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I Blazers stanno facendo abbastanza per Lillard?
17 set 2021
Portland non ha accontentato quasi nessuna delle richieste della sua stella.
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Forse un giorno, se e quando Damian Lillard salirà sul palco del museo di Springfield per il suo inevitabile ingresso nella Hall of Fame, ricorderà e ricorderemo l’estate del 2021 come l’unico momento di dubbio nella sua lunga storia con i Portland Trail Blazers, l’unico periodo in cui davvero ha pensato di lasciare quella che a tutti gli effetti è diventata casa sua ormai da quasi dieci anni.

Eppure a 31 anni e con un oro olimpico appena aggiunto alla sua bacheca, questo sembra il momento di svolta: o rimane, e allora la sua carriera dovrebbe concludersi rimanendo sempre con la maglia dei Blazers, di cui è probabilmente già ora il giocatore più importante nella storia della franchigia; oppure se ne va, alla ricerca di una squadra che possa garantirgli quello che vuole, cioè competere per il titolo NBA. E che per sua stessa ammissione non ritiene possano essere i Portland Trail Blazers, almeno per come sono costruiti ora.

I messaggi di Lillard alla dirigenza

Si possono dire tante cose su Lillard, ma non che non sia estremamente chiaro nelle sue esternazioni: «Tutti nell’organizzazione devono guardarsi allo specchio, perché non raggiungiamo mai l’obiettivo che ci prefissiamo» ha detto a metà luglio in un’intervista con Chris Haynes, giornalista-amico che pochi giorni dopo l’eliminazione dei Blazers contro i Denver Nuggets aveva scritto un articolo incendiario dal titolo "Is Damian Lillard fighting the good fight alone in Portland?”, traducibile come "ma Damian Lillard sta combattendo da solo a Portland?”, e nel quale la dirigenza dei Blazers veniva esplicitamente attaccata dicendo che, di fatto, se l’erano presa comoda sfruttando la lealtà che l’All-Star aveva sempre dimostrato per adagiarsi sugli allori. Lillard si era distanziato da quelle parole dicendo che erano «suoi pensieri su cui non ho controllo», ma era anche stato estremamente chiaro nel ribadire la sua frustrazione nell’intervista di luglio: «Ho parlato molte volte con Neil Olshey [il capo della dirigenza dei Blazers, ndr] e sa benissimo quello che penso. Quello che stiamo facendo non sta funzionando e non ci sta dando la possibilità di competere al livello a cui vogliamo arrivare. Se continuiamo a fare le cose come le abbiamo sempre fatte, avremo sempre gli stessi risultati».

Quelle parole arrivavano al termine di una stagione difficile per Lillard sia dal punto di vista fisico — ha ammesso di aver continuato a giocare su una lunga serie di infortuni alla caviglia, alle costole, all’addome e al ginocchio — che dal punto di vista mentale, ritrovandosi a dover trascinare la squadra per mesi ad inizio stagione (complici gli infortuni di CJ McCollum e Jusuf Nurkic). A questo si è aggiunta una cocente eliminazione al primo turno di playoff contro una versione rimaneggiata dei Denver Nuggets, con due riserve come Facundo Campazzo e Austin Rivers in quintetto. «Non siamo riusciti a battere una squadra che giocava senza le guardie titolari nonché due dei migliori tre o quattro di tutto il roster» aveva detto dopo la sconfitta in gara-6, nella quale avevano sprecato 14 punti di vantaggio nel secondo tempo. Una serie che però i Blazers avevano già buttato via in gara-5 quando, nonostante i 55 punti e 10 assist di Lillard, uscirono sconfitti al doppio overtime, complice anche l’1/14 dei suoi compagni nei due supplementari. Lillard a quel punto si è comprensibilmente sentito abbandonato a se stesso, arrivando alla conclusione che così costruiti «non siamo forti abbastanza», cominciando a gettare ombre sul suo futuro.

Gli incredibili 55 punti di gara-5, tra cui la tripla per pareggiare a 3 secondi dalla fine dei regolamentari e un’altra ancora più difficile per forzare il secondo overtime a 6.4 secondi dalla fine.

Le sue parole hanno dato vita a mesi di speculazioni su un suo possibile addio ai Blazers, culminati con l’indiscrezione riportata da Henry Abbott — ex giornalista di ESPN defenestrato dopo l’arrivo di Adrian Wojnarowski, ora in proprio con il suo sito TrueHoop — di una imminente richiesta di trade già a fine luglio, in concomitanza con l’inizio del training camp della nazionale statunitense. Una richiesta che formalmente non è mai stata ufficializzata (come Lillard ha tenuto a far sapere in prima persona su Twitter), ma che nei fatti è come se fosse arrivata con un altro ultimatum alla dirigenza dei Blazers guidata da Neil Olshey: quello di fare qualcosa, e in fretta. «Il miglior modo per descrivere la situazione è quella di avere maggiore urgenza» ha detto Lillard in conferenza stampa nei giorni delle Olimpiadi. «Siamo molto orgogliosi di essere arrivati ai playoff per tutti questi anni, di essere una squadra vincente, di avere un grande ambiente, una grande città e grandi tifosi. Ci sono un sacco di aspetti positivi. Ma siamo anche arrivati a un punto in cui bisogna dirsi: ‘OK, non è abbastanza’. Vogliamo davvero vincere tutto? Allora dobbiamo fare delle cose per dimostrarlo. Mettere delle azioni dietro quel desiderio di vincere ad alto livello».

Lo strano immobilismo dei Blazers

Quando una stella parla in quel modo, all’interno di una franchigia dovrebbero scattare tutti i campanelli d’allarme possibili. Ci si poteva immaginare una frenetica attività di chiamate con le altre squadre, di voci su possibili scambi, magari fatte uscire ad arte solo per tranquillizzare non solo la propria stella ma anche la tifoseria, anche solo per far vedere che si stava facendo qualcosa.

Invece i Blazers sono stati pressoché immobili. Dal Draft è arrivato un solo giocatore, Greg Brown preso al secondo giro, e i primi giorni di mercato dei free agent si sono risolti in firme di secondo se non di terzo piano come Ben McLemore, Tony Snell e Cody Zeller, tutti con contratti al minimo salariale o lì vicino. L’unico movimento di rilievo è stato quello di trattenere Norman Powell, peraltro con un quinquennale pesante da 90 milioni di dollari complessivo. Poi è calato il silenzio per settimane, un immobilismo stranissimo considerando quelle che erano le premesse fissate dalla stella della squadra con le sue dichiarazioni. E dire che almeno a parole un membro della dirigenza dei Blazers aveva detto a The Athletic che «dobbiamo partire dal presupposto che stiamo lavorando per fare in modo che non succeda davvero», facendo immaginare che comunque sarebbe stato fatto uno sforzo considerevole per costruire una squadra di livello attorno a lui.

Quello stesso dirigente aveva però anche detto che non pensava che Lillard se ne volesse davvero andare. «Qui ha costruito un impero» erano state le sue parole, sottolineando come tutta la famiglia di Lillard si sia trasferita in massa da Oakland a Portland e abbia cominciato diverse attività commerciali e nella comunità difficili da lasciare. Nella strana partita a poker che si è venuta a creare tra le parti è come se i Blazers avessero provato a “chiamare” il bluff di Lillard e a costringerlo a uscire allo scoperto con la sua richiesta di essere ceduto, per farlo passare dalla parte del “torto” agli occhi della tifoseria. Come se davvero qualcuno possa uscire da questa situazione con la fedina delle Pubbliche Relazioni pulita.

https://www.instagram.com/p/CTfw7bqokfN/

Uno dei motivi per cui secondo alcuni Lillard non aveva intenzione di muoversi quest’estate sta anche nel suo matrimonio, celebrato qualche settimana fa quasi in concomitanza con l’uscita del suo nuovo album.

Lillard, che comunque è stato tenuto al corrente di tutto, ha commentato cautamente quanto fatto dalla dirigenza sul mercato: «Ovviamente non siamo riusciti ad andare a prendere alcuni dei giocatori che ci piacevano, perciò abbiamo passato tutti i nomi sulla nostra lista che non avevano ancora trovato squadra e abbiamo preso quelli che davvero volevano far parte di quello che vogliamo fare». Però è evidente come i Blazers non siano una squadra migliore rispetto a quella dello scorso anno, o almeno non così migliore da far pensare che possano essere una contender per il titolo. E questo nonostante la squadra abbia fatto una mossa intelligente a fine agosto, inserendosi nello scambio che ha portato Lauri Markkanen a Cleveland per prendere Larry Nance Jr., cedendo in cambio Derrick Jones e una prima scelta al Draft 2022 protetta-14. Nance è certamente un giocatore che può dare una grossa mano, uscendo dalla panchina per stabilizzare una difesa ballerina e potenzialmente finire anche le partite in campo, specie se confermerà il 36% con cui ha tirato da tre punti nella passata stagione. Ma è anche un giocatore con continui problemi di salute (non ha mai giocato più di 67 partite in una stagione) e non sembra in grado da solo di far fare il salto di qualità a un roster che ha dimostrato di non poter competere ai più alti livelli.

Il pasticciaccio brutto dell’assunzione di Chauncey Billups

Se le novità non sono arrivate sul mercato, c’è almeno stato un grosso scossone sulla panchina. Dopo nove anni coach Terry Stotts è stato licenziato dal ruolo di capo-allenatore dei Blazers, una mossa attesa per tutta la stagione viste anche le enormi difficoltà a costruire una difesa quantomeno dignitosa. I Blazers nella scorsa regular season sono stati il secondo miglior attacco della lega con 119.1 punti segnati su 100 possessi (dati Cleaning The Glass), ma anche la penultima difesa davanti solo ai derelitti Sacramento Kings. E Olshey ha detto chiaramente che secondo lui i risultati dello scorso anno, specialmente nella metà campo difensiva, non sono stati «un prodotto della qualità del roster» che lui aveva costruito, sebbene dalla panchina si alzassero due evidenti problemi difensivi come Carmelo Anthony e Enes Kanter — giocatori che lui stesso aveva messo sotto contratto.

La soluzione di Olshey è stata quindi quella di scaricare tutte le colpe su Stotts per i cattivi risultati della squadra, riconfermando in blocco quanto costruito negli anni — Lillard è a Portland dal 2012, CJ McCollum dal 2013 e Jusuf Nurkic dal 2017 — e lavorando solo ai margini, scommettendo sul fatto che un nuovo allenatore e un nuovo approccio difensivo bastino per trasformare la squadra in una contender per il titolo. C’è un dato in particolare su cui Olshey deve aver basato tutte le sue valutazioni: dopo l’arrivo di Powell da Toronto, il quintetto base dei Blazers ha avuto un differenziale su 100 possessi di +14.2, il secondo migliore della lega con almeno 750 possessi insieme in quel periodo di tempo —, salendo ulteriormente a un incredibile +20.8 nella serie contro i Denver Nuggets, seppur inficiato da una gara-4 finita con 20 punti di scarto.

I problemi erano quindi soprattutto legati alla porosità difensiva della second unit, e Olshey ha provato a superarli togliendo dall’equazione Anthony e Kanter mettendo due giocatori sicuramente più solidi difensivamente come Nance e Zeller, aggiungendo Snell e McLemore sugli esterni. Soprattutto, però, Olshey è convinto che il cambio in panchina da Stotts a Chauncey Billups possa bastare per avere quel cambiamento in grado di risolvere la situazione — peccato che anche per quella assunzione non sia stata priva di polemiche.

Uno dei motivi per cui Billups, nonostante fosse da anni in odore di panchina NBA, non era ancora stato assunto come capo-allenatore sta nel suo passato, e in particolare nelle accuse di stupro del 1997 quando era un rookie ai Boston Celtics. Un vicenda conclusa con un patteggiamento nel 2000 e che ha gettato un’ombra lunghissima sui Blazers, non tanto per l’effettiva colpevolezza o meno di Billups (che può essere valutata solo dalla giustizia), quanto piuttosto nella scarsissima investigazione svolta dalla franchigia su quanto accaduto, che secondo quanto detto dalla squadra è stata completa ed esaustiva. Diversi media come OPBDefector hanno invece riportato che l’investigazione è stata tutt’altro che puntuale, addirittura senza nemmeno contattare gli avvocati della vittima. Olshey, oltre ovviamente a negare ai media la possibilità di fare domande sul caso o sull’investigazione, è arrivato perfino a dire alla stampa che «dovrete prenderci in parola quando diciamo che abbiamo assunto un’agenzia di grande esperienza e che ci ha dato i risultati di cui vi abbiamo già detto». Cioè che credevano alla versione di Billups e che, insomma, bisognava circolare e non c’era niente da vedere. Un errore comunicativo che nel 2021 (ma anche prima) non ci si può permettere a nessun livello.

Billups ha aperto la sua conferenza stampa di presentazione dicendo che quell’incidente aveva avuto un profondo impatto sulla sua vita. Quando gli è stato chiesto di elaborare a riguardo, il GM dei Blazers Olshey ha guardato in direzione del capo delle PR Ashley Clinkscale, che ha rapidamente detto «sull’argomento è già stato detto tutto e non ci saranno altri commenti», spegnendo sul nascere la domanda più che legittima.

L’errore più grande è stato però lasciare molti spazi vuoti in cui alcuni tifosi dei Blazers sono andati a chiedere spiegazioni per la decisione di prendere Billups direttamente a Damian Lillard, accusandolo di essere “complice” di questa assunzione, a voler essere gentili, un po’ raffazzonata. Lillard — che aveva detto pubblicamente di preferire Jason Kidd, salvo vedersi rispondere un affrettato “No, grazie” dall’interessato (e pure Kidd nel suo passato ha diversi scheletri, ma è un altro discorso) — si è dissociato dalla decisione della dirigenza, scrivendo di non essere a conoscenza del passato di Billups (“Avevo 7/8 anni al tempo”) e sentendosi attaccato per una responsabilità che non era sulle sue spalle. Insomma, non voleva passare da parafulmine per le scelte di Olshey, che peraltro nel suo percorso di ricerca di un nuovo allenatore non si è fatto tanti amici, visto che un’altra finalista per il posto come Becky Hammon ha detto senza giri di parole che «ero una seconda scelta, avevano già il loro nome e la figura di cui avevano bisogno», facendo capire di non avere mai avuto una reale chance di giocarsela con Billups, e che anche il processo di ricerca del nuovo coach è stata una mezza farsa.

L’intera lega in scacco

Al di là dei modi che hanno portato i Blazers ad assumere Billups, c’è un’altra domanda fondamentale sollevata dallo stesso Lillard parlando proprio del suo nuovo allenatore: «Sono d’accordo che forse Chauncey può davvero cambiare la nostra squadra e renderci migliori, mettendoci nella direzione giusta. Ma se guardiamo al roster in vista del prossimo anno, non vedo come si possa dire ‘Questa è una squadra da titolo, abbiamo solo bisogno di un nuovo allenatore’» ha detto sempre mentre si trovava insieme a Team USA. «Vogliamo davvero vincere il titolo? Tipo, sul serio? Allora dobbiamo fare delle mosse per dimostrarlo».

Tirando le fila di questa intricata matassa, la sensazione è che Lillard stia preparando il campo a un suo addio ai Blazers: anche le sue ultime parole non sono state particolarmente rassicuranti («Non ho intenzione di lasciare Portland, almeno per ora» dette in una diretta Instagram), per quanto a inizio stagione sicuramente sarà in campo con la maglia numero 0 che ha sempre indossato. E c’è una certa dose di sincerità quando dice che vorrebbe chiudere la carriera ai Blazers, ma il patto esplicito è di voler vedere da parte dell’organizzazione lo stesso livello di impegno che lui mette in campo, giocando da infortunato e dando tutto se stesso per la causa: «Non è mai stato il mio lavoro quello di criticare quello che altri stavano facendo all’interno della franchigia: il mio lavoro è fare in modo che la squadra funzioni e provare a guidarla ai migliori risultati possibili. Ho sempre dato per scontato che fosse la mentalità di tutti qui dentro» ha detto nell’intervista a Haynes.

Lillard insomma potrebbe arrivare presto a imporre alla proprietaria Jody Allen un aut-aut: o me o questa dirigenza. A cui comunque è stata data la possibilità di giocarsi le proprie carte con le mosse di questa estate, ma che avrà bisogno che un sacco di cose vadano bene affinché i Blazers raggiungano il loro massimo potenziale. McCollum e Nurkic, ad esempio, dovranno rimanere sani per tutta la stagione; coach Billups dovrà riuscire ad avere un impatto immediato, specialmente in difesa; la panchina dovrà riuscire a “tenere il campo” meglio rispetto a quanto fatto da quella precedente, non solo con Nance e Zeller ma anche tramite la crescita di giovani come Anfernee Simons e Nassir Little; infine il quintetto base dovrà confermare quanto di buono visto lo scorso anno dopo la pausa per l’All-Star Game per un’intera regular season.

Sono un bel po’ di pezzi che si devono incastrare per creare un puzzle in grado di convincere Lillard di potersela giocare per davvero a Portland, con cui comunque è sotto contratto per altri quattro anni. E sono in molti in giro per la NBA a osservare con attenzione quello che succederà in Oregon, rendendo i Blazers forse la squadra più scrutinata dell’intera lega: se le cose dovessero mettersi male e Lillard arrivasse a chiedere lo scambio, sarebbe il singolo giocatore sul mercato in grado di “spostare” maggiormente le possibilità di titolo di una squadra. Non è un caso che Daryl Morey a Philadelphia stia attendendo così tanto per risolvere la grana Simmons, anche se fino a questo momento i Blazers hanno sempre risposto “no” a ogni domanda su Lillard e non sembrano intenzionati nemmeno a mettere in discussione la posizione di McCollum, il cui scambio sarebbe la via più facile per provare a smuovere le acque e migliorare il roster.

In una lega sempre più guidata dalle stelle e dalle loro volontà, i Blazers hanno deciso di rispondere alle esplicite richieste di cambiamento di Lillard rimanendo praticamente immobili, quasi premendo “pausa” sull’intera franchigia e scommettendo che un singolo cambiamento — quello dell’allenatore — possa davvero invertire la rotta dell’intera franchigia. Magari finiranno per avere ragione loro e tra un anno saremo qui ad applaudire la loro fermezza nel credere in questo gruppo per come è stato costruito, scommettendo sulla continuità come metodo di crescita — in una NBA in cui invece tutto sembra modificarsi vorticosamente.

O magari invece la loro scommessa si rivelerà sbagliata, finendo per irritare sempre di più la propria stella e vedendosi costretti a cederla per un ritorno in termini di giocatori e scelte inferiore a quello che realmente vale, avendo continuato ad esacerbare la situazione fino a portarla al punto di rottura pur di mantenere il proprio di punto. Rimane comunque la singola situazione in grado di cambiare gli equilibri della lega, e per questo continuerà ad avere un riflettore puntato addosso da qui ai prossimi mesi.

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