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Berlusconi, il tattico
07 feb 2018
L'ex presidente del Milan ha avuto un passato da allenatore e amava parlare di formazioni e schemi, soprattutto con la stampa.
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24 min
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Al trofeo Gamper, per tradizione, ci si va da vittime sacrificali e il Milan, in quell’agosto del 1986, si comporta come tale. Gli spalti del Camp Nou fanno intravedere molti seggiolini vuoti, tradendo un certo sdegno per quella che è solo una semifinale. Gli avversari del Barcellona sono in elegante divisa bianca, proprio come degli ospiti rispettosi, e la deferenza arriva al punto che la loro sconfitta non è solo netta ma anche un po’ patetica. Prima Bonetti, all’esordio assoluto con il Milan, sbaglia un retropassaggio servendo Pedraza, che segna con un piccolo scavino. Poi Giovanni Galli, arrivato in estate dalla Fiorentina, non riesce a bloccare un tiro facile, permettendo a Hughes di raddoppiare. La partita prosegue pigramente e finisce 3-1. I giornali il giorno dopo parleranno di “brutta figura”. Nils Liedholm assiste alla partita nella panchina interrata dello stadio catalano, con la tuta acetata della Kappa sopra la camicia a righe e la cravatta blu scuro. Ha schierato un’unica punta (Pietro Paolo Virdis) e lasciato Galderisi, acquistato in estate dal Verona per 5 miliardi, in panchina.

Poche settimane prima, Silvio Berlusconi era sceso dal cielo con l’elicottero in mezzo all’Arena Civica di Milano per salutare la sua nuova squadra, come un dio. Adesso assiste impotente sugli spalti, chiuso in una giacca avorio come il suo sorriso. «Questo è un Milan con un gioco non funzionale al gol. Vinceremo poco», predice dopo quella partita. Liedholm, poco dopo, gli risponde: «Sì, lui molto bravo, capisce di calcio: è stato allenatore dell’Edilnord». Ad aprile, dopo una stagione scialba, Liedholm viene esonerato.

Berlusconi con Liedholm e Galliani (Foto di pubblico dominio).

Sulla panchina del Milan si siede un giovanissimo Fabio Capello, alla sua prima esperienza da allenatore di una prima squadra, che vince lo spareggio per entrare in Coppa UEFA con la Sampdoria.

1. I primi passi da allenatore all’Edilnord

L’Edilnord è la prima pietra dell’impero imprenditoriale e lo scrigno originario della mitologia di Silvio Berlusconi. Tra il 1963 e il 1975 quella che inizialmente era solo una piccola impresa edilizia costruisce tre enormi centri residenziali: Brugherio, Milano 2 (a Segrate) e Milano 3 (a Basiglio), di rispettivamente 4mila, 10mila e 11mila abitanti. È la rincorsa prima del lancio della sua carriera imprenditoriale e politica, e il primo germe dei sospetti sul suo passato (sono i progetti a cui si riferisce la famosa scena del Caimano in cui ci si chiede “da dove vengono tutti quei soldi”). Con l’Edilnord, Berlusconi acquista anche la sua prima società di calcio, se così si può chiamare: la Torrescalla, una squadra giovanile legata a una residenza universitaria dell’Opus Dei.

Con la Torrescalla-Edilnord, o semplicemente Edilnord, come si chiamerà dopo la sponsorizzazione, Berlusconi, a 27 anni, diventerà il primo e tutt’ora unico, presidente-allenatore della storia del calcio.

In realtà il primo allenatore dell’Edilnord è il suo giovane segretario, un ragazzo di 22 anni conosciuto alla facoltà di Giurisprudenza della Statale di Milano che risponde al nome di Marcello Dell’Utri. L’allenatore in seconda è Vittorio Zucconi, che in quel periodo scriveva di cronaca nera per il quotidiano “La Notte” di Milano.

Dell’Utri è il primo allenatore che si scontra con la concezione unica che Berlusconi ha del suo ruolo. «Discutevamo tutta la settimana della formazione, era impegnativo», ricorda quello che diventerà per diversi anni senatore della Repubblica per Forza Italia. Dell’Utri schierava l’Edilnord con il 4-3-3 e in seguito ricorderà i buoni risultati. Nella mitologia berlusconiana viene esonerato perché troppo difensivista, mentre lui racconterà di aver fatto carriera e di essere stato chiamato a Roma dall’Opus Dei, per dirigere il centro sportivo Elis. In ogni caso Dell’Utri tornerà all’Edilnord nel 1974, sempre come segretario, dopo aver diretto anche l’Athletic Club Bacigalupo, club palermitano dedicato al leggendario portiere del Grande Torino, squadra in cui passarono giocatori come Zdenek Zeman, Piero Grasso (l’ex procuratore nazionale Antimafia e attuale presidente del Senato) e Vittorio Mangano (il membro di Cosa Nostra che successivamente, nella narrazione delle cose berlusconiane, diventerà “lo stalliere di Arcore”).

Un’incredibile foto d’epoca di Berlusconi con l’Edilnord durante il II trofeo Elis a Roma, nel 1966 (contenuto in questo video sulla storia della squadra).

Dopo la partenza di Dell’Utri, la squadra viene messa in mano a Vittorio Zucconi. Non ci sono testimonianze precise di come giocasse l’Edilnord di Zucconi, ma l’editorialista di Repubblica, nel suo libro “Il calcio in testa”, ricorda che: «A Berlusconi non piaceva il gioco difensivista della squadra». Nella narrazione ufficiale questo è ovviamente il motivo per cui anche Zucconi fu mandato via, ma la realtà forse è più prosaica: Dell’Utri, ad esempio, dice che Zucconi cambiò semplicemente giornale e città (probabilmente si riferisce a quando venne assunto da “La Stampa”).

Quando Zucconi rincontra Berlusconi, televisivamente, in una Domenica Sportiva del 2004, cerca di stuzzicarlo con una battuta: «Lei non mi pagava mai. Ricordo che una volta, dopo aver affrontato il Milan in amichevole, disse che un giorno sarebbe diventato proprietario della squadra». Berlusconi, un uomo con cui non bisogna mai scendere nell’arena della provocazione ironica, risponde: «Non la pagavo perché i risultati non erano all'altezza. Ma dopo la squadra fu allenata da me e cominciammo a vincere».

L’Edilnord di Berlusconi, «una buona squadra con un eccellente tasso atletico e di fantasia» secondo il ricordo dello stesso ex presidente del Milan, nel 1967 è l’unica squadra milanese giovanile a punteggio pieno, e a quanto pare vinse i campionati milanesi allievi, juniores B e terza categoria. Ma lo fece ereditando il 4-3-3 di Dell’Utri, con il fratello, Paolo Berlusconi, prima punta («Segnava caterve di gol»), Adriano Galliani ala destra e Fedele Confalonieri in difesa. Il più grande risultato fu un 2-0 contro il Milan Primavera allenato da Francesco Zagatti che, secondo un settimanale dell’epoca, venne “aggredito sin dalle prime battute di gioco” con “mediani e terzini che si portavano frequentemente all’attacco”.

Nonostante giocasse con un modulo che successivamente Berlusconi dimostrò di detestare, quell’Edilnord fu l’incubatrice di tutta l’architettura tattica che Silvio cercò di importare al Milan negli anni successivi: dominio del possesso, gioco offensivo palla a terra, attacco per vie centrali. «Vorrei che il Milan possa fare quel gioco che ora si dice ‘alla Barcellona’ e che io praticavo da allenatore, nella squadra dei miei ragazzi: 24 passaggi di fila, mai più lunghi di quattro metri. Sarebbe il Milan che io preferisco. Quando il pallone si alza da terra e diventa cross, ci sono 9 possibilità su 10 di perderlo», disse una volta con sconcertante lucidità tattica.

Già a quei tempi, con dei ragazzini, Berlusconi cercava di salvare dall’estinzione il culto nostalgico del fantasista. «Una sera mi venne a prendere e mi disse: “Portami dai genitori di quel ragazzo”», ricorda Dell’Utri, riferendosi ad un certo Radice, un giovane fantasista con “grandissima visione di gioco” e “piedi sopraffini”. «Ci andammo. Lui fece e fece finché non convinse il padre a firmare per il figlio il cartellino dell’Edilnord: gli imbottì la testa di parole». Vent’anni dopo Berlusconi strappa Donadoni alla Juventus e la prima volta che lo vede dichiara: «Accenderà la luce di San Siro, come Rivera».

Per alcuni, però, in quel periodo Berlusconi è stato nient’altro che un fantasma. Massimo Nava, che oggi è un giornalista per il Corriere della Sera ma che allora faceva parte degli Allievi dell’Edilnord, dice di non averlo mai visto allenare. Anche un altro giocatore di quella Edilnord, Giovanni Ticozzi, qualche tempo fa ha smentito a Tuttosport che facesse davvero da allenatore: «Berlusconi non ha mai diretto nemmeno un allenamento: ci si trovava la domenica a Brugherio, lui dava le maglie».

2. Il rapporto ambiguo con Sacchi

Berlusconi, in realtà, non ha mai voluto fare l’allenatore perché è essenzialmente un uomo di spettacolo. Il suo carattere è il contrario di quello cerebrale e grigio di chi influenza le partite in maniera sottile, spesso silenziosa. Forse è solo un caso, ma Berlusconi non si è mai paragonato ad allenatori. Una volta, invece, ha detto che da giocatore sarebbe voluto essere Kakà.

Sarebbe facile dire che Berlusconi pensasse al suo ruolo come a quello di un fantasista, il solo in campo con una sensibilità tecnica e una comprensione eccezionale, in grado di cambiare le sorti di una partita con una sola giocata. Ma nei momenti migliori della sua era, più che altro, sembrava avere una concezione trinitaria della gestione di una squadra, in cui l’allenatore era il padre, il fantasista più estroso il figlio e il presidente lo spirito santo, intangibile ma non per questo meno decisivo per le sorti del club. Una volta Ancelotti, da allenatore, commentò così la sua assenza per via degli impegni da Presidente del Consiglio: «Per certi versi ci manca, ma la sua è una presenza in qualche modo costante. Non lo vediamo, ma sappiamo che c’è».

Per il Milan le cose hanno funzionato quando ci si è davvero avvicinati a questa visione utopica. Con Sacchi, ad esempio, la fusione fu quasi totale, al punto che oggi Berlusconi ripensando a quel Milan parla al plurale: «Con Sacchi inventammo la formula di un Milan che doveva essere padrone del gioco e del campo, per giocare divertendo, rispettando gli avversari, e facendoci quindi applaudire anche dai tifosi della squadra incontrata».

Berlusconi, Sacchi e Matarrese davanti a un sorbetto al limone (Foto LaPresse).

L’idea originaria di Berlusconi, quella di dare un’identità di gioco chiara e indistinguibile al Milan, era davvero rivoluzionaria in un paese così sportivamente cinico e ossessionato dal risultato: essere offensivi nella terra del catenaccio, difendersi in avanti mentre tutti aspettavano in area, significava essere diversi. E lo era ancora di più quando nel 1987 venne assunto Sacchi, perché il club rossonero era appena uscito da un lungo periodo di depressione, fatto di debiti, retrocessioni e scandali scommesse.

La prima volta che Berlusconi e Sacchi si incontrano ad Arcore, l’allenatore di Fusignano ricorda nella sua autobiografia che si misero a parlare di calcio per sei ore di fila: «Dopo le due sconfitte consecutive in casa in Coppa Italia contro il mio Parma, Berlusconi comprese che forse ero io l’allenatore che cercava, perché mettevo in campo un calcio che gli piaceva, divertente, aggressivo, spettacolare, senza paura». Eppure, non era affatto scontato che il loro connubio funzionasse: al di sotto della scorza superficiale di un gioco offensivo e spregiudicato, Berlusconi e Sacchi avevano in realtà due concezioni di calcio molto diverse, quasi opposte.

Sacchi era un allenatore riflessivo, che credeva nella supremazia del cervello sul piede, cioè dell’intelligenza tattica collettiva sul talento tecnico individuale. Nella sua autobiografia scrive: «Ho sempre creduto che tutto dovesse partire da un club organizzato, moderno, che metta al centro prima la persona, alla costante ricerca dell’eccellenza, poi il giocatore funzionale e complementare agli altri, e infine il talento». Berlusconi, che nella sua carriera da presidente ha collezionato grandi trequartisti come opere d’arte sublimi, era invece intimamente convinto che il calcio dovesse preservare l’unicità del talento, soprattutto quello creativo e realizzativo, e che tutto, tatticamente parlando, dovesse essere finalizzato per mettere questo talento nelle condizioni migliori per esprimersi.

Berlusconi tra Baggio e Weah (foto LaPresse).

«Personalmente ritengo che il sale dello spettacolo sia rappresentato dalla realizzazione delle reti, che sono semplicemente la conclusione del lavoro preparatorio del centrocampo», ha detto una volta. «Ed è nel momento finale e magico del gol che si realizza la massima espressione della tecnica individuale».

3. Borghi e gli altri trequartisti

Forse è per questo che uno dei momenti – l’unico, secondo Sacchi - in cui queste due visioni si sono scontrate in maniera palese è quando Berlusconi comprò Claudio Borghi, un trequartista argentino che vide l’apice del suo talento in un’Intercontinentale del 1985 tra Argentinos Juniors e Juventus. Dopo quella partita, Platini soprannominò Borghi «il Picasso del calcio» e Berlusconi, che non voleva essere battuto sul piano dell’enfasi, lo presentò dichiarando in conferenza stampa che: «Sarà, senza dubbio, molto meglio di Maradona».

La top XI dei giocatori più amati da Berlusconi.

Borghi fu acquistato dal Milan nell’estate del 1987 ma fu girato immediatamente in prestito al Como. Nell’estate del 1988 Berlusconi voleva finalmente farlo tornare alla base, ma Sacchi, che al suo posto voleva prendere Rijkaard, era talmente contrario che minacciò addirittura di dimettersi.

Borghi era indolente e detestava gli allenamenti fisici di Sacchi. Una volta gli disse: «Perché devo correre per 5 kilometri se il campo è lungo solo 100 metri?». Non sorprende, quindi, che Sacchi lo descriva come «esattamente il contrario di quello che volevo io dal punto di vista comportamentale ed etico». Ma ciò che Sacchi rimproverava di più a Borghi era il fatto che giocasse “un calcio individuale”, che con ogni probabilità era quello che piaceva di più al suo presidente: «Si muoveva poco in fase offensiva, mentre in fase difensiva era inesistente», dice l’allenatore di Fusignano nella sua autobiografia.

Berlusconi alla fine fu costretto ad accettare l’ultimatum di Sacchi (che aveva riportato il Milan allo scudetto al primo tentativo, dopo quasi 10 anni senza trofei), ma in principio la prese malissimo. Alcune ricostruzioni giornalistiche dicono che all’inizio convocò Sacchi ad Arcore e gli disse: «Sa cosa faccio? Compro la Lazio, faccio giocare Borghi, vengo a San Siro e batto il “suo” Milan». Secondo l’allenatore di Fusignano, invece, Berlusconi semplicemente si allontanò dal club rossonero, confermando in un certo senso il rapporto calcisticamente simbiotico che li legava in quel periodo: «Quando lo incontrai gli dissi: “O lei torna a fare il presidente o mi manda via! Non può fare come il marito tradito che per fare dispetto alla moglie si taglia i coglioni”».

Berlusconi e il Milan dopo la vittoria della Coppa dei Campioni del 1989 (Foto LaPresse).

Ma l’ambiguità del rapporto tra Berlusconi e Sacchi ha radici più profonde (i due non discussero solo di Borghi, ma anche di acquisti come Ancelotti e Colombo, che Berlusconi inizialmente non voleva prendere), che affondano proprio nell’opposta “concezione ideologica” che i due avevano del calcio. In alcune dichiarazioni successive alla doppia esperienza di Sacchi al Milan, è sembrato quasi che Berlusconi si fosse pentito di aver contribuito a rivoluzionare il calcio in un modo che strideva così tanto con le sue idee romantiche sul talento.

«Oggi in Italia è difficile vedere una bella partita, e non mi riferisco soltanto al Milan. Non credo la causa sia l’assenza dei talenti, ma il gioco eccessivamente combattivo. Il talento non fa in tempo a esprimersi: appena ha la palla tra i piedi, deve subire il tackle», ha dichiarato Berlusconi nel 2000. «Oggi il pressing è la norma, lo fanno anche gli attaccanti. Quando ho preso Sacchi dal Parma, era soltanto lui che lo predicava. Ora sembra di assistere a certi incontri di pugilato con tanti corpo a corpo, ma poca scherma».

Questo contrasto, che non si esplicitò mai direttamente tra i due, si sublimò nella figura di Roberto Baggio, che con Sacchi ebbe un rapporto disastroso e che invece Berlusconi, ovviamente, amava alla follia. «Nel Milan Baggio fu utilizzato come seconda punta, oggetto di attenzioni dei difensori avversari» disse a proposito Berlusconi. «Lui è un tradizionale numero 10, si esalta negli spazi, non quando è seguito da avversari che si occupano soltanto di impedirgli di giocare».

Berlusconi incontra Baggio nel 2004, in occasione dell’ultima partita della sua carriera.

Berlusconi continuò a parlare di Baggio come se fosse un animale in via d’estinzione anche quando passò all’Inter. D’altra parte, prese sempre la parte dei suoi trequartisti più estrosi, che cercavano in lui una sponda per ritrovare quello spazio e quella libertà che l’evoluzione tattica gli avevano tolto. Fabio Capello, probabilmente l’allenatore più furbo passato nel Milan di Berlusconi, una volta prese Savicevic sotto braccio e gli disse: «Ascolta, Dejan: se il presidente ti chiede perché giochi sulla fascia, digli che sei stato tu a volerlo. Ok?».

I grandi fantasisti passati per il Milan hanno sempre ripagato Berlusconi per questo amore incondizionato, e i racconti dei loro incontri sembrano parlare di un antico imperatore dalla natura divina. Boban raccontò che la prima volta che si incontrò con lui rimase «impressionato dalla bellezza dell’antico Palazzo e dal presidente. La sua classe e naturalezza erano disarmanti». Rivaldo, addirittura, si commosse: «Non so dirvi che sensazione sia: di sicuro non capita tutti i giorni di vivere una situazione del genere».

Sembrava davvero che il gusto per il genio creativo del calcio potesse portare il rapporto tra Berlusconi e i giocatori che preferiva su un livello personale: «Io mi affeziono ai miei giocatori. Li rimpiango sempre, mantengo con loro un’amicizia». Dichiarazioni di questo tipo Berlusconi le ha sempre riservate ai numeri 10, e mai agli allenatori, a cui al massimo concedeva la fredda carezza della stima.

4. Un’idea negativa di vittoria

Il progetto di un Milan dall’identità tattica definita, comunque, morì con la fine della prima gestione Sacchi, ma non senza lasciare nella retorica berlusconiana un afflato costante verso un’idea del tutto astratta di “bel gioco”.

Quello del rapporto tra la spettacolarità del gioco e la sua efficacia è un argomento archetipico del calcio, che Berlusconi, ovviamente, ha interpretato in maniera molto originale. Per l’ex presidente del Milan la spettacolarità e la vittoria erano due mondi non comunicanti, consequenziali a volte, ma mai in relazione tra loro, come se il massimo scopo di una squadra potesse essere solo giocare bene, qualsiasi cosa significhi. «Sinora ho visto una squadra che fa calcio e spettacolo, e sono contento che ci si fermasse qui», disse di uno dei primi Milan di Ancelotti. «Il mio gusto per il bel calcio è tale».

Ancelotti e Maldini sollevano Berlusconi con la Champions League del 1990 (Foto Getty Images).

Anche Galliani, in forme e modi diversi, ha ripetuto più volte questo mantra: «Il presidente non ci ha mai chiesto di vincere lo Scudetto o la Champions League. Lui pretende una sola cosa: il bel gioco, lo spettacolo. Ogni volta che lo sento, mi ripete sempre questo».

A volte sembrava addirittura che Berlusconi avesse una concezione negativa della vittoria, come se quella di vincere fosse una maledizione a cui li aveva condannati una divinità vendicativa, con l’intento di impedirgli di schierare una squadra puramente estetica, senza scopi che non fossero l’eleganza del possesso palla, o la bellezza artistica della creatività sulla trequarti: «Noi vinciamo sempre, siamo votati a vincere, come ho sempre fatto io in tutta la mia vita: è una condanna».

Quando parla della vittoria Berlusconi perde quella leggerezza ironica che contraddistingue ogni sua dichiarazione. La prima volta che conosce Vincenzo Pincolini, che diventerà lo storico preparatore atletico del Milan, gli dice: «Qui c’è il lavoro e il sudore. Ma mancano le lacrime: solo con quelle puoi conquistare il mondo».

Berlusconi non ha mai chiesto di schierare il Milan, o di farlo giocare in un certo modo per vincere. La vittoria per lui aveva un valore essenzialmente simbolico e quindi politico. «È il trionfo del bene», dichiara dopo aver vinto la prima Coppa dei Campioni, nel 1989 contro la Steaua Bucarest. Quando incontra Giovanni Paolo II in una visita di Stato gli dice: «Santità, l’ammiro molto perché lei porta in giro per il mondo, cioè anche in trasferta, un’idea vincente, che è l’idea di Dio».

Berlusconi e Schroder assistono ad un Borussia Dortmund – Milan di Champions League nel 2002 (Foto di Scheidemann / DPA / LaPresse).

Forse è solo una coincidenza, ma il Milan ha abbandonato l’utopia dell’identità tattica mano a mano che Berlusconi si avvicinava alla politica, un mondo in cui presentarsi come vincente era cinicamente necessario. Simbolicamente, la realtà non poteva darci una rappresentazione migliore di questo cambio di paradigma: nel 1991 Sacchi viene sostituito da un allenatore fin troppo pragmatico come Capello, che vince la Coppa dei Campioni contro il Barcellona di Cruyff nell’anno della “discesa in campo” del suo presidente (e quando Sacchi tornerà sulla panchina del Milan sarà un disastro).

Sugli altari elettorali, forse, Berlusconi ha sacrificato parte della sua ideologia calcistica romantica. All’indomani della finale dell’Europeo del 2000, e meno di un anno prima delle elezioni politiche che lo consacrarono Presidente del Consiglio per la seconda volta, se la prese con Zoff per non aver preparato una marcatura a uomo su un fantasista che solo qualche anno prima avrebbe venerato come un eroe greco: «Anche un dilettante se ne sarebbe accorto e avrebbe vinto, fermando Zidane. Non avrebbe scorrazzato tanto con Gattuso alle calcagna».

Quello di intervenire direttamente nel lavoro degli allenatori divenne una pratica sempre più comune, mano a mano che Berlusconi veniva risucchiato dai suoi impegni politici, probabilmente per rendere più palese possibile che fossero proprio le sue idee tattiche a portare alle vittorie del Milan. Così facendo, Berlusconi ha finito col trasfigurare l’identità di gioco in identità di modulo.

5. La fissa delle due punte

Berlusconi, in realtà, era perfettamente cosciente che il modulo, nel modo di giocare di una squadra, contasse relativamente. Una volta disse di aver discusso di questo con Capello e che arrivarono alla conclusione che: «Non ci fosse un modulo unico per una squadra. Bisogna adattarsi alle situazioni». O ancora: «Importante non è il numero degli attaccanti, ma l’attitudine al gioco d’attacco della squadra».

Ma associare un qualcosa di astratto e intangibile come l’identità di gioco alla sua figura era troppo complicato, troppo idealista, e il Berlusconi politico voleva che il suo impatto sulle vittorie del Milan fosse facilmente riconoscibile a tutti. «Si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi. Sembra che io non esista, eppure sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compro i giocatori», disse una volta con una di quelle battute che rivelavano esattamente come la pensava.

Come prima cosa, Berlusconi cercò di appropriarsi dei successi del Milan retroattivamente, riscrivendo la storia. Successe con Sacchi e Zaccheroni, che vinse uno Scudetto del tutto insperato adottando, almeno inizialmente, il 3-4-3 (la difesa a tre fu un’altra chimera berlusconiana). «Lui come Sacchi, su insistenza del presidente, ha cambiato modulo: Sacchi mise Donadoni dietro a Virdis e Gullit dopo l’infortunio di Van Basten», disse una volta «Zaccheroni, dopo la partenza a 3 punte, ha inserito Boban. Ed è cominciata la rincorsa».

Questa versione dei fatti, sempre smentita da Zaccheroni, sia da allenatore del Milan che dopo, trovò un’incredibile sponda nello stesso Boban - uno dei più grandi amori berlusconiani - che rivelò una conversazione con l’allora presidente del Milan, intorno a Natale, quando lo Scudetto non sembrava ancora possibile. A quanto pare, Berlusconi gli chiese se gli fosse piaciuto giocare da 10 classico e Boban rispose: «È come chiedere a lei se le piace fare il presidente del Milan».

In seguito, Berlusconi provò a sovrapporsi alle vittorie del Milan in tempo reale, con l’effetto paradossale che i suoi sproloqui tattici arrivarono nei momenti di maggiore successo e nei confronti dell’allenatore più vincente della sua gestione, cioè Ancelotti. Per dire, la famosa invettiva contro l’allenatore emiliano in cui si imponeva che «ogni tecnico del Milan, da lunedì in avanti, dovrà obbligatoriamente schierare in campo due punte», arrivò dopo un’epica vittoria nel derby per 3-2. «Avete visto come sono arrivati i due gol?», chiese ai giornalisti dopo quella partita «Perché c’era una punta larga e una avanti al portiere. E il secondo di Kaká è arrivato perché le due punte hanno fatto spazio».

Berlusconi e Ancelotti dopo un trofeo Berlusconi del 2006 (foto di Giuseppe Cacace / Stringer).

Da quel momento in poi, Berlusconi divenne sempre più ossessionato dal modulo con il trequartista alle spalle delle due punte. Una volta ne diede addirittura un’interpretazione psicologica: «Andare in campo con due punte significa: io sono qui per vincere, per costringerti a difendere. Andare in campo con una punta nel linguaggio delle formazioni significa: ti temo, cercherò di difendermi dai tuoi attacchi e se mi va bene, magari in contropiede, qualche golletto lo realizzo anche io».

Si era così passati dall’identità di gioco all’identità di modulo, almeno a parole. Berlusconi dichiarò che «il Milan ha sempre giocato con due punte», mentre Galliani riuscì ad andare anche oltre, dicendo che «il Milan è nato per giocare con quattro difensori, una mezzapunta e due punte».

Ancelotti, come quasi tutti gli altri allenatori passati per il Milan di Berlusconi, ha sempre negato che in realtà ci fossero “suggerimenti o intromissioni” nel suo lavoro, e anzi nel suo libro “Il mio albero di Natale” racconta in chiave esclusivamente tattica il passaggio al 4-3-1-2, che adottò per mettere Ricardo Kakà nelle condizioni migliori di esprimersi. Sorprendentemente, Ancelotti rivela che il vero dogma (lo chiama proprio così) nel Milan non erano le due punte ma la difesa a quattro.

C’è da dire che il tecnico emiliano ha sempre preso con grande signorilità le esternazioni del suo presidente, anche quando questo utilizzava i mezzi più subdoli per appiccicare il suo nome sui trionfi del Milan. Nell’autunno del 2003, dopo la finale di Champions League vinta contro la Juventus, nell’appendice del libro di Bruno Vespa “Il cavaliere e il professore” comparvero in maniera sospetta una serie di documenti con gli schemi previsti per quella storica partita, facendo maliziosamente intendere che Berlusconi li avesse imposti al suo allenatore: «A sentire il Cavaliere, anche tutte le sostituzioni di quella partita sono state concordate» (Vespa poi precisò alla Gazzetta dello Sport che gli schemi li avevano tracciati insieme).

Berlusconi portato in trionfo dopo la finale di Champions League contro il Liverpool nel 2007 ad Atene (foto di Olivier Morin / Getty Images).

Per dimostrare la paternità di quei documenti Ancelotti fu costretto ad appellarsi addirittura alla calligrafia, senza però dimenticarsi di aggiungere quanto amasse «parlare di calcio con Berlusconi» e quanto gli facessero piacere «i suoi consigli da grande intenditore».

6.Berlusconi, il personaggio

Dopo Ancelotti, Berlusconi rimase imprigionato nel personaggio che si era costruito negli anni precedenti, senza nemmeno più l’ambizione di sfruttare nelle urne i successi del Milan. Le sue fisse tattiche – il trequartista, il gioco spettacolare, il possesso palla difensivo – divennero degli sketch da ripetere davanti alle telecamere, dei tic mediatici, che usava con un disprezzo sempre più esplicito verso i suoi allenatori quando i risultati peggioravano.

Si passò così dagli insulti nemmeno troppo velati ad Allegri («No el capisse un casso», rispose una volta ai giornalisti in veneto, quando gli chiesero se gli avesse passato dei consigli tattici in vista un Barcellona-Milan di Champions League); alla freddezza glaciale nei confronti di Montella («Volevo che sulla panchina restasse Brocchi. Ma ero in un letto d’ospedale, tra la vita e la morte. E mi dissero Montella»); fino ad arrivare alle scene fantozziane con Filippo Inzaghi, che in “My Way”, documentario di Alan Friedman, non riesce a gridare “Attaccare!” alla squadra forte come vorrebbe il suo presidente («Vuol dire attaccare la palla al nostro piede», spiega Berlusconi allo spogliatoio basito, in una delle scene più surreali di tutto il documentario).

Poco prima di umiliare Inzaghi, Berlusconi spiega alla squadra come deve attaccare la porta su palla inattiva.

Da quando ha lasciato la società, Berlusconi sembra ferito, triste di non poter lasciare un’impronta tattica su una squadra che considera ancora “sua”, e che da quando se n’è andato ha quasi sempre giocato – con grande ironia - o con il 4-3-3 o con la difesa a tre. In queste ultime settimane ha parlato di “forte dolore” nel veder giocare il Milan con tre attaccanti e si è detto: «Dispiaciuto per il fatto che certe considerazioni sul modulo con cui il Milan deve stare in campo non vengano prese in considerazione da coloro che invece dovrebbero pensarci».

Oggi il ricordo del passato, per come ci è stato trasmesso, è difficilmente distinguibile dalla realtà e non è chiaro se Berlusconi l’abbia effettivamente mai avuta, quest’influenza, o se semplicemente gli piacesse parlare di tattica con i suoi allenatori e ci volesse far credere che decidesse tutto lui. Quando la sua autoironia era più sottile, Berlusconi sembrava più consapevole di interpretare solo una parte, con cui i suoi allenatori più intelligenti hanno saputo interagire, come in un quotidiano teatro dell’arte da recitare solo per la stampa, e quindi per noi.

Nell’aprile del 1994 il Milan sta festeggiando il suo terzo Scudetto di fila al ristorante “Giannino” del capoluogo lombardo. C’è una torta rossonera larga due metri e lunga uno e mezzo. La sala è piena di invitati e giornalisti, che scorrazzano tra i giocatori festanti. In mezzo alla sala c’è Berlusconi, raggiante, che intrattiene un tavolo di giornalisti con alcune delle sue battute: «Non sono cattolico, ma capisco i cattolici, in fondo anche il tifo è una sorta di religione». Poi chiama a sé Fabio Capello, la sua seconda incredibile scommessa azzeccata di fila dopo Arrigo Sacchi, che fino a quel momento era rimasto in disparte con la moglie.

«Fabio, venga. Venga qui con noi, si sieda», gli urla Berlusconi puntandolo con un dito, mentre Capello obbedisce.

«Glielo dica, Fabio, glielo dica: quante volte le ho suggerito la formazione?».

«Sempre, presidente», risponde Capello.

«E quante volte lei l’ha fatta?», ribatte Berlusconi prontamente.

«Mai, presidente».

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