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Bisogna parlare del problema delle concussion
15 nov 2023
I colpi alla testa previsti da molti sport hanno effetti devastanti ancora poco indagati nelle loro conseguenze.
(articolo)
16 min
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IMAGO / ITAR-TASS
(copertina) IMAGO / ITAR-TASS
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A Mike era cominciata così. Una mattina di metà dicembre era sceso in garage a prendere l’auto: aveva infilato la solita chiave nella serratura della portiera, senza riuscire ad aprirla. Era rimasto interdetto, poi aveva riprovato. «Cazzo, non dirmi che si è rotta…», pensava. Dopo qualche tentativo andato a vuoto si era fermato a esaminare le chiavi. La scena, vista dall’esterno, era comica: Mike Webster, un colosso che aveva calcato i campi da football ai massimi livelli, osserva confuso un oggetto così semplice, in quelle sue mani enormi. Finché ecco l’illuminazione: non erano le chiavi della macchina, ma quelle della porta di casa sua.

Chris la guarda mentre dorme: Nancy ha il viso candido incorniciato da capelli neri tagliati con la frangia. È notte nella loro casa in Georgia, ma non riesce a prendere sonno. Ripensa a quel pomeriggio. «È successo di nuovo», si dice. Per la terza volta in due mesi era stato aggressivo con sua moglie. Non sapeva perché, succedeva e basta. Capitava durante alcune discussioni più accese del solito: Chris perdeva letteralmente il controllo, cominciando a lanciare oggetti per aria, urlando furibondo. Nel pomeriggio aveva sfiorato Nancy con un soprammobile di ceramica. Non era mai stato un uomo così aggressivo al di fuori del ring del wrestling, dove tutti lo conoscono bene come Chris Benoit, uno dei wrestler americani più famosi in assoluto.

Il giornalista lo chiama puntuale, poco prima di pranzo. Micky sta sorseggiando un caffè e risponde volentieri alle domande, quella mattina si sente bene. Ripercorre alcuni incontri storici della sua carriera, tra cui le battaglie con Arturo Gatti. Spiega che quando fai il pugile non ti preoccupi dei rischi a cui ti esponi. Micky Ward lo sa eccome, non si è mai risparmiato sul ring, regalando spettacolo con prestazioni da vero guerriero. In chiusura di intervista, il giornalista gli chiede cosa consiglierebbe ai giovani pugili. Micky beve un sorso di caffè e si rabbuia per un momento. Poi risponde: «Di essere onesti con sé stessi e di ascoltare l’angolo, il coach ma anche i dottori». Dopo un attimo di silenzio, conclude: «Perché non augurerei mai a nessuno di provare quello che il mio cervello combina in certi giorni».

I morti parlano

Le commozioni cerebrali sono state indagate per secoli. Ippocrate, il padre della medicina, ai tempi dell’antica Grecia menzionava nelle sue opere la commotio cerebri, scrivendo come una scossa o un colpo violento alla testa potessero causare la perdita di eloquio, udito e vista. Centinaia di anni dopo si è cominciata a fare una distinzione tra i traumi cranici gravi, in grado di uccidere una persona, e un fenomeno più lieve che causa vertigini e svenimenti ma da cui è possibile riprendersi. Il medico italiano Berengario da Carpi, considerato un pioniere dell’anatomia, nel Cinquecento, dopo aver sezionato centinaia di cadaveri, ha teorizzato come la commozione cerebrale fosse causata dall’impatto della struttura molle del cervello contro l’alloggiamento della scatola cranica, in seguito a una spinta. Di conseguenza, il cervello riporta una contusione urtando contro le pareti che in teoria dovrebbero proteggerlo.

Nel Novecento diversi studiosi notano situazioni di degenerazione mentale in pazienti che avevano subìto lesioni craniche lievi, arrivando alla conclusione che la commozione cerebrale non è una condizione solo transitoria, ma può comportare lesioni cerebrali strutturali, che non si risolvono e anzi causano alterazioni degenerative secondarie. Nel 1928 il patologo forense Harrison Martland pubblica un articolo sulla rivista di neurologia dell’Associazione Medica Americana dal titolo Sbronza di cazzotti. Martland si era concentrato sui pugili, atleti che all’epoca erano molto popolari, perché aveva notato che molti di loro manifestavano comportamenti sospetti dopo anni di combattimenti. Avevano atteggiamenti stravaganti finché impazzivano, venivano rinchiusi nei manicomi dove diventavano dementi, si chiudevano in loro stessi e morivano.

Uno scatto dal match tra i pesi massimi Tommy Burns (a sinistra) e la leggenda del ring Jack Johnson. Correva il 1908 e a quei tempi si combatteva per 15 round. A fine carriera i pugili si ritiravano con circa 100 incontri disputati.

Martland sospetta che gli accada qualcosa a livello cerebrale e nota come sia un fenomeno diffuso soprattutto in quei pugili che incassano tanti colpi alla testa. Scrive: “Alla base della sbronza di cazzotti sussiste una lesione cerebrale ben definita, dovuta a colpi singoli o ripetuti alla testa e alla mascella, che causano emorragie multiple nelle parti più profonde del cervello”. Martland non ha mai fatto un’autopsia a un cervello di un pugile, ma gli sembra la deduzione più logica. Il cervello dei pugili subiva delle contusioni che cicatrizzandosi comportavano un’atrofia cerebrale, ovvero una riduzione delle dimensioni del cervello. A suo parere questo era un fatto grave che non poteva essere più ignorato, sia dai medici che dal pubblico. Ma, come scrive Jeanne Marie Laskas nel suo Zona d’ombra, da cui è stato tratto l’omonimo film con Will Smith, “invece lo fu, perché la gente adorava la boxe”. Quasi un secolo dopo, una neurologa che ha lavorato per anni come medico a bordo ring ha definito il pugilato “una bellissima malattia”. Una definizione ma un po' crudele nel suo senso letterale ma sicuramente efficace.

Nel 1973 il neuropatologo inglese John Arthur Nicholas Corsellis esamina il cervello di quindici ex pugili morti per cause naturali, dopo aver dato segnali di demenza. Corsellis scrive di aver notato un danno al tessuto cerebrale, che appariva contuso, ammaccato, gonfio e atrofizzato con delle pieghe irregolari. È quindi evidente che i soggetti in esame avessero accusato un danno cerebrale, e Corsellis battezza questa scoperta con il nome di demenza pugilistica. Il neuropatologo spiega: “Vi è il pericolo che un singolo, o ripetuti pugni alla testa lascino il segno per ragioni ignote. La distruzione di tessuto cerebrale sarà allora cominciata e potrà accrescersi se l’attività pugilistica proseguirà. Il tessuto cerebrale distrutto non può essere sostituito, e inoltre c’è il rischio che il processo di degenerazione continui anche dopo che l’attività sia cessata”.

Studiando quei cervelli al microscopio, Corsellis aveva trascritto in dettaglio le alterazioni notate. Quelle stesse alterazioni le stava riscontrando trent’anni dopo il dottor Bennet Omalu osservando il cervello di Mike Webster (una storia che abbiamo già raccontato qui). Webster era finito sul tavolo dell’obitorio in cui lavora Omalu a causa di un infarto, aveva 50 anni. Come sapevano in tanti, dopo il ritiro dal football Webster era stato affetto da scoppi d’ira incontrollata, si dimenticava di mangiare, una volta aveva pisciato nel forno di casa davanti ai figli. Soffriva di vuoti di memoria e aveva dolori lancinanti in tutto il corpo che lo rendevano dipendente dai farmaci. Quando i sintomi erano peggiorati, Webster si era dato al vagabondaggio e viveva nella sua auto. Ormai aveva mani e piedi fratturati in più punti, i denti cominciavano a cadergli e se li riattaccava alle gengive con la colla. Poco prima di morire si era comprato un taser, lo usava sul ventre o sulle cosce. Era diventato l’unico modo per riuscire a dormire.

Un estratto su Mike Webster dal documentario "League of Denial".

Corsellis parlava di “ammassi neurofibrillari”, ovvero accumuli di una proteina chiamata tau, che funge da lubrificante e che è presente anche in un cervello sano. Qual è la relazione allora? Sappiamo che il cervello umano galleggia nel liquido cerebro-spinale all’interno del cranio. Quando la testa subisce un urto improvviso, il cervello schizza in avanti e indietro, in un movimento di accelerazione e decelerazione, allungandosi e contraendosi oppure torcendosi, ruotando, a seconda della direzione dell’impatto. Questa dinamica ha delle ripercussioni a livello cellulare: allungandosi, le fibre di alcune cellule possono danneggiarsi, e quando ciò accade c’è il rischio che dal corpuscolo danneggiato fuoriesca la proteina tau.

Come detto, si tratta di una proteina che è presente normalmente nei neuroni del nostro cervello ed è fondamentale per un sano funzionamento del nostro sistema nervoso. A lungo andare e dopo ripetuti traumi, però, le proteine tau fuoriuscite si accumulano creando dei grumi che soffocano le cellule cerebrali, diminuendo la loro efficacia ed efficienza, prima di ucciderle del tutto. Questo fenomeno spesso colpisce le aree del cervello deputate alla cognizione, alle funzioni esecutive, ad alcuni aspetti della memoria e del ragionamento - gli stessi accumuli di proteina tau erano stati scoperti nei cervelli di pazienti malati di Alzheimer. È come se si versasse del cemento liquido nelle tubature della cucina di casa propria: appena si solidifica, intasa irrimediabilmente il sistema, facendolo collassare.

Nella mente del dottor Omalu il collegamento è immediato: era per quello che i pugili impazzivano, ed era per quello che lo aveva fatto Webster. Questa volta non c’entra la boxe ma un altro sport da contatto, in cui avvengono moltissimi contrasti che coinvolgono le teste dei giocatori: il football americano. La loro viene definita encefalopatia traumatica cronica o CTE.

Qui bisogna tirare in ballo l'anatomia. La testa di un picchio comune è predisposta per consentire all’uccello di picchiettare un albero fino a 12 mila volte al giorno, fino a 85 milioni di volte nell’arco della sua vita, grazie alla sua lingua che avvolge cranio e cervello in una specie di cintura di sicurezza, per poi fuoriuscire dalla narice. Un discorso identico si può fare per il montone e per altri animali simili. Tuttavia, neanche una singola parte dell’anatomia umana ci protegge da forti impatti che coinvolgono la testa. Webster potrebbe aver subìto fino a 25 mila collisioni violente in carriera – anche perché il ruolo di centro è quello più esposto nel football - e per alcuni di questi, a livello di forza sprigionata, è stato come se lo avessero colpito sul casco con un martello da muratore.

A sinistra un cervello normale, a destra uno affetto da CTE. La differenza è evidente (foto Boston University Center for the Study of Traumatic Encephalopathy).

Nel tempo la CTE è stata diagnosticata a 345 ex giocatori della NFL e ad altre tipologie di sportivi: pugili, wrestler, fighter di MMA (sport in cui si registrano ancora pochi casi perché ha una storia giovane e perché, grazie ai guantini meno imbottiti dei guantoni da boxe, gli atleti vanno KO prima, evitando ulteriori colpi quando sono già storditi), giocatori di hockey, di rugby e anche di calcio (per via dell’impatto con il pallone, quando lo si colpisce di testa, o con altri giocatori; per ora sono stati scoperti quattro casi). Insomma in tutti quegli sport che implicano ripetuti urti e infortuni alla sommità del nostro corpo.

Ma non solo: anche i militari soggetti a ripetute esplosioni, come quelli impiegati in zone di guerra, ne sono a rischio. Uno studio recente ha scoperto più di 60 casi di CTE in atleti morti prima dei 30 anni, affermando come la malattia neurodegenerativa possa colpire anche in età giovanile. Inoltre, è stato dimostrato che circa il 20% degli atleti affetti da CTE non hanno mai avuto commozioni cerebrali diagnosticate; quindi si è concluso che i colpi subconcussivi, ovvero i piccoli impatti, che non causano sintomi immediati ma che vengono ripetuti nel tempo, sono i più dannosi. Ci sono diversi casi sospetti: nel 2012 un linebacker dei Kansas City Chief di 25 anni ha ucciso la sua ragazza prima di spararsi; un altro giocatore, condannato per omicidio nel 2013, si è suicidato a 27 anni; un difensore della NFL di 32 anni si è ammazzato dopo aver ucciso sei persone nell’aprile del 2021, e la lista è lunga. Ovviamente è difficile indicare a posteriori una singola causa scatenante ma è importante iniziare a prendere questi fattori in considerazione.

Oltre il football

Il 25 giugno 2007 la polizia irrompe in casa di Chris Benoit, icona del wrestling professionistico, dopo che aveva saltato alcuni impegni lavorativi. Gli agenti trovano i cadaveri del wrestler, della moglie e del figlio. Dopo pochi giorni la dinamica diventa chiara: venerdì Benoit aveva strangolato la moglie, dopo averne legati mani e piedi; sabato era toccato al figlio di sette anni, soffocato mentre era sedato dopo aver ingerito dello Xanax; domenica Benoit si era impiccato appendendosi a un macchinario nella sua palestra domestica, ma non prima di aver posizionato una Bibbia accanto ai corpi dei familiari e aver mandato degli SMS confusionari a colleghi e amici. Inizialmente le motivazioni di un gesto così estremo vennero trovate nell’abuso di steroidi, ma quando il cervello di Benoit fu studiato gli fu diagnosticata la CTE, trovata in seguito nel cervello di molti altri wrestler.

Nel 2010 esce al cinema il film The Fighter, che vanta un cast di alto livello e si aggiudica due Premi Oscar, due Golden Globe e molti altri riconoscimenti. La pellicola racconta la storia vera di Micky Ward, pugile americano di origini irlandesi campione dei pesi superleggeri, noto per la trilogia di combattimenti contro l’italiano naturalizzato canadese Arturo Gatti, amato dai fan per le sue doti da incassatore. Ward appende i guantoni al chiodo nel 2003, a 38 anni, dopo aver disputato 51 incontri con un bilancio di 38 vittorie e 13 sconfitte. Poco dopo il ritiro, il pugile americano comincia a soffrire di mal di testa atroci, come ha raccontato al The Herald: «Mi succede circa cinque volte a settimana. È terribile, mi fanno venire la nausea, mi svuotano. E quando non ce li ho, vivo con la preoccupazione che mi vengano». Segnali che i medici hanno interpretato come chiari sintomi da CTE. Ward ha raccontato di aver cominciato con la boxe a 7 anni, e oggi sconsiglia ai genitori di iscrivere i loro figli così presto a corsi di pugilato.

Diversi studi hanno dimostrato che prima un atleta comincia sport da contatto e più è a rischio di CTE. I bambini hanno una testa piuttosto grande su un collo ancora debole, e ad ogni urto – come abbiamo già spiegato – il cervello sobbalza e provoca l’allungamento delle fibre nervose; un fenomeno ancora più acuto su una struttura fisica in via di sviluppo. Un altro atleta che mostra tutti i segnali della CTE ha definito così la sua sensazione: «Prima sei presente, poi non ci sei più. È come se mi stessero seppellendo vivo, poco alla volta».

Gli esperti non sanno ancora perché solo certe persone tra chi subisce colpi e traumi ripetuti alla testa sviluppino la CTE, né quante lesioni e quanta forza siano necessarie per provocare questo disturbo. Poco dopo la sua scoperta rivoluzionaria, Omalu è passato a studiare la realizzazione di test che diagnostichino la CTE in pazienti ancora vivi, per poter cominciare a ragionare su una possibile cura alla malattia: potrebbe essere un farmaco da assumere prima di performance sportive a rischio che tuteli gli atleti da queste conseguenze devastanti. Una soluzione sembra ancora lontana, nel frattempo si stanno perfezionando nuovi protocolli di allenamento e di recupero dai traumi che tutelino di più gli atleti.

Ma tanti, troppi sportivi continuano a soffrire: alcuni ridotti ai margini della società, altri supportati e assistiti dalle famiglie in un lento ma inesorabile logoramento fisico e mentale. Una tragedia silenziosa, che non fa breccia sulle luci dei maxischermi sui campi da football, e che non arriva sul ring o sull'ottagono. Ma c’è qualcuno disposto a rinunciare a questi sport? A cambiarne le regole, mutandone la natura? I primi contrari probabilmente sarebbero gli atleti stessi, che hanno trovato una ragione di vita in una disciplina sportiva a cui non rinuncerebbero per nulla al mondo. Hanno vinto sui loro demoni, hanno raggiunto il successo, la fama, la ricchezza, sì, ma a che prezzo? Con il rischio di ritrovarsi paranoici, depressi, dementi, moribondi. Quando si spengono le luci della ribalta e il pubblico rivolge l’attenzione altrove, l’ombra avvolge le vite di chi un tempo è stato eroe, beniamino, esempio, restituendone un involucro smunto, consumato, vuoto. Con un cervello irriconoscibile.

Lo aveva detto nel 2009 un membro del “Comitato per le lesioni cerebrali traumatiche lievi” della NFL – una commissione che ha negato a lungo la correlazione tra CTE e football per tutelare lo sport ed evitare che la NFL dovesse risarcire o pagare le spese mediche dei suoi vecchi beniamini: «Sappiamo che l’incidenza nella CTE nei pugili si deve alla lunghezza della loro carriera. Se volessimo applicarla al football – e non dico che si possa fare – dovremmo quindi costringere i giocatori a interrompere la propria carriera dopo sei o sette anni. Perché uno sportivo al top dovrebbe smettere proprio mentre sta facendo milioni di dollari? Il football è uno sport violento. Se volete, possiamo trasformarlo in qualcosa di simile che non prevede il contatto fisico. Personalmente sarei d’accordo, ma non credo che i tifosi lo sarebbero altrettanto. Quindi che altro si può fare?».

D’altronde parliamo di uno sport che in America è una vera e propria religione. Ne è un esempio quello che viene raccontato nel libro Friday Night Lights del premio Pulitzer H. G. Bissinger, che racconta il modo in cui una città texana caduta in disgrazia, Odessa, vive visceralmente di football, riempendo ogni venerdì sera uno stadio da ventimila spettatori che assistono alle partite della squadra di college locale (in questo caso quindi non si tratta nemmeno di giocatori professionisti, ma di ragazzi neanche maggiorenni). Uno dei tifosi spiega: «Non abbiamo molto altro di cui andare fieri. Il football è la forza di questa comunità. Se ce lo portassero via ci toglierebbero la nostra identità».

Riguardo invece una sorta di responsabilità che si potrebbe attribuire ai fan di queste discipline, la scrittrice statunitense Jeanne Marie Laskas ha scritto: “Sei tu il fulcro di tutto. Quella violenza è per te, per immaginarti tra i tuoi campioni, nel cuore dello scontro, a incassare colpi a cui in realtà non potresti sopravvivere. Un brivido per interposta persona. Brutalità virtuale. E l’ultima cosa che desideri è ricordare la verità: che di virtuale non c’è proprio niente, che a sferrare e subire quei colpi devastanti sono persone in carne e ossa, gente con una famiglia, una storia e dei sogni”. Il football, la boxe e molto altri sport d'altra parte sono amati proprio per la loro natura gladiatoria, una valvola di sfogo per istinti che rimangono sepolti sotto la cenere di una società ormai pacificata. Ecco perché guardiamo con piacere e ammirazione atleti che si mettono in gioco sacrificando il proprio corpo.

Epilogo

Nel 2004 il dottor Omalu fa visita a Keana Strzelczyk, l’ex moglie di Justin Strzelczyk, in passato giocatore di football, morto a 36 anni dopo essersi schiantato con la sua auto contro un’autocisterna che trasportava materiale infiammabile alla fine di un inseguimento con la polizia. Strzelczyk era saltato in aria chiudendo così il conto con i vuoti di memoria, gli attacchi di rabbia, i mal di testa feroci che lo avevano allontanato dalla sua famiglia, costringendolo a vagabondare.

Durante quella visita Keana spiega a Omalu: «Dicono che Justin si sia suicidato, ma io non ci credo. Secondo me, in fondo al cuore lui lo sapeva. Sapeva che non c’era ritorno per la situazione in cui era. Non so cosa avesse in mente, quel giorno. Ma sapeva che non sarebbe tornato mai più come prima». E poi: «Quando ha cominciato a sparire per giorni, ad avere attacchi d’ira - tanto che i nostri figli avevano paura di lui e non glieli affidavo più - pensavo fosse bipolare. Se avessi saputo che la causa di tutto era il football, mi sarei comportata diversamente. Sai, reagire in quel modo, cacciarlo di casa pensando che il problema fosse un altro… Ci si sente in colpa, dopo. È questo a farmi impazzire».

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