Simon Biyong è un fighter di MMA camerunense che vive e si allena in Italia. Nato nel 1991, ha esordito da professionista nei massimi leggeri tre anni fa e da allora ha collezionato 7 vittorie, di cui 6 via KO/TKO, e una sconfitta per sottomissione. Ha combattuto in tre continenti (Europa, Africa e Asia) vincendo due cinture di campione a livello locale e il titolo della promotion sudafricana EFC. Molto dotato fisicamente (è alto quasi due metri per 93 chili di peso), ad ottobre avrebbe dovuto affrontare Melvin Manhoef, un'icona degli sport da combattimento, nella card di Bellator 248, il primo evento di MMA in scena a Parigi, dove l’organizzazione di eventi di arti marziali miste era vietata fino a pochi mesi fa. Sarebbe stato uno degli incontri più importanti, a livello di blasone, per un fighter che ha imparato a combattere nel nostro paese, ma pochi giorni prima dell'incontro è saltato tutto.
Soprannominato “Hemlè”, che significa “Cuore di leone”, Biyong è anche un artista, un pittore con una travolgente passione per il disegno nata insieme a lui. Un uomo dotato di una personalità poliedrica e una sensibilità rara, frutto dell’ambiente in cui si è formato e delle circostanze della vita, che lo hanno portato lontano dagli affetti e spinto a cercare in sé stesso la chiave per realizzare i sogni. Questa è la sua storia.
Sei nato a Yaoundé, la capitale del Camerun, dove giocavi a calcio con il mito di Samuel Eto’o. Cosa ricordi della tua infanzia?
La mia generazione ha vissuto il calcio camerunense nel suo periodo d’oro. La nazionale era arrivata ai quarti di finale del Mondiale di Italia ‘90 e otto anni dopo Eto’o avrebbe debuttato in Liga. Per cui quando ero un bambino avvertivo grande entusiasmo intorno allo sport in generale, che aveva beneficiato di questi exploit calcistici. Tra amici ci dicevamo: “Voglio fare l’atleta professionista, diventare come Eto’o”. Lui ci stava dimostrando che avere successo era possibile. Io però non ero molto bravo con i piedi, mentre ero già appassionato d’arte. Sin da piccolo amavo disegnare. Quindi ero al centro esatto di queste due influenze, da una parte quella sportiva e dall’altra la mia vocazione artistica.
In quale contesto sei nato e cresciuto?
Mio padre è un carabiniere. Avere un impegno statale in Camerun è un privilegio, dà stabilità. Significa potersi permettere di avere figli e istruirli, comprare vestiti, mantenere uno stile di vita buono rispetto alla media, ma nulla di più. Non potevamo sostenere spese impreviste o extra di nessun tipo. Vengo comunque da una famiglia umile, ma che mi ha educato all’importanza della cultura e di impegnarsi nello studio per potersi riscattare a livello sociale. Il Camerun è un Paese di sognatori che però non hanno i mezzi per rendere concrete le loro aspirazioni. Ho avuto la fortuna di potermi permettere la benzina per percorrere la mia strada.
Photos by Gabriel Kudu In collaborazione con Stonefish & Partners – Milano
Hai avuto il primo contatto indiretto con l’Italia frequentando un liceo artistico gestito da una onlus italiana.
Sì, era fuori città, per cui mi sono dovuto trasferire lontano dalla mia famiglia a 15 anni. È stato difficile adattarsi ma mi motivava il pensiero di poter finalmente essere libero di disegnare e anzi di farlo con altri ragazzi che condividevano con me questa passione. Vedevamo il mondo allo stesso modo. I miei parenti invece avevano sempre cercato di convincermi a lasciare perdere l’arte, mio padre era molto duro su questo argomento. Dicevano che in Camerun le persone non avevano neanche i soldi per mangiare e vestirsi, figurarsi se gli avrebbero spesi per comprare dei quadri. Ma io ci credevo e mi sono impegnato studiando tanto per superare le selezioni e riuscire ad iscrivermi a quel liceo.
Cos’è successo in seguito?
Dopo la maturità ho deciso di proseguire gli studi in Italia perché in Camerun non esistono università con indirizzi artistici. Così tramite l’ambasciata italiana ho frequentato dei corsi di lingua e quando mi hanno ritenuto idoneo sono partito con il visto. È un percorso che riservano solo agli studenti meritevoli. Ho vissuto prima a Torino e poi a Genova, dove mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti dopo aver vinto una borsa di studio che mi ha dato anche un alloggio in una Casa dello studente per due anni. Oggi vivo con mia moglie e i miei figli. Purtroppo non ho concluso gli studi all’Accademia perché la mia carriera nelle MMA è iniziata a decollare, dedico molto tempo agli allenamenti.
Prima delle arti marziali miste sei stato un giocatore di basket. Perché hai abbandonato le discipline di squadra?
Dopo l’esperienza in una squadra di Varazze ho capito che quello per i miei compagni era solo un passatempo, avevano tutti un altro lavoro. Io invece mi impegnavo, dando tutto me stesso in ogni partita, perché credevo di poter avere una carriera nel basket. Ma lì ho capito che nelle discipline collettive non basta la performance individuale, bisogna avere gli stessi obiettivi e motivazioni a livello di squadra. Sono una persona molto competitiva che se decide di intraprendere un’avventura, poi cerca di portarla fino in fondo. Così ho deciso di scegliere gli sport individuali, dove la maggior parte della responsabilità è su di me, seppur condivisa con il mio team. Però in gabbia sono io che devo riscattare la preparazione e i sacrifici fatti in palestra, dipende solo da me, non ci sono compagni di squadra con altri pensieri. Questo aspetto mi carica ancora di più. I miei sforzi e quelli del mio team devono pagare, ed è tutto sulle mie spalle.
Photos by Gabriel Kudu In collaborazione con Stonefish & Partners – Milano
Raccontami del tuo primo periodo in Italia. Come lo hai vissuto?
Appena arrivato ho passato un momento molto difficile. Quando sono andato in palestra per iscrivermi, alla X1 Boxing del Maestro Mauro Salis a Genova, il mio attuale team, non avevo neanche i 50 euro mensili richiesti. Ho dovuto rinunciare, mi sono trovato in una situazione di privazione, in cui desideravo qualcosa che non potevo avere. Allora mi sono rimboccato le maniche e non trovando lavoro ho deciso di dedicarmi a quello che sapevo fare meglio: dipingere. Ho iniziato a farmi un nome come artista nella Casa dello studente che mi ospitava, in tanti hanno iniziato a commissionarmi quadri, pagandomi per realizzarli. Gli piaceva come disegnavo, e con il tempo sono migliorato tanto. Anche la comunità camerunense di Genova mi ha aiutato ad ampliare il mio giro di clienti. Dopo un anno sono tornato in quella palestra e ho potuto cominciare ad allenarmi.
Oggi cosa intendi esprimere nelle tue opere?
Voglio trasmettere determinazione. La giudico una sensazione capace di cambiare la vita delle persone, come è successo a me. Mi interessa spronare chi guarda i miei quadri, dargli la carica e l’energia giusta per far sì che si sacrifichino e combattano per i loro sogni e desideri. Per renderli reali, avverarli. Sento di evocare lo stesso quando sono in gabbia. Con l’arte uso pennelli e colori come mezzo, nelle MMA utilizzo il mio corpo con le sue movenze e gesti.
Photos by Gabriel Kudu In collaborazione con Stonefish & Partners – Milano
Quale idea avevi del nostro Paese visto dal Camerun e com’è stato poi l’impatto concreto con l’Italia?
Ho affrontato un brusco cambiamento culturale, anche perché in Camerun le persone guardano la TV italiana e si aspettano che corrisponda alla realtà, invece ne rappresenta solo una parte. Una volta arrivato qui ricordo situazioni in cui sono stato respinto o trattato male solo per il colore della mia pelle, e mi chiedevo perché, mi dicevo: “Ma io sono normale come gli altri”. In Africa non esiste il razzismo tra le persone, al limite ci sono forme di tribalismo e xenofobia, è un fenomeno che ho imparato a conoscere in Europa. L’ho riscontrato anche nel mondo delle MMA italiane, in cui è capitato che si riflettesse lo spirito del tifo calcistico, molto appassionato e che a volte si spinge ben oltre il consentito. Però ci tengo a dire che ho incontrato anche tantissime persone che hanno saputo capirmi e apprezzarmi, senza pregiudizi. Nelle arti marziali miste italiane ci sono tanti talenti e quando ho subìto episodi di razzismo sono consapevole di avere avuto a che fare con una certa tipologia di individui, che prescinde dallo sport. Sono persone che odiano chi non è come loro e chi ha principi di vita diversi.
Guardavi le MMA da spettatore in TV. In quale occasione hai iniziato a seguirle e poi a praticarle?
Ho scoperto le MMA dipingendo di notte. L’orario notturno è sempre stato quello ideale per me come artista, mi godo il silenzio e riesco a concentrarmi al meglio oltre ad essere più ispirato. Vivevo ancora in Camerun e c’era un canale TV che trasmetteva gli incontri di UFC da mezzanotte in poi. Sono rimasto subito colpito da questa disciplina, così ibrida, creativa, contemporanea ma soprattutto spettacolare. Mi affascinava. Poi, quando ho cominciato ad allenarmi a Genova, ho imparato ad apprezzare anche la parte più tecnica delle MMA. Sono stato ispirato dal peso massimo UFC Francis Ngannou, camerunense come me. Si parlava molto di lui e allora ho deciso di provare. Ho trovato la mia palestra facendo una ricerca su Google, volevo sfogarmi, ero molto stressato, non avevo ancora intenzioni da agonista. Ero da poco in Italia e mi mancava molto la mia famiglia, a cui ancora oggi penso ogni giorno. Ma in quel periodo non avevo la maturità emozionale che ho sviluppato adesso, le MMA mi hanno aiutato a distrarmi.
Genova è una città portuale, quindi multiculturale, dove c’è una commistione e uno scambio tra realtà diverse. Sembra il contesto ideale per un artista.
Genova è un bell’esempio di integrazione. È una città aperta, sempre in movimento, dove transitano tante persone e realtà differenti che si trovano a convivere. Mi ha ispirato tanto, oggi sento il dovere di rappresentarla nei miei quadri. Per un po' di tempo ho vissuto in via Prè, nei vicoli del centro storico. È un quartiere multietnico e variegato, ogni tanto c’era qualcuno che combinava qualche casino, ma le pecore nere sono ovunque. Il problema è che fanno più rumore di chi è onesto. Questi ultimi passano inosservati, si parla solo dei balordi. Bisognerebbe saper ascoltare anche la voce costante di chi dialoga e non solo di chi urla. Allo stesso tempo noi emigrati dobbiamo dimostrare con i fatti che meritiamo di stare in Italia e che veniamo qui con intenzioni nobili. Vogliamo sentirci utili, creare contenuti che stimolino chi ci circonda, sia materialmente che emotivamente. Poi ci sarà sempre chi non è d’accordo e ci punterà il dito contro, è normale.
Lo scrittore Antonio Franchini, paragonando la letteratura alla boxe, sostiene in uno dei suoi libri: “Il pugilato è letterario perché è estremo, perché è sempre contiguo alla disfatta ma non esclude il miraggio della gloria, e perché, come la scrittura, è un’apoteosi della solitudine”. Sei d’accordo? Nel tuo caso come si concilia lo spirito da artista con quello da fighter?
La solitudine spinge a compiere una profonda ricerca dentro di sé, dove si può trovare sia qualcosa di buono che di negativo. Sono una persona riservata e che ama ritagliarsi degli spazi in solitaria, quando sono in mezzo a tante persone mi sento a disagio. Un contesto più tranquillo e isolato stimola la mia creatività. Quando combatto è diverso: ad esempio al match che ho fatto in Giappone c’erano 40 mila persone sugli spalti. Infatti ho dovuto progredire a livello psicologico: mi sono creato una sorta di seconda personalità, un alter ego che ama combattere. Quando entro in gabbia non mi sento Simon ma mi percepisco come qualcun altro. Non sono mai stato attratto dalla violenza, quando ero un ragazzo se si scatenava una rissa ero sempre a metri di distanza. Però se qualcuno supera un certo limite, non riesco a trattenermi. Cerco di far emergere questo lato di me quando sono nell’ottagono, insieme all’istinto di sopravvivenza.
E nelle vesti di artista?
Quando dipingo, invece, rappresento Simon con la sua personalità. Credo emerga la mia parte femminile, quella emotiva, sensibile, artistica. Sono convinto che ognuno di noi, a prescindere dal sesso, sia diviso tra una componente “uomo” e una “donna”. Ci sono ragazze che in alcune situazioni si trovano a lottare duramente, anche solo in senso figurato, e uomini che si lasciano andare a momenti di tenerezza, quasi materni, ad esempio con i figli. È una bellissima incoerenza da cui nasce la mia arte.
In Rizin ti sei dipinto il viso in occasione della cerimonia del peso e poi sei entrato in gabbia danzando. È un modo per rivendicare le tue radici? Come vivi il tuo legame con l’Africa da emigrato?
Sì, infatti sono entrato nell’arena con la bandiera del Camerun, ma anche per dare spettacolo. Al pubblico piace sia guardare il match che il contorno, un fighter deve fare uno show non solo in gabbia. Per questo insieme ai ragazzi di Calibian, il mio management, ho studiato una strategia che mi differenziasse dagli altri atleti, che colpisse gli organizzatori in modo da meritarmi una nuova chiamata. Mantengo un legame profondo con l’Africa. Ci sono molti ragazzi camerunensi che mi scrivono ogni giorno, li ho fatti appassionare alle arti marziali miste e ora sognano di costruirsi un futuro nel settore. Si indentificano in me e io combatto anche per loro, li rappresento.
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Built for tough times, I'm ready to face any adversity. #neverbackdown #byanymeans
Un post condiviso da HEMLÈ (@biyongmma) in data: 10 Lug 2020 alle ore 4:39 PDT
Lo scorso 3 ottobre avresti dovuto batterti nella card dell’evento Bellator Paris, primo appuntamento della promotion in Francia, dove le MMA sono diventate legali da pochi mesi. Il tuo avversario sarebbe stato Melvin Manhoef, leggenda degli sport da combattimento. Poi il match è saltato durante la fight week, quando eri già in hotel a Parigi.
L’incontro non si è potuto svolgere per motivi indipendenti dalla mia volontà, da quella del mio avversario e di Bellator stessa. C’è stato qualche intoppo burocratico, ma non ci hanno detto molto di più. Purtroppo dinamiche simili fanno parte del mestiere, anche se è sempre frustrante quando accade. Poi a questi livelli aumentano i rimpianti a causa dei sacrifici e della dura preparazione che precede ogni match. Però posso svelarti in esclusiva che dopo questo episodio la promotion mi ha offerto un contratto, molto generoso in termini economici, direttamente con Bellator Worldwide, non la succursale europea. È la formula standard da quattro incontri con opzione di rinnovo, e ho firmato. Infatti sto ultimando le pratiche per il Visto americano perché il prossimo match lo disputerò proprio in America. La situazione di emergenza sanitaria sta rallentando il processo, penso di tornare in azione per i primi mesi del 2021. Ma finalmente le MMA sono diventate il mio lavoro, e adesso punto alla cintura da campione di Bellator.