esempio, Aleksandr Ryazantsev, ala della squadra russa, ha tirato un sospiro di sollievo: «Non era del tutto ovvio cosa chiedesse». Secondo Ryazantsev, una volta sostituito Spalletti con Semak: «Tutti i giocatori hanno capito più chiaramente cosa fare in difesa e cosa fare in attacco».

La partita più importante della Roma di Spalletti.

Anche Giuly, quand’era alla Roma, ha provato la stessa sensazione: «Spalletti è un allenatore con molto carattere, quando arrivai a Roma non ne sapevo molto di tattica, lui me l’ha fatta studiare a fondo per tre mesi. All’inizio rimasi scioccato perché tutti facevano la stessa cosa e io mi sentivo quasi incapace di giocare a calcio, mi sembrava di vivere in un videogioco che si ripeteva identico ogni mattina».

Siamo di fronte a un problema archetipico del calcio: non è sempre facile conciliare il desiderio di far esprimere i giocatori al proprio meglio e con la massima libertà e creatività possibile, e al tempo stesso inserirli all'interno di un sistema coordinato con uno scopo deciso a priori. Ma, probabilmente, è anche un problema legato ai metodi di allenamento di Luciano Spalletti, che preferisce far interiorizzare le idee ai giocatori con una ripetizione continua dei movimenti che dovranno poi eseguire durante la partita.

Piuttosto che con una spiegazione astratta alla lavagna, Spalletti preferisce: «Ripetere le situazioni di gioco in campo, undici contro undici, come la domenica. Un pilota di Formula Uno mica sta in poltrona col solo il volante in mano, mette a punto la macchina girando in pista come nei Gran Premi». Anche per questo le idee di Spalletti hanno bisogno di una discreta dose di tempo per essere assorbite: i piloti devono ripetere lo stesso giro per decine di volte prima di conoscere a fondo tutte le curve di una pista.

A tal proposito va detto che il tecnico toscano ha sofferto molto le situazioni in cui, in passato, gli vennero chiesti risultati immediati: sia alla Sampdoria, che al Venezia, che all’Udinese (le tre squadre allenate dal 1998 al 2005 dopo il periodo a Empoli) è stato esonerato una prima volta per poi essere richiamato durante la stessa stagione, o a distanza di un anno.

Una volta assorbite quelle idee, però, le squadre iniziano a funzionare come orologi automatici. Lo stesso Giuly, ad esempio, nell’intervista precedente ha ammesso: «Durante le partite si notava che il lavoro fatto in settimana aveva un senso... Tutti sapevano alla perfezione cosa fare».

Spalletti richiede ai propri giocatori una fiducia totale nelle sue idee, con la promessa che quest’ultime permetteranno loro di esprimersi al massimo del proprio valore: è una pretesa che non tutti i giocatori sono in grado di accettare senza sentirsi privati della loro libertà. Questo aspetto spiega, almeno in parte, perché Spalletti si trovi a proprio agio con giocatori senza troppe velleità tecniche, ma di grande senso tattico (i Perrotta, i Taddei, i Tonetto, i Criscito). Sembra quasi che sia lui stesso a volersi imporre dei limiti al mercato, pur di prendere giocatori funzionali alle sue idee: «Dico sempre, se devo allenare un giocatore voglio anche sceglierlo. Io come allenatore non faccio solo quello che mi piace e gli altri come dirigenti non fanno solo quello che piace loro».

Nell’intervista a Gianni Mura, raccontando il suo passato da giocatore, Spalletti dichiara: «L'anarchia era che ogni tanto mi veniva di fare un numero, un'azione individuale per dimostrare qualcosa a me stesso più che agli altri. Quello che adesso non sopporto dai miei giocatori, ogni tanto lo facevo».

Ma forse è più chiaro il suo discorso quando dice: «Mi regalassero un fantasista, di quelli che una volta ti fanno vincere e tre perdere, non lo vorrei».

E il tacco… e la punta… e il numero.

Fratello e Sergente

Da questo punto di vista, Luciano Spalletti è agli antipodi rispetto a Rudi Garcia, che pur di lasciare ai giocatori il massimo della libertà nell’interpretare le situazioni di gioco è finito con il rinunciare a un'idea precisa di gioco. E i due sono agli antipodi anche nel rapporto con la squadra: se Garcia era un capobranco, alla guida ma sullo stesso piano degli altri “lupi”, Spalletti è un quasi pedagogo: colui che deve insegnare i “giusti comportamenti”.

Sempre a Gianni Mura, ha detto: «Credo molto nello spogliatoio, alleno come un fratello maggiore che sa di dover passare a sergente di ferro». Una figura a metà tra la accoglienza familiare e la gerarchia militare, comunque in sovraordinazione rispetto alla squadra, e questo è uno dei motivi che in passato hanno creato contrasti tra Spalletti e i giocatori più talentuosi delle squadre che ha allenato, quelli che vivono di libertà sul campo, o magari semplicemente quelli dalla testa più calda.

Fu celebre il litigio con il brasiliano Hulk quando Spalletti allenava lo Zenit San Pietroburgo e il giocatore si rifiutò di stringergli la mano dopo una sostituzione. Rivedendo quelle immagini, si vede Spalletti fare un gesto tipicamente da padre, come a redarguirlo. Spalletti sembra dire: "Dopo ce la sbrighiamo io e te in privato". E al termine della partita ha dichiarato: «È vero: non era contento per la sostituzione. Come si fa? Se ricapita lo si risostituisce».

Anche a Roma, durante la sua prima esperienza, non è filato tutto liscio per Luciano Spalletti. Con Cassano, ad esempio, il rapporto fu pessimo. Nella sua autobiografia—senza mostrare granché vergogna—il talento di Bari ha scritto di aver risposto a Spalletti: «Mica stai allenando quelle schiappe che avevi all'Udinese. Questa è mica casa tua, è casa mia». Al netto del dissesto finanziario che stava vivendo in quel momento la gestione Sensi, Cassano sarebbe stato probabilmente ceduto lo stesso, ma quando nel novembre del 2006 a Spalletti è stato chiesto quali fossero le sue sensazioni riguardo la cessione del giocatore barese, lui ha risposto, gelido: «Le stesse di quando se ne sono andati Bovo o Corvia».

Quando è andato via da Roma la prima volta, in uno strascico giudiziario con un giornalista romana che lo aveva diffamato, Luciano Spalletti ha rivelato che "tutta la squadra" aveva iniziato a prenderlo in giro.

Ma oggi il contesto della Roma è diverso e la distanza dalla squadra, l’atteggiamento pedagogico e la stretta osservanza delle regole, vengono avvertite come un fattore positivo. Quando hanno iniziato a circolare le prime foto con la squadra, dopo che il suo incarico è diventato ufficiale, lo scatto che i tifosi romanisti hanno più condiviso è stato quello in cui Luciano Spalletti sembra incenerire con lo sguardo un Maicon sudato e sorprendentemente deferente—una foto usata dal Corriere dello Sport edizione romana per la prima pagina, con il titolo significativo: “Guardiamoci negli occhi”.

Già dalle sue prime parole Spalletti sembra voler far capire che non ha dimenticato la città, nel bene e nel male: «Ci sono molti innamorati della Roma e quando c’è un sentimento così forte dobbiamo saper esibire una professionalità importante, perché loro vogliono questo e allo stesso tempo può influenzare e creare un disturbo all’interno della squadra. È una situazione avvolgente quella dei nostri tifosi, che ti può dar tanto, ma allo stesso tempo togliere molto».

Spalletti anti-personaggio

La schiettezza, così come la retorica complessa e la fine ironia rendono Luciano Spalletti uno degli allenatori più apprezzati dalla stampa italiana. Probabilmente perché lo avverte come qualcosa di familiare, o magari perché in un ambiente chiuso fatto di mani davanti alla bocca Spalletti rappresenta una nuova forma di trasparenza.

Siamo ancora una volta lontani anni luce dalla grandeur degli ultimi tempi di Rudi Garcia, così come, per fare un esempio, dalle provocazioni astute di Mourinho. Volendo cercare un paragone nel panorama calcistico italiano di oggi, Spalletti è un anti-personaggio simile a Sarri: origini umili (suo padre era un guardiacaccia), gavetta in serie minori e uno spiccato accento dialettale.

Non produce titoli da prima pagina, ma piccoli modi di dire riservati agli affezionati. Pochi giorni fa ho detto “in bocca al lupo” a un amico (romanista come me) che si stava per laureare, e lui mi ha risposto, citando una vecchia dichiarazione di Spalletti: «Che vinca il lupo».

Non è un caso che il portoghese, quando erano in competizione, utilizzasse proprio questo lato di Spalletti per rimarcare la differenza tra loro due: «Spalletti parla prima della partita, parla durante l’intervallo e parla dopo la partita: è "prime time", è amico di tutti. Io non sono così».

Anche in Russia con grande probabilità ancora ricordano i modi di dire iconici di Spalletti, in positivo e in negativo. Quando gli chiesero un commento sul fatto che nessun calvo avesse mai vinto il campionato russo, lui rispose: «Ho dei bei capelli, perfetti per indossare qualsiasi cappello. Mi preoccupa un po' il vostro freddo, ma per questo potrebbero anche venirmi in mente nuove idee». Ma la schiettezza ha giocato anche brutti scherzi, ad esempio quando Spalletti se la prese con un arbitro che aveva allungato eccessivamente il recupero in un’intervista post-partita: «Io l’ho già detto che a lui non gli sto simpatico e anche oggi l’ha fatto vedere».

Trasparenza.

In questo senso, sarà interessante vedere come Luciano Spalletti si inserirà anche mediaticamente in una società che aspira a essere moderna e internazionale. Per adesso sembra apprezzare il balzo in avanti fatto dal club: «Mi sono ritrovato con una situazione molto migliorata. Bravi: siete stati al passo con i tempi». Ma il contrario, per forza di cose, è ancora da dimostrare. Se da una parte guardare vecchie foto ci rende consapevoli del tempo che passa, nostalgicamente, dall’altra può essere anche liberatorio, facendoci capire quanti passi in avanti abbiamo fatto da quel punto.

È bello ricordare Spalletti, ed è bello constatare che sia cambiato, ma, a parte la barba incolta, non possiamo ancora sapere né come né quanto. Sarà bello scoprirlo. Intanto: bentornato Luciano.

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