Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Un salto sovrumano
18 ott 2018
Bob Beamon a Messico 68 ha segnato un record irripetibile.
(articolo)
25 min
Dark mode
(ON)

Il 17 ottobre 1968 sono in programma le qualificazioni del salto in lungo maschile. L'ambiente è teso, in molti hanno la faccia di chi ha dormito poco. Quasi tutti sono americani: la giornata è iniziata con la notizia dell'espulsione di Tommie Smith e John Carlos, due nomi e cognomi che ancora cinquant'anni dopo non hanno bisogno di presentazioni. Hanno lasciato il villaggio olimpico alle sei del mattino, in silenzio e al buio, per evitare “il contagio”.

Gli altri neri di Team USA sono sul chi vive, combattuti tra l'istinto di mandare tutto al diavolo e la consapevolezza che la loro unica possibilità di blando riscatto sociale passa dal vincere la medaglia d'oro in delle gare in cui, quasi sempre, sono stra-favoriti. Tutto questo e molto altro abita e agita la testa di Robert Beamon, il favorito numero 1 eppure non l'unico di una gara che, stando alle parole del giornalista di Newsweek Dick Schaap, «sarà una battaglia tra quattro dei sei più grandi saltatori in lungo di tutti i tempi»: Beamon, il campione uscente britannico Lynn Davies e i due co-detentori del record mondiale, l'americano Ralph Boston e il russo Igor Ter-Ovanesyan. Per loro non sarà un problema saltare 7 metri e 65, la misura minima per andare in finale. Tre su quattro la saltano al primo colpo; Beamon invece sceglie la mattina sbagliata per mettersi nei pasticci. Pesta la plastilina al primo salto, nullo, e commette lo stesso errore al secondo, nullo – è un prodigio della natura come se ne son visti pochissimi, ma con un unico grosso problema mai del tutto risolto: lo stacco. Gli rimane un ultimo tentativo per evitare il fallimento personale. A Berlino 1936, dopo i primi due salti di qualificazione, anche Jesse Owens era fermo al palo – buffo, no?

Città del Messico, 1968

La giornalista alza la testa e guarda in aria: dall'elicottero stanno cadendo due bengala verdi. È stata in Vietnam fino a qualche settimana prima e le sembra di riconoscere la procedura. In mezzo al buio i bengala servono a localizzare il punto da colpire, e di solito è l'antipasto di qualcosa di molto velenoso. «Guardate che se buttano giù i bengala tra poco iniziano a sparare». Studenti, contadini, semplici adolescenti a migliaia gremiscono Piazza delle Tre Culture, uno dei luoghi più affascinanti di Città del Messico. Si chiama così perché a pochi metri di distanza vi si trovano tre edifici simbolo della civiltà precolombiana, del dominio spagnolo e del Messico moderno. È una piazza molto trafficata per i suoi ampi corridoi laterali che collegano ad altre strade e ad altre piazze, ed è una piazza strategica perché in quei mesi a Città del Messico è una saggia idea radunarsi in luoghi con ampie vie di fuga. Ma il 2 ottobre 1968 le camionette e i blindati hanno accuratamente otturato qualsiasi scorciatoia.

«Era stata una manifestazione commovente perché a un certo punto c’era stata la commemorazione dei morti (in un lungo assedio di tre giorni all'Università, dal 26 al 29 luglio, almeno un centinaio di studenti è caduto sotto i colpi dei militari, ndr): pioveva e tutti questi ragazzi stavano immobili sotto la pioggia, e le madri dei ragazzi morti stavano immobili sotto la pioggia. Finita la manifestazione, anzi durante il minuto di raccoglimento per i morti, qualcuno aveva acceso un accendino, poi un altro, un altro ancora e poi un altro ancora e s’eran formati in tutta questa piazza come dei fuochi, piccoli fuochi fatui, dappertutto c’erano queste fiammelle: fiammelle e fiammelle e fiammelle, di accendini e di fiammiferi che finivano per bruciarsi sulle dita».

Effettivamente i bengala sono proprio quello che sembrano: il segnale che fa uscire decine di soldati pronti a sparare in basso, sulla strada, con i proiettili che rimbalzano in mezzo alla folla. La sparatoria dura 62 minuti e lascia per terra un numero di vittime tuttora indefinito – ad ogni modo, non meno di trecento. Solo per una qualche specie di miracolo tra loro non c'è Oriana Fallaci, ferita alla gamba sinistra e alla schiena, «come una coltellata che si è fermata a pochi millimetri dalla colonna vertebrale». Rantolante su una brandina dell'obitorio, viene scoperta ancora viva da un prete di passaggio, e di lì portata in ospedale. Qui rilascia a una troupe della RAI una prima ricostruzione che si farà più profonda e dettagliata in un reportage dell'Europeo che è la sbobinatura di due ore e mezzo di registrazioni su nastro scandite in un letto d'ospedale, e che è possibile leggere qui.

Come dice la donna francese al capitano Willard in Apocalypse Now, sulle rive del fiume Nung: «La cosa più importante è essere ancora vivi, e tu sei vivo». Dalla radiografia «risultano ancora due o tre schegge nella coscia che non si possono togliere. Resteranno sempre lì, tanto non mi danno noia, e io le tengo come ricordo».

E sì, benvenuti a Città del Messico, una città che si ritiene all'altezza di ospitare una manifestazione complessa come l'Olimpiade, proprio nella fase storica in cui l'Olimpiade ha smesso di essere una festosa rassegna sportiva per crescere e diventare ben altro. Ormai da un pezzo il 1968 non ha più bisogno di presentazioni: Valle Giulia, il Maggio francese, Bob Kennedy, la Primavera di Praga, eccetera. Sono pulsioni distinte che hanno però la peculiarità di avvenire contemporaneamente, in contesti molto diversi tra loro, apparentemente slegati ma forse no. Nell'aprile 1968, a pochi giorni dall'assassinio a Memphis di Martin Luther King, alcuni ragazzi di El Paso, Texas rifiutano di partecipare a un meeting di atletica con la Brigham Young University di Provo, Utah. È questa un'università frequentata a maggioranza da mormoni, e l'uomo a cui è intitolata ha dato la linea generale su come comportarsi e su ciò in cui bisogna credere. Brigham Young è stato un famoso politico americano dell'Ottocento, ha fondato la città di Salt Lake City ed è stato il primo governatore dello Utah. Giustificava la schiavitù e sosteneva, tra le altre cose, che i neri discendessero da Caino e non potessero votare, sposare donne o uomini bianchi, e diventare preti. Un codice interno particolarmente odioso per dei ragazzi di colore.

Tra loro c'è appunto Bob Beamon, il miglior saltatore in lungo degli Stati Uniti d'America. Nel 1968 difendere delle idee solo con il proprio talento non è abbastanza: a fronte del suo diniego a gareggiare contro un'università razzista, El Paso gli toglie la borsa di studio e l'allenatore. A quattro mesi dalle Olimpiadi e a tre mesi dai Trials, un bel problema.

I Trials sono le durissime selezioni che gli americani organizzano ogni quattro anni per stabilire chi parteciperà alle Olimpiadi e chi invece rimarrà a casa. Quelle del 1968 sono ancora più dure perché gli USA sono un vero e proprio squadrone, soprattutto nelle specialità veloci. Beamon è indiscutibilmente il migliore per risultati e misure, e può anche contare su un mentore d'eccezione: Ralph Boston, 29 anni, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma 1960, che ha già imboccato la parabola discendente ma ha riconosciuto il talento selvaggio di questo ragazzo che ha un solo “grosso-problema-mai-del-tutto-risolto”: imbroccare lo stacco.

Da anni si allena sulla velocità insieme all'amico John Carlos, duecentista e newyorkese come lui, che insiste: il segreto è la rincorsa. «Lo sai come fanno gli aeroplani a volare, Bob? Prendono velocità». Lo sa bene Bob Beamon, che è tranquillamente in grado di correre i 100 metri in 10 secondi. Ma la potenza è nulla senza controllo, dirà una famosa pubblicità di qualche decennio dopo, e allo stesso modo Beamon finisce spesso per andare lungo oppure regalare 20-30 centimetri alla pedana. Ciononostante, anche senza allenatore, rimane il lunghista più forte del Paese, capace di vincere quasi tutte le gare del 1968 e arrivare da favorito ai Trials, previsti dal 6 al 16 settembre.

Com'è noto, a Città del Messico si gareggerà in condizioni atmosferiche eccezionali, dettate dall'altitudine di 2.248 metri che minaccia di incidere molto nell'atletica e nel nuoto. Gli americani ritengono che le Olimpiadi si preparino meglio se le selezioni avvengono a Echo Summit, località ignota al confine tra Nevada e California, sulle sponde del Lago Tahoe, là dove l'altitudine è quasi identica alla capitale messicana, in una coreografia naturale irripetibile, in cui l'anello dei 400 metri di pista gira letteralmente intorno a un bosco di pini. I saltatori in lungo gareggiano in condizioni che rendono le misure del tutto irrilevanti: Beamon vince arrivando fino a 8 metri e 39, che sarebbe record del mondo, ma non con 3,2 metri di vento a favore... Ma il Messico è realtà, per lui e per i suoi compagni Boston e Charles Mays.

L'altitudine è un altro degli aspetti che rendono i Giochi di Città del Messico unici nel loro genere. Col senno di poi si tratta di una follia, peraltro ripetuta due anni dopo con i Mondiali di calcio che anche per questo daranno vita a partite indimenticabili (su tutte la massacrante semifinale che ben conosciamo). L'ossigeno è inferiore del 20% rispetto a una città pianeggiante; la stessa quantità di aria respirata satura l'emoglobina del 7% in meno e il battito cardiaco accelera con esiti nefasti per le gare di lunga distanza. A domanda precisa, «quanto ci metterà un atleta medio ad abituarsi ai 2.200 metri?», il dottor Roger Bannister (mezzofondista britannico anni Cinquanta e poi affermato neurologo) risponde lapidario: «Venticinque anni».

Breve compendio medico di Città del Messico 1968: la nigeriana Olajiunmoke Bodunrin finisce in ospedale dopo la batteria dei 400 metri; la nuotatrice australiana Karen Moras, 14 anni, si sente male in acqua e viene prontamente ricoverata; l'americano Mike Burton, oro nei 400 e 1500 stile libero, sviene in ascensore; l'australiano Ron Clarke, tra i favoriti nei 10mila metri, letteralmente si pianta a tre giri dalla fine, arrivando al traguardo solo per onor di firma.

Dominano i corridori africani, cinque ori su cinque dai 1500 in su, ma l'altro lato della medaglia sono i moltissimi record del mondo sbriciolati nelle prove veloci, quasi tutte appannaggio degli americani. Grazie anche a evidenti miglioramenti tecnologici: sono i primi Giochi con le piste di tartan, che contribuiscono ad abbassare di svariati decimi i personali di tutti gli atleti in gara. Fino al parossismo, come avviene nel salto triplo che tra qualificazioni e finale vede cadere il record per cinque volte nel giro di ventiquattr'ore – le prime due per merito dell'italiano Beppe Gentile, che ci rimarrà comprensibilmente male a finire “solo” terzo. Quella finale si disputa il 17 ottobre 1968, lo stesso giorno in cui abbiamo lasciato Beamon nei pasticci.

Gli amici si vedono nel momento del bisogno ed è pochi minuti prima del suo terzo salto di qualificazione che Beamon incrocia lo sguardo di Ralph Boston, già tranquillamente sintonizzato sulla finale del giorno dopo: ha saltato in scioltezza 8 metri e 27, che per inciso è nuovo record olimpico. «Ehi Bob», gli dice più o meno,«per andare avanti non c'è bisogno di dare spettacolo. Stacca venti o trenta centimetri prima del limite: con quelle gambe che ti ritrovi, ti basta tranquillamente per fare otto metri». Sembra facile. E in effetti lo è: Beamon rinfrancato si rimette a posto e salta in totale relax 8 metri e 19, seconda misura di qualificazione. A domani.

Bob Beamon

Il mistero Beamon tiene banco tra i professori statunitensi già da qualche anno. È un totale autodidatta, salta di puro istinto, ha doti naturali prodigiose ma nessunissimo autocontrollo, diametralmente opposto allo stile raffinato di Boston o ai salti del marpione ucraino Ter-Ovanesyan, progettati in laboratorio. La sua vita ne giustifica la tecnica artigianale: nato nell'agosto 1946 a Jamaica, che oggi è un quartiere del Queens ma all'epoca è ben oltre lo status accettabile di periferia, non ha alcun ricordo di sua madre Naomi, morta a 25 anni di tubercolosi quando lui ha otto mesi. Ha invece parecchi ricordi di suo padre, ma preferirebbe il contrario: violento e alcolizzato, una cella sempre prenotata in galera. Bob sospetta che il ritardo mentale di suo fratello maggiore Andrew sia stato causato dai calci del padre alla madre quando era incinta.

Così cresce ad Harlem con la nonna e nel frattempo cresce anche in altezza, diventando la prima scelta nelle partitelle a basket. Impara a fare a botte prima ancora che a leggere, con il fisico scala le gerarchie delle piccole bande di quartiere finché colpisce la persona sbagliata: un insegnante della sua scuola, da cui viene cacciato e mandato in una di quelle temibili “600 Schools”, i riformatori per ragazzini disagiati di cui New York pullulerà fino alla fine degli anni Settanta (secondo una versione mai confermata, 600 erano i dollari all'anno in più che ricevevano i professori che accettavano di insegnare in quelle scuole).

Il dubbio che la vita l'abbia condannato a essere un buono a nulla serpeggia minaccioso fino al 1962, in quello che deve sembrargli il giorno più bello dell'esistenza passata e futura: a 15 anni salta 7 metri e 34, vince la gara del salto in lungo alle Junior Olympics di New York e scopre di poter combinare qualcosa di utile. È un buon proposito che mantiene regolare negli anni successivi, quando arriva al metro e 89 di altezza e diventa il portento della natura ammirato in tutti gli States: corre le 100 yards in 9”5, supera i 16 metri nel triplo e sfiora i 2 metri nell'alto. Ha problemi di stacco, certo; ma a 18 anni salta 7.64, una misura che nella finale di Tokyo 1964 varrebbe il quinto posto. Nel 1965 è il secondo saltatore in lungo del Paese e riceve la famosa borsa di studio dall'Università di El Paso. Nel 1967 supera gli 8 metri, ritocca a 8.21 il primato statunitense indoor e vince il titolo nazionale, bissato all'aperto. Il 20 giugno 1968 rivince il titolo USA a Sacramento con 8.33, a due centimetri dal record. Ma la notte del 17 ottobre 1968, a Città del Messico, tutto questo non riesce a fare di lui un uomo sereno.

Le versioni sulle ultime ore da uomo qualunque di Bob Beamon sono varie e disparate, fino a sconfinare apertamente nel boccaccesco. Nella sua autobiografia The Man Who Could Fly mantiene una lirica distanza dalla realtà dei fatti: «Caddi in quello che per un atleta è cardinal sin, peccato mortale». Ai piaceri della carne non dev'essere estranea neppure la fidanzata Gloria, nella quale trova conforto complice anche qualche bicchiere di tequila ben assestato, consumato in qualche bar di Città del Messico. Appena finito, viene assalito dai sensi di colpa: «Prima mi sentivo la medaglia d'oro al collo, ma poi mi sembrò di averla appena gettata tra le lenzuola». Passa la sbornia, arriva il sonno. Da qui in avanti il discorso si farà serio e rischierà anche di trascendere nello spirituale, e meriterà perciò di essere trattato con estrema cautela.

Messico e nuvole

Il Messico del 1968 sbandiera grandi ambizioni, di gran lunga superiori ai mezzi a disposizione e all'onestà dei suoi governanti, e i Giochi ne sono la dimostrazione. Prendiamo per esempio l'ultimo tedoforo, per la prima volta nella storia olimpica una donna: la ventenne ostacolista Enriqueta Basilio, il modo migliore per sorprendere e spazzare la tradizionale retorica machista del Paese – anche se nei posti di comando dei Giochi messicani, beninteso, non c'è neanche una donna. Oppure prendiamo il manifesto, uno dei più belli della storia olimpica. Il presidente del comitato organizzatore è un architetto, Pedro Ramirez Vazquez, che vuole un disegno il più possibile lontano dallo stereotipo del messicano addormentato all'ombra del sombrero. Il vincitore del concorso è un altro newyorkese pronto al decollo, il trentenne Lance Wyman, che viene quindi incaricato della scenografia di un'intera città, dai palazzi ai mezzi di trasporto, inseguendo i dettami e le linee della pop art.

Nel memorabile poster che diventa il volto planetario dei Giochi di Città del Messico mischia i cinque anelli e il numero 68 fino a creare infinite linee curve cariche di tensione fisica e complessità emotiva, come fosse la copertina di un disco, come tutto il 1968 che in quest'ottobre volge al tramonto, mentre tutto il resto è solo all'inizio.

Quel sinuoso 68 compare dappertutto, sui pettorali, sugli attrezzi, sui sedili dell'Estadio Olimpico Universitario. Forse un po' della magia di quei risultati gli appartiene. I finalisti del salto in lungo sono in tutto 17; il primo a saltare è il giapponese Yamada: nullo. Il secondo è il giamaicano Brooks: nullo. Il terzo è il tedesco occidentale Baschert: nullo. «Oh beh», scherza Beamon sottovoce, «se non faccio nullo vado già in testa». È un pomeriggio strano: l'aria è sottile e frizzante, quasi elettrica, le nuvole in cielo sono sempre più nere e pesanti.

Il fotografo

Tony Duffy è un giovane uomo con l'hobby della fotografia e una grande fortuna: avere trent'anni in piena swingin' London, dove – come insegna Blow-up di Michelangelo Antonioni, e non solo – una semplice Nikon al collo può aprirti un sacco di porte. Una delle sue tante fidanzate dell'epoca si chiama Patricia Nutting ed è una delle migliori ostacoliste del Regno Unito. Un giorno l'ha invitato a una sua gara e lui le ha scattato un po' di foto, alcune delle quali sono state addirittura comprate da una rivista specializzata.

Nell'ottobre 1968 Patricia è già diventata una ex, ma i rapporti tutto sommato sono rimasti civili, tanto che lei gli regala una felpa del Team UK, che è quanto basta – il servizio di sicurezza è piuttosto blando – per intrufolarsi nel villaggio olimpico a caccia di istantanee. Tony ha colto l'occasione di un pacchetto turistico che dà accesso anche a numerosi impianti; per esempio, ha i biglietti per la sessione pomeridiana del 18 ottobre ma, appena arrivato, scopre con un po' di delusione che si tratta di banali posti in piccionaia (o come la chiamano gli americani, la “nosebleed section”: perché più in alto si sale, più aumenta il rischio di fuoriuscite di sangue dal naso). Poco male: a colpi di sorrisi, battute e pacche sulle spalle, il simpatico Duffy riesce a turlupinare il servizio d'ordine fino a portarsi nelle prime file, a meno di venti metri dalla pedana del salto in lungo. Il diluvio imminente sta allontanando il pubblico e anche per questo gli spalti sono ancora semivuoti; i pochi fotografi presenti sono già in posizione per la finale dei 400 metri, molto più appetitosa e spettacolare di un'estenuante finale di salto in lungo con diciassette partecipanti. Meglio così: la tuta inglese consente a Duffy di scegliersi la posizione migliore, proprio di fronte alla vasca di atterraggio.

«Non fare nullo, non fare nullo». Lo spavento del giorno prima ha lasciato qualche traccia. Alle 15:49 Bob Beamon ripassa meccanicamente il protocollo di ogni buon salto della sua vita. Chiude gli occhi per un istante, un bel respiro e si parte. Prima di staccare sono necessari diciannove passi ben calibrati, lunghi, a velocità crescente – l'aereo di John Carlos, no? - ma trentotto chilometri all'ora sono una punta mai raggiunta da nessun saltatore in lungo della storia, neanche da Jesse Owens. Beamon – l'ha ripetuto più volte lui stesso – non pensava a nulla durante la corsa: se ci fosse riuscito, si sarebbe spaventato lui per primo.

Userà un giro di parole efficace: «Mi sentivo come in un episodio di Twilight Zone», la famosa serie televisiva di storie verosimili che sconfinano nel fantascientifico, un Black Mirror degli anni Sessanta (in Italia è nota con il titolo “Ai confini della realtà”). Arrivato a diciannove passi Beamon stacca e decolla, senza avere il tempo di capire se il salto sia valido o no. Ora bisogna salire, camminare nell'aria, viaggiare quasi, arrivare fino a 178 centimetri d'elevazione in meno di mezzo secondo, ma cosa succede?, quanto lontano sto andando?, e sempre di più, con le gambe lunghissime che quasi escono dai vestiti, un ultimo slancio con il bacino, il braccio destro proteso in avanti, il braccio sinistro ad attivare le procedure di atterraggio. E poi giù, come un palazzo che implode: il corpo si rannicchia su sé stesso, le Adidas bianche affondano nella sabbia, anche se il fondoschiena non resiste alla gravità e dà una veloce spazzolata alla sabbia, lasciando il segno. Dannazione, ci avrò lasciato almeno dieci centimetri. Un occhio verso i giudici: bandiera bianca, il salto è buono. È molto buono.

I litri di adrenalina che attraversano le viscere di Bob Beamon gli consentono persino un altro paio di saltelli da canguro mentre si tira su, soddisfatto innanzitutto per aver evitato il nullo. Non è affatto pratico col sistema metrico decimale ed è rassegnato a chiedere la traduzione in piedi e pollici della misura – speriamo almeno 27 piedi! - che comparirà tra qualche secondo sul tabellone.

Per questi Giochi hanno installato un sistema di rilevazione elettronica, posizionato su un accrocchio che corre parallelo alla pista, fino a circa 8 metri e 60: ma c'è un intoppo. Beamon è andato troppo lungo. I giudici in giacca rossa si danno un gran daffare per procurarsi uno strumento manuale, una bindella, magari anche un metro da sartoria. Appena atterrato dalla Luna con dieci mesi d'anticipo sulla concorrenza, Beamon incrocia gli sguardi sbalorditi degli altri terrestri. Guarda avvicinarsi Boston, Davies, Ter-Ovanesyan, e non capisce se vogliono congratularsi oppure ammazzarlo. È il monolite nero di 2001: Odissea nello spazio fattosi uomo. Insieme passano venti lunghi minuti a guardare gli ufficiali di gara tentare la traduzione in cifre di quel volo impossibile. Il tempo si è fermato, si sentono appena le prime gocce di pioggia.

Poi arrivano i numeri, e quei numeri urlano: otto punto nove zero. Gli europei in gara hanno già capito. Beamon non ancora, deve pensarci Boston. «Hai saltato più di ventinove piedi, non è possibile. Ci hai uccisi tutti». Le foto e i filmati lo ritraggono come fulminato da questa notizia: si accascia su sé stesso, sembra urlare di dolore. Forse sta pagando solo adesso il conto dello sforzo appena effettuato, come un ubriaco che si sveglia in botta il mattino dopo. Forse per saltare otto metri e novanta serve una forza di quelle che strappano i muscoli e rompono le ossa. Qualche mese prima, ai Giochi Invernali di Grenoble, il sovietico Vladimir Belusov aveva conquistato l'oro nello ski jumping con un ultimo salto prodigioso. Mentre stava esultando, era stato colto dalla stessa crisi, che la scienza chiama “attacco cataplettico”: chi ne soffre perde il controllo dei muscoli e cade a terra, ma rimane sempre cosciente e vigile. Un deliquio passeggero, che dura meno di un minuto, strettamente legato a un momento di immane stress psico-fisico.

La performance di Beamon non ha precedenti nella storia dell'atletica leggera. C'erano voluti 38 anni per passare lentamente dall'8.08 all'8.35 del vecchio record; in cinque secondi Beamon ha piazzato l'asticella oltre mezzo metro più avanti. Non esiste. È come se domani sui 100 metri un alieno abbassasse il record di Bolt da 9”58 a 9”10. Il matematico Donald Potts quantificò in un 4% abbondante l'aiuto di altura e vento a favore e giunse a stabilire che, a vento nullo e al livello del mare, Beamon avrebbe saltato 8.56, comunque record. Qualcun altro eccepì sull'anemometro che segnava esattamente due metri a favore, asserendo che bisognava ricalibrarlo alla luce degli oltre duemila metri d'altitudine: un centimetro di più e il record non sarebbe stato omologato.

La finale perde ogni motivo d'interesse, e le cronache si riempiono soprattutto delle parole di sconforto degli avversari. «Io non posso continuare», argomenta il campione uscente Davies, «faremmo tutti la figura degli scemi» - finirà mestamente nono. «In confronto sembriamo tutti dei bambini», dice amaramente Ter-Ovanesyan. Come se ci fosse bisogno di sottolineare la dimensione ultraterrena di ciò che è appena successo, riprende a diluviare. Ripresosi a fatica, Beamon si concede lo sforzo a quel punto sovrumano di un secondo inutile salto, poco più che normale (8,04), prima di diventare un semplice spettatore del proprio capolavoro. Nel disinteresse generale l'outsider Klaus Beer, tedesco orientale, riesce a issarsi addirittura all'argento, mentre Boston completa il trionfo americano con un onorevole terzo posto, davanti a Ter-Ovanesyan medaglia di legno.

In quest'altro video a colori si notano anche i laboriosi metodi di rilevazione e l'allegro ballettino di Beamon immediatamente dopo l'atterraggio, ancora ignaro della misura.

E adesso?

Gli ronza già nella testa quel pensiero che sarà l'urlo silenzioso che gli farà compagnia per i mesi a venire: e adesso, come si fa a continuare? Come si può volare ancora, anche se volare è tutto ciò che sa fare? Come in una gara di salto in lungo, procederà per tentativi. Il suo nome compare in 189ª posizione, all'inizio del quindicesimo giro del Draft NBA 1969, l'anno in cui la prima scelta spetta a Milwaukee che va su un certo Lew Alcindor successivamente noto come Kareem Abdul-Jabbar. Invece Beamon viene scelto dai Phoenix Suns più per spirito di marketing che per reale convinzione, e non giocherà mai un minuto di NBA. Del resto, dopo la sbornia messicana, la competizione ormai lo disgusta: con qualche enorme sforzo di volontà riuscirà a tirare avanti altri due o tre anni, anche per monetizzare, ma senz'alcuna velleità agonistica. E a Monaco 1972 non proverà nemmeno a esserci.

Ma non finirà in malora come tanti altri atleti maledetti. Tanto per cominciare non rinuncerà alla sua coscienza civile, quella sera stessa. Salirà sul podio con i calzettoni alzati ed esibiti fino al ginocchio, in segno di solidarietà a Smith e Carlos, così come il campione dei 400 Lee Evans poco dopo, sfidando apertamente i suoi dirigenti: provate a cacciare anche me, l'atleta più famoso del mondo. Anche se non insisterà troppo sull'argomento, dopo, e per questo l'amico Carlos gli riserverà parole agrodolci: «Fu solidale con la nostra protesta, ma solo un po'. E non si può essere solo un po' incinta». Beamon si laureerà in sociologia nel 1972 all'Adelphi University di Long Island, diventerà tecnico, consulente, conferenziere, uomo immagine, membro di infinite Hall Of Fame. Soprattutto, metterà ordine nel suo passato con un coraggio e una lucidità insospettabili. Si ribellerà al trauma non elaborato di una madre che non ha mai avuto; gli renderà giustizia una vecchia zia, la sorella di sua madre, che gli racconterà la verità. Era figlio non di un marito violento, ma di un medico dell'ospedale in cui Naomi Brown lavorava da infermiera. Il padre - a questo punto patrigno – l'aveva minacciata di ammazzare lei e il bambino, se solo avesse osato portarlo a casa; i rapporti tra le due famiglie si erano bruscamente interrotti per questo motivo. E spunterà fuori una foto ingiallita, scovata dalla cugina Diane, in cui Naomi lo tiene in braccio appena nato, pochi mesi prima di morire: e Bob Beamon conoscerà finalmente il volto di sua madre.

Mentre il mondo impazziva, una persona rimase ostinatamente al suo posto. Tony Duffy racconterà anni dopo di averlo avuto tanto vicino da potergli vedere il bianco degli occhi, dandosi arie da cacciatore di tigri. Esagerazioni a parte, il suo lavoro portò almeno un risultato tangibile: la foto, da angolazione unica e irripetibile, di Beamon immortalato allo zenit del suo sforzo psicofisico, scomposto al massimo dello sforzo, la bocca aperta, i giudici impassibili a bordo pista, il tabellone elettronico sullo sfondo che rende freddamente conto dell'ordine d'arrivo della finale dei 200 femminili.

Inconsapevole del tesoro che aveva nella Nikon, Duffy si comportò come un turista qualsiasi. Aspettò due giorni per sviluppare il rullino, portandolo in un negozietto accanto all'hotel; quando tornò in camera e aprì la busta, iniziò una lenta disamina, immagine per immagine. Per riconoscere gli atleti, si aiutò con i numeri dei pettorali indicati sul programma ufficiale. La foto di Ralph Boston era venuta mossa, ma quella di Beamon – pettorale 254 - era perfetta. Nel giro di un paio di mesi era sulle copertine delle riviste sportive di mezzo mondo, sui poster, per impreziosire un libro. Qualche invidioso gli contestò l'autenticità dello scatto, ma Duffy aveva una controprova formidabile: Beamon aveva saltato solo due volte, e la seconda volta aveva indossato un paio di calzini di cui nella foto non c'era alcuna traccia. Grazie allo “scatto più fortunato della mia vita” mise da parte un piccolo tesoro che gli servì per prendere lezioni intensive di fotografia e aprire una piccola agenzia, la Allsport, che con gli anni divenne sempre più importante (sarà acquisita da Gettyimages nel 1998, compreso l'archivio che contiene la foto del Salto). Tre anni fa ha raccontato tutto, in un bell'articolo pubblicato sul sito Deadspin.com, puntellato di aneddoti strepitosi: “Alle Olimpiadi di Monaco, mentre stavo fotografando la finale del salto con l'asta, vidi accanto a me una signora piuttosto anziana. E pensai “Ehi, qua danno l'accredito a chiunque!”. Era Leni Riefenstahl”.

La foto di Beamon scattata da Tony Duffy comparve per la prima volta sulle due pagine centrali della rivista inglese “Amateur Photographer” del 4 dicembre 1968, sotto il titolo “Mexican Ballet”.

È dunque questa la storia di un volo senza precedenti, e mai più ripetuto. Si potrà obiettare che ai Mondiali di Tokyo 1991 Mike Powell ha fatto ancora meglio, 8,95 e medaglia d'oro dopo un duello epocale con Carl Lewis (“solo” 8,91 ventoso, in una finale da cinque salti a 8,82 di media: il fatto di non aver mai superato ufficialmente Beamon sarà il più grande rimpianto della carriera). Ma altri tempi, altri allenamenti, altra preparazione fisica, altre tecnologie, lo sport ai livelli più certosini di professionismo; soprattutto, nessuna magia. In un Sessantotto colmo di proteste, di sparatorie, di bengala, di elicotteri che intervenivano dal cielo per stroncare il presente, Beamon rispose volando lontano a immaginare il futuro. Vi sembra un'esagerazione? Interpellato sull'argomento, il dottor Ernst Jokl, luminare tedesco della neurologia sportiva, fu costretto ad allargare le braccia e ad annunciare la sconfitta dei numeri e della scienza: secondo i dati in suo possesso, un salto del genere non avrebbe dovuto verificarsi prima del 2052.

In pochi secondi Bob Beamon si era inventato e aveva messo in pratica il suo incommensurabile gesto di ribellione, la ribellione all'idea che tutto si può classificare, incasellare, imprigionare. Si era elevato al di sopra dei suoi problemi personali come avrebbe fatto due anni dopo il gabbiano Jonathan Livingston, in un romanzo di Richard Bach che avrebbe ispirato milioni di giovani in tutto il mondo: aveva scoperto la velocità perfetta. «Che non vuol dire volare a mille miglia all’ora, o a un milione, o alla velocità della luce. Perché qualunque numero è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. La velocità perfetta, figliolo, vuol dire solo esserci».

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura